Sunday, May 10, 2009

"Pirati somali", deportazioni, coalizioni militari e diritti umani negati

http://scienzamarcia.blogspot.com/2009/05/pirati-somali-deportazioni-coalizioni.html

"Pirati somali", deportazioni, coalizioni militari e diritti umani negati


L’ONU chiede d’intensificare le attività militari contro i pirati somali


di Antonio Mazzeo

Il rappresentante delle Nazioni Unite per il Corno d'Africa, Ahmedou Ould-Abdallah, ha chiesto maggiore impegno per contrastare la pirateria nel Golfo di Aden. “Credo fermamente che si debbano intensificare gli sforzi concreti, quali la forte presenza marittima internazionale al largo delle coste somale, volti a marginalizzare e quindi sconfiggere la pirateria, un flagello internazionale”, ha dichiarato Ould-Abdallah. Nel ringraziare le marine militari di Francia e Stati Uniti per le recenti sanguinose operazioni di cattura e deportazione di decine di presunti sequestratori, il rappresentante ONU ha affermato che “chi contribuisce alla presenza marittima internazionale sta svolgendo un lavoro eccellente”.

dire che l’azione militare è “essenziale” per “lanciare un forte messaggio ai pirati e a quanti li sostengono”, Ahmedou Ould-Abdallah ha chiesto ai paesi partecipanti alla crociata contro la pirateria di “identificare rapidamente e giudicare la responsabilità di coloro che sostengono finanziariamente tali attività”, pensando inoltre ad una “credibile attività di sviluppo” in Somalia.


Il rafforzamento delle operazioni di pattugliamento delle acque del Corno d’Africa, a cui partecipano già una settantina di fregate, cacciatorpediniere e navi da sbarco di Stati Uniti, NATO, UE, Cina, Russia, Iran e paesi africane e mediorientali, non è però considerata la scelta più opportuna ed appropriata dagli analisti militari occidentali. Per Peter Pham, direttore dell’Istituto di studi internazionali della “James Madison University” di Harrisonburg, Virginia, la fitta presenza navale nel Golfo di Aden sta accrescendo la possibilità che si verifichino gravi d’incidenti. “Penso innanzitutto ai rischi o d’incidenti navali che coinvolgano una parte delle unità e delle flotte che operano in un’area relativamente stretta e dove si concentra la maggior parte dei pattugliatori, ognuno dei quali segue regole di ingaggio differenti e spesso contraddittorie”, spiega Peter Pham. Per il docente è sempre più probabile che le numerose unità militari diventino facile bersaglio di azioni terroristiche da parte di gruppi dei sequestratori.

Lo scarso coordinamento tra le flotte che operano in Corno d’Africa, in particolare quelle battenti bandiera NATO e dell’Unione europea, preoccupa particolarmente anche Bjoern H. Seibert, ricercatore del Royal United Services Institute (RUSI) di Londra. “Le due missioni non cooperano come dovrebbero”, afferma Seibert. “Ciò duplica gli sforzi e il disordine che ne deriva può favorire i pirati. Ogni istituzione spera di provare la propria superiorità, la rivalità UE -NATO è inutile e forse anche controproduttiva. Per coprire rapidamente e in modo efficace un’area operativa vasta e sconosciuta e dove non si può contare sull’appoggio della nazione ospitante, è vitale il coordinamento tra le forze militari. Con strutture di comando separate, le duplicazioni e le contraddizioni sono inevitabili”. Per il ricercatore del RUSI non sono poi giustificabili i costi finanziari raggiunti dalle due missioni UE e NATO, specie adesso che “i budget per la difesa negli Stati Uniti e in Europa sono colpiti dalla crisi economica”.

Di certo i numeri non danno ragione a chi ha investito ingenti mezzi nella caccia marittima ai pirati. Secondo l’International Maritime Bureau, gli atti di pirateria al largo della Somalia sono decuplicati nel primo trimestre del 2009, rispetto allo stesso periodo del 2008 (6 contro 61). Così al Pentagono e a Bruxelles si guarda con sempre più favore alla possibilità di estendere la guerra sulla terraferma. Il summit internazionale convocato dalle Nazioni Unite il prossimo 23 aprile e che vedrà una trentina di Paesi discutere di pirateria, avrà tra i punti all’ordine del giorno la valutazione di un possibile piano d’attacco in territorio somalo.

“L’aumento del numero dei sequestri di navi mercanti dimostra che per contrastare la pirateria, gli sforzi in mare non sono sufficienti e che bisogna preparasi ad intervenire contro le basi terrestri”, commentano a Washington. Unità da sbarco di Stati Uniti Gran Bretagna, con a bordo centinaia di marines, sarebbero in rotta verso la Somalia ,mentre sono stati messi in stato d’allarme gli oltre 2.000 militari del Combined Joint Task Force – Horn of Africa, la forza di pronto intervento USA ospitata a Camp Lemonier (Gibuti), dipendente dal nuovo comando per le operazioni nel continente africano, Africom. Camp Lemonier è divenuto il principale hub logistico per le operazioni marittime nel Golfo di Aden e buona parte dei velivoli aerei di stanza nella base sono impegnati in missioni di sorveglianza anti-pirateria. Anche se alla task force USA è affidato un ampio ventaglio di interventi in un’area geografica che si estende dal Sudan al Sud Africa, la lotta per la “libertà di navigazione” ha contribuito enormemente all’accelerazione dei programmi di ampliamento e potenziamento della base di Gibuti. Camp Lemonier è oggi la maggiore delle installazioni militari USA in Africa; con un estensione di 500 acri (erano solo 94 nel 2004), ospita piste aeree e infrastrutture da guerra che solo nell’ultimo triennio hanno comportato per il Pentagono una spesa di più di 100 milioni di dollari.

Congiuntamente al rafforzamento del dispositivo terrestre, le compagnie marittime internazionali sono state autorizzate a dotarsi di strumenti autonomi di “difesa”. “Nel corso dei recenti attacchi, i marinai dei mercantili hanno dimostrato di essere capaci di difendersi contro i pirati e un buon numero di mercantili ha implementato manovre evasive ed altre misure difensive per proteggere i propri carichi”, ha dichiarato con soddisfazione il viceammiraglio Bill Gortney, comandante della forza navale marittima USA che presidia le acque del Golfo. Tra cannoni ad acqua, pistole a raggi laser e fili elettrici, spuntano come funghi contractor, vigilantes super armati e tiratori scelti.

Una delle società alla ricerca di un nuovo eldorado in Somalia è la Security Consulting Group (SCG) di Roma, già “Star Sicurezza”. Partner del Ministero degli Affari Esteri italiano, di ambasciate e autorità straniere (Turchia) e delle forze speciali di polizia di Brasile e Svizzera, la SGC è amministrata da Carlo Biffani, ufficiale della Brigata paracadutisti Folgore in congedo. “Abbiamo aperto una filiale a Gibuti e offriamo un team di ex militari che stiano a bordo dei mercantili per 4-5 giorni, armati con carabine di precisione, visori notturni e anche qualcosa di più pesante”, ha dichiarato Biffani. “Tra le nostre tecniche di difesa c’è l’uso di armi non letali affidate a personale specializzato, come i dissuasori acustici, da poco brevettati. che agiscono fino a una distanza di 200 metri e colpiscono l’udito fino a far male. I pirati sarebbero sotto il nostro tiro e senza possibilità di reagire. Sicuramente mollerebbero”.

In Iraq e Afghanistan si è avuto modo di conoscere i devastanti effetti dell’intervento dei contractor. Le conseguenze della privatizzazione dell’azione militare nel continente africano sono invece poco note. Secondo il Corriere della Sera, sarebbe stata provata la presenza di istruttori occidentali al servizio dei pirati somali. “Si tratta di impiegati delle società di sicurezza che erano state incaricate dal Governo federale di transizione somalo di proteggere le coste”, scrive il quotidiano. “Non sono stati mai pagati e così si sono riciclati loro stessi organizzando corsi di pirateria applicata. Per questo servizio sono stati pagati un milione di dollari”.

Sullo speciale di Nigrizia dedicato alla pirateria in Somalia, pubblicato lo scorso dicembre, lo studioso Roger Middleton riporta che le sorprendenti abilità nautiche dei pirati potrebbero essere il frutto di un contratto per la creazione di un dispositivo di sorveglianza delle coste affidato negli anni ’90 ad una compagnia privata di servizi di sicurezza. “L’iniziativa finì nel nulla, ma sembra che alcune apparecchiature acquistate per quel progetto sono attualmente usate nelle spedizioni piratesche”, scrive Middleton. “Membri degli equipaggi delle navi sequestrate hanno dichiarato di aver sentito i loro sequestratori vantarsi di essere stati guardacoste”. Sembra di assistere ad una versione somala dell’“Apprendista Stregone”.



Con le deportazioni dei pirati tramonta l’ultimo barlume di civiltà europea

di Antonio Mazzeo

Chi non riteneva che l’Unione europea potesse fare di peggio di quanto fatto con le recenti misure anti-immigrazione, dovrà ricredersi. Con le deportazioni in Kenya di decine di marinai somali sospettati di atti di pirateria, tramonta infatti ogni barlume di civiltà giuridica e si lascia presagire chissà ancora quali altre barbarie. Ad aprire la strada alle detenzioni “provvisorie” in navi da guerra trasformate in carceri galleggianti ci avevano pensato gli Stati Uniti d’America. Sempre gli USA avevano individuato la possibilità di deresponsabilizzarsi da istruttorie penali e processi, consegnando al Kenya i “pirati” catturati nel Golfo di Aden, affinché fossero le autorità locali ad emettere sentenze e far scontare condanne. Le deportazioni dell’US Navy hanno però cercato legittimazione in un accordo bilaterale con il governo del paese africano. L’Unione europea ha scelto invece la scorciatoia del carteggio segreto: secondo Bruxelles, per disfarsi dei prigionieri e farli marcire in presidi simili a gironi infernali, bastano un paio di missive dirette ad uno dei governi che eccelle per corruzione e violazione dei diritti umani.

Il 6 marzo 2009, il rappresentante della Commissione europea scrive al governo di Nairobi: “Con riferimento alla mia lettera datata 14 novembre 2008 e alla Sua lettera datata 5 dicembre 2008, mi pregio di confermare l’intenzione dell’UE di concludere con il governo del Kenya uno scambio di lettere allo scopo di definire condizioni e modalità del trasferimento delle persone sospettate di aver commesso atti di pirateria in alto mare fermate dalla forza navale diretta dall’Unione europea (EUNAVFOR), e del loro trattamento dopo tale trasferimento”. Assicurando che saranno consegnati pure i “beni sequestrati” dalla flotta di guerra, Bruxelles chiede che il Kenya sottoponga i prigionieri “alle proprie autorità competenti ai fini delle indagini e dell’azione giudiziaria”. Le persone trasferite - si annuncia - “saranno trattate in modo umano ed in conformità agli obblighi internazionali in materia di diritti umani, incluso il divieto della tortura o di qualsiasi altro trattamento o pena crudele, disumana o degradante e il divieto della detenzione arbitraria ed in conformità al requisito del diritto a un processo equo”. Omesso il modo e chi lo potrà verificare, ma non importa, basta la fiducia tra le parti.

Vengono poi elencate le “garanzie minime” a cui il deportato avrà diritto: l’essere informato “nel più breve tempo possibile e in una lingua ad esso comprensibile” (niente tempi certi dunque, né uso della lingua madre), della natura dell’accusa formulata; non essere trasferito in un paese terzo “senza un consenso scritto preliminare dell’EUNAVFOR”; la documentazione, “per quanto possibile”, della detenzione applicata, delle condizioni fisiche, dei trasferimenti effettuati, ecc.. Il Kenya dovrà notificare al comando della flotta militare europea (che sarà l’unico ente che avrà accesso alle informazioni sui procedimenti), il luogo di detenzione dei prigionieri, il deterioramento della loro condizione fisica e - come si legge testualmente - “le indicazioni di presunto trattamento indebito”.

Nel dubbio per la reale disponibilità delle autorità keniane ad autodenunciarsi per violazione dei diritti umani, i rappresentanti dell’UE si riservano il diritto di accedere ai luoghi dove verranno imprigionati i “pirati”. Come e quando glielo consentiranno le autorità keniane, sarà poi tutto da vedere. Ma Bruxelles sembra voler eccedere in buona fede. Delibera infatti, in nome del partner africano, che “nessuna persona trasferita potrà essere condannata alla pena di morte”. Se è pur vero che il Kenya, da qualche tempo, non applica la pena capitale, essa non è mai stata formalmente abrogata e quando nell’agosto del 2007 fu presentata una mozione per l’abolizione, il Congresso la respinse a grande maggioranza. È stata poi tanta la fretta di fare entrare in vigore le disposizioni anti-pirati (il 6 marzo), che UE e Nairobi hanno deciso di rinviare ad un futuro incerto la regolazione di eventuali “disposizioni di attuazione” dell’accordo postale. Elementi tutt’altro che secondari, relativi ad esempio all’“individuazione delle competenti autorità keniane a cui l’EUNAVFOR può trasferire le persone” o alla identificazione dei luoghi di detenzione.

Memoria corta, anzi cortissima, quella dell’establishment politico del vecchio continente. Il capo che governa il paese a cui si affidano i propri prigionieri di guerra è stato eletto dopo una delle più cruente campagne elettorali della sua storia. Come ricorda un recentissimo rapporto di Amnesty International, la vigilia del voto del 27 dicembre 2007 e i mesi successivi all’ufficializzazione dei risultati, sono stati caratterizzati da inauditi episodi di violenza, con quasi 500 morti, proprietà bruciate e decine di migliaia di persone sfollate dalle città di Eldoret, Kericho e Kisumu.

L’Unione europea ha seguito con insolita attenzione la campagna di terrore. Nel gennaio 2008, fu approvata una risoluzione presentata al Parlamento di Strasburgo da Valdis Dombrovskis Colm Burke, Maria Martens, Filip Kaczmarek e Horst Posdorf. Nel condannare “la violenza politica e la conseguente crisi umanitaria” in Kenya, la mozione affermava che le elezioni presidenziali “non hanno rispettato le basilari norme internazionali e regionali per elezioni democratiche” e che la fase di scrutinio “mancava di credibilità”. Deplorando poi il comportamento omissivo delle autorità di governo, il Parlamento chiedeva al presidente Mwai Kibaki di “acconsentire a una verifica indipendente del voto”, ed eventualmente indire nuove elezioni. Nulla di ciò è stato fatto.
Le autorità di Nairobi hanno scelto di fare orecchie da mercante alle innumerevoli denunce per violazione dei diritti umani, presentate dalle maggiori organizzazioni internazionali. Amnesty International ricorda che nel paese africano sono purtroppo ricorrenti gli abusi della polizia, le limitazioni della libertà politica dei cittadini, la mancata accoglienza di profughi e sfollati (in buona parte somali), e la violenza verso le donne. “La polizia keniota è stata più volte accusata di violare i diritti umani dei cittadini applicando la tortura e l’omicidio non giustificato”, scrive AI. “La polizia è stata accusata di sparare ai sospetti criminali in situazioni in cui era possibile l’arresto. Su questi abusi non sono state aperte indagini e non sono state chieste spiegazioni ai responsabili del corpo della polizia”. Gran parte delle violenze sono avvenute durante le operazioni di repressione delle proteste post-elettorali, ma altre sono legate alla campagna militare lanciata nel giugno 2008 contro il movimento autonomo dei “Mungiki” (“moltitudine” in lingua kikuyu). Secondo fonti indipendenti, la polizia ha assassinato 73 presunti sostenitori dei Mungiki, mentre gli arresti sarebbero stati quasi 2.500. Altrettanto sanguinoso l’intervento delle forze militari e di polizia nei confronti del “Sabaot Land Defence Force (SLDF)”, un gruppo guerrigliero attivo nell’area del Mount Elgon. Le organizzazioni umanitarie internazionali e la Chiesa cattolica hanno denunciato numerosi casi di tortura e di uccisioni extragiudiziarie di prigionieri dell’SLDF.
Arresti, detenzioni, maltrattamenti e trasferimenti forzati sono stati eseguiti “in assenza di accuse specifiche e accompagnati dalla violazione di diritti civili”, in applicazione delle leggi speciali concepite dal governo keniano per la cosiddetta “guerra al terrorismo”. Ancora Amnesty International ricorda che nel solo periodo compreso tra il gennaio e il febbraio 2007, almeno 85 detenuti sono stati trasferiti illegalmente “dalla Somalia e poi verso l’Etiopia, assieme ad altre persone detenute dalle truppe etiopi in Somalia”.

Nel febbraio 2008, AI ha lanciato un’azione urgente per chiedere alle autorità locali di proteggere nove difensori dei diritti umani keniani (sei uomini e due donne), che avevano ricevuto minacce di morte. Un anno più tardi, esattamente il 5 marzo 2009, a Nairobi sono stati assassinati due di questi attivisti. Uno di essi era Oscar Kamau King’ara, fondatore e direttore esecutivo della Oscar Foundation, organizzazione per i diritti civili che aveva denunciato gli abusi della polizia nelle operazioni contro i Mungiki, incluse centinaia di esecuzioni extragiudiziali nella capitale e in altre località del Kenya. Alcune ore prima dell’omicidio, il portavoce del governo, Alfred Mutua, aveva accusato la Oscar Foundation di “ambigue connessioni finanziarie” con i Mungiki. L’ong aveva pure accusato le forze dell’ordine dell’esecuzione extragiudiziale di 1.721 giovani e della scomparsa di altri 6.542.

Sembra paradossale, ma i “cugini” della NATO hanno mostrato qualche scrupolo in più dell’UE in tema di trattamento dei “pirati” catturati nelle acque del Corno d’Africa. Nel corso di un incontro con gli ambasciatori presso l’Alleanza Atlantica, il portavoce della struttura militare, il neo Segretario Generale, Anders Fogh Rasmussen si è lamentato per la carenza di norme certe in materia. “Non c'è una legislazione internazionale uniformemente applicabile ed alcuni Paesi proprio non hanno norme contro la pirateria”, ha dichiarato Rasmussen. “Ci si arrangia applicando la legislazione della nave sulla quel i pirati sono stati trovati, ma spesso questo non basta. Per affrontare questa vicenda sarebbe interessante valutare la proposta di un tribunale dell’Onu per giudicare questi crimini”. Sulle cause socio-economiche e le responsabilità internazionali che spingono centinaia di giovani africani a rischiare la vita nel tentativo di sequestro di una nave mercantile, il silenzio di ONU, UE e NATO è invece unanime.



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2 comments:

  1. Sanguinose catture di pirati? Si riferisce forse ai 3 banditi uccisi mentre avevano un ostaggio inerme?
    Pistole laser per difendere le navi?
    Mi stò perdendo LOL

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  2. Ma il signor mazzeo non sa che cosa sia l'apologia di reato ?
    Gli faccio il sincero augurio di trovarsi su un mercantile che venga attaccato da quei poveri marinai somali e quindi sequestrato dagli stessi. Vediamo se si commuovono sapendo che e' un loro difensore e lo liberino.

    Ma fammi il piacere mazzeo, va a lavorare e non dire cazzate !!!

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