Tuesday, February 22, 2011

Suicidio bianco

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Suicidio bianco

Suicidio, un argomento doppiamente tabù, poiché è legato alla morte e per giunta ad una morte volontaria. Nel mondo contemporaneo desacralizzato abbiamo rimosso la morte ed il suicidio stesso è sterilizzato con le espressioni eufemistiche e guardinghe “folle gesto”, “insano gesto…” Recentemente il regista Mario Monicelli, non potendo più tollerare i patimenti cagionati dalla malattia e soprattutto la condizione di avvilimento in cui l’infermità lo aveva sprofondato, si è tolto la vita. È stato un atto stoico, come quello dello scrittore latino Silio Italico (25-101 d.C.): l'autore dei Punica, colpito da un tumore, si lasciò morire di inedia.

Strana azione il suicidio, in cui un ardimento formidabile talvolta si mischia ad una forma di pusillanimità. E’ facile biasimare ed obiurgare i suicidi: ma noi riusciremmo (o riusciremo) a tollerare l’intollerabile, senza passare sul collo la gelida lama dell’autodistruzione? Avanti e indietro, indietro ed avanti. Sempre più vicina alla pelle, imperlata di sudore.

Il carattere letterario ed eroico del suicidio ne ha ingrandito il valore e nel contempo alleggerito il peso di inabissamento nel buio. Se passiamo in rassegna le morti volontarie dell’antichità, è tutta una galleria di figure colossali che rinunciarono alla vita in nome di un ideale nobile: viene in mente soprattutto il suicidio di Catone Uticense, una virile protesta contro chi conculcava la libertà. Anche Cleopatra VII si lasciò mordere da un aspide (o da una vipera africana) – se l‘ultima regina d’Egitto non fu assassinata – per non essere umiliata dal vincitore, lo spregiudicato Ottaviano.

In questi suicidi celebri, l’atto è congelato nel suo momento culminante, nell’esistenza che si impietrisce nell’istante senza tempo del trapasso: agli storici ed ai romanzieri il compito di eternarli nella loro austera, tragica bellezza.

In antitesi ai suicidi illustri, si consumano nell’ombra e persino nella vergogna le morti deliberate degli uomini comuni: quando frequentavo l’università, conobbi uno studente iscritto a Giurisprudenza. Era un ragazzo gioviale ed alacre. Alcuni anni dopo venni a sapere, con meraviglia e sgomento, che si era tolto la vita. Sposato felicemente con una sua concittadina che gli aveva dato un figlio, aveva deciso di porre fine alla sua esistenza: non compresi mai il motivo. Fu la solitudine? La spina acuta del “male di vivere”? Una malattia invalidante? Che importa saperlo!

Se il nero è tradizionalmente nella cultura occidentale il colore della morte, il colore del suicidio può essere il bianco: un “silenzio bianco” avvolge l’harakiri. Questa è la tinta da temere: molto più terribile di una pagina ottenebrata dall’inchiostro della disperazione, è una pagina bianca.

“Non scriverò più. Solo un gesto”. Così Cesare Pavese sigillò il suo diario, “Il mestiere di vivere”. Quando il grido si spenge nel nulla, quando l’ultima parola si strascica in un’asola incompleta, in un taglio sottile assediato dal vuoto divorante del foglio, allora significa che, se non è il preludio del nirvana, è ormai imminente la decisione irrevocabile.


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