http://zret.blogspot.com/2011/10/fra-le-rime-del-sonetto.html
Fra le rime del sonetto
La
presenza presso la corte di Federico II Hohenstaufen di matematici come
Leonardo Fibonacci (1170-1240) oltre all’influsso esercitato dalla
cultura araba ed ebraica ha suggerito allo studioso Wilhelm Potters
un’ipotesi curiosa sull’origine del sonetto, componimento formato da due
quartine e due terzine per un totale di quattordici versi.
Secondo l’erudito olandese, la struttura del sonetto, la cui invenzione è quasi in modo unanime attribuita a Jacopo da Lentini, esponente della scuola siciliana, potrebbe essere la proiezione in forma poetica delle misure con cui i matematici del tempo cercavano di risolvere i tradizionali problemi circa la misurazione del cerchio. Nei trattati del XIII sec. il rapporto tra circonferenza e diametro del cerchio era indicato con la frazione 22/7, approssimazione del numero irrazionale che, a partire dal XVIII sec., fu rappresentato con π (3,14). Ora – rileva Potters – i sonetti, nei manoscritti medievali, spesso erano trascritti a coppie di versi affianacati per vari motivi, fra i quali quello dettato della necessità di risparmiare il materiale scrittorio. Un sonetto dunque poteva incontrarsi in due colonne di sette versi ciascuna.
Con tale strategia di trascrizione il componimento, considerato in orizzontale, risulta costituito da 7 righe, ciascuna delle quali consta di 2 endecasillabi, per un totale di 22 sillabe metriche. I numeri 11 e 14, che connotano il componimento a strofa fissa, nel “De mensura circuli” di Archimede illustrano la relazione tra il circolo ed il quadrato circoscritto, mentre nel trattato “Practica geometriae” di Fibonacci, redatto intorno al 1220, le frazioni 22/7 e 11/14 ricorrono riferite ai computi di misurazione della circonferenza. [1]
Vista l’importanza estetica ed esoterica che assunse nel Medioevo la figura del cerchio, la supposizione di Potters potrebbe non essere del tutto priva di fondamento. Tuttavia, la frequenza di certe cifre troverebbe, a mio parere, un riscontro nel clima della corte sveva. Il mileu di Federico II fu un crogiolo culturale dove contributi bizantini, normanni, provenzali, arabi ed ebraici si fusero in una compagine feconda. Così, il 7 ed il 22 soprattutto evocano tradizioni cabalistiche: si pensi ai sette bracci della Menorah ed alle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico.
Comunque la si pensi, è indubbio che l’arte e la letteratura medievali, almeno nelle sue manifestazioni più alte, sono intessute di significati allegorici, di valori la cui decifrazione richiede la conoscenza di codici segreti, l’uso di chiavi ad hoc. Si dimentichi di poter interpretare talune espressioni artistiche solo ricorrendo alla “tetralogia” enunciata nella pseudo-dantesca “Lettera a Cangrande della Scala”.
Rimaniamo in ambito poetico duecentesco. Guido Guinizzelli, nella strofa conclusiva del sonetto “Omo ch’è saggio non corre leggero”, sentenzia: “Deo natura e’ l mondo in grado mise e fe’ dispari senni e intendimenti: perzò ciò ch’omo pensa non dé dire”, “Dio creò la natura ed il mondo, secondo una gerarchia e fece differenti intelligenze e modi di vedere le cose: perciò non si deve esprimere ciò che si pensa.” Nella composizione, concepita e vergata come risposta a Bonagiunta Orbicciani da Lucca, che aveva criticato l’intellettualismo del rimatore bolognese, quest’ultimo rivendica la sua scelta di una poesia nutrita di conoscenze filosofiche e scientifiche. Guinizzelli sostiene qui una concezione se non iniziatica dell’esperienza artistica, aristocratica.
Del resto, in un componimento dalla musicalità quasi cantabile e “facile”, grazie alle allitterazioni ed alla scansione regolare delle unità, l’autore adombra persino, pur nelle ripresa di tòpoi trobadorici, riconoscibili da un pubblico anche non particolarmente scaltrito, le norme araldiche. Nei vv. 6 e 7, infatti, dove si legge “ tutti color di fior’, giano e vermiglio, oro ed azzurro e ricche gioi per dare”, il capostipite dello Stilnovismo si richiama alla convenzione araldica secondo cui gli smalti (colori e metalli, cioè oro ed argento) sono associati secondo precise ed inderogabili regole.
Anche “la rosa e lo giglio” del v. 2, fiori tradizionalmente legati alla figura della Vergine, non prescindono forse da valenze profonde, “eccentriche”, ma il discorso ci porterebbe lontano…
Fonti:
C. Bologna, P. Rocchi, Rosa fresca aulentissima, p. 182, Torino, 2010
Enciclopedia del Medioevo, Milano, 2007, s. v. Federico II, Fibonacci
W. Potters. Nascita del sonetto. Metrica e matematica al tempo di Federico II, 1998
[1] Lo statunitense Steven Botteril accoglie l’ipotesi di Potters circa la genesi “matematica” del sonetto con una certa perplessità. Per quanto mi riguarda, mi convincono poco certe interpretazioni incentrate su codici e numeri.
Secondo l’erudito olandese, la struttura del sonetto, la cui invenzione è quasi in modo unanime attribuita a Jacopo da Lentini, esponente della scuola siciliana, potrebbe essere la proiezione in forma poetica delle misure con cui i matematici del tempo cercavano di risolvere i tradizionali problemi circa la misurazione del cerchio. Nei trattati del XIII sec. il rapporto tra circonferenza e diametro del cerchio era indicato con la frazione 22/7, approssimazione del numero irrazionale che, a partire dal XVIII sec., fu rappresentato con π (3,14). Ora – rileva Potters – i sonetti, nei manoscritti medievali, spesso erano trascritti a coppie di versi affianacati per vari motivi, fra i quali quello dettato della necessità di risparmiare il materiale scrittorio. Un sonetto dunque poteva incontrarsi in due colonne di sette versi ciascuna.
Con tale strategia di trascrizione il componimento, considerato in orizzontale, risulta costituito da 7 righe, ciascuna delle quali consta di 2 endecasillabi, per un totale di 22 sillabe metriche. I numeri 11 e 14, che connotano il componimento a strofa fissa, nel “De mensura circuli” di Archimede illustrano la relazione tra il circolo ed il quadrato circoscritto, mentre nel trattato “Practica geometriae” di Fibonacci, redatto intorno al 1220, le frazioni 22/7 e 11/14 ricorrono riferite ai computi di misurazione della circonferenza. [1]
Vista l’importanza estetica ed esoterica che assunse nel Medioevo la figura del cerchio, la supposizione di Potters potrebbe non essere del tutto priva di fondamento. Tuttavia, la frequenza di certe cifre troverebbe, a mio parere, un riscontro nel clima della corte sveva. Il mileu di Federico II fu un crogiolo culturale dove contributi bizantini, normanni, provenzali, arabi ed ebraici si fusero in una compagine feconda. Così, il 7 ed il 22 soprattutto evocano tradizioni cabalistiche: si pensi ai sette bracci della Menorah ed alle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico.
Comunque la si pensi, è indubbio che l’arte e la letteratura medievali, almeno nelle sue manifestazioni più alte, sono intessute di significati allegorici, di valori la cui decifrazione richiede la conoscenza di codici segreti, l’uso di chiavi ad hoc. Si dimentichi di poter interpretare talune espressioni artistiche solo ricorrendo alla “tetralogia” enunciata nella pseudo-dantesca “Lettera a Cangrande della Scala”.
Rimaniamo in ambito poetico duecentesco. Guido Guinizzelli, nella strofa conclusiva del sonetto “Omo ch’è saggio non corre leggero”, sentenzia: “Deo natura e’ l mondo in grado mise e fe’ dispari senni e intendimenti: perzò ciò ch’omo pensa non dé dire”, “Dio creò la natura ed il mondo, secondo una gerarchia e fece differenti intelligenze e modi di vedere le cose: perciò non si deve esprimere ciò che si pensa.” Nella composizione, concepita e vergata come risposta a Bonagiunta Orbicciani da Lucca, che aveva criticato l’intellettualismo del rimatore bolognese, quest’ultimo rivendica la sua scelta di una poesia nutrita di conoscenze filosofiche e scientifiche. Guinizzelli sostiene qui una concezione se non iniziatica dell’esperienza artistica, aristocratica.
Del resto, in un componimento dalla musicalità quasi cantabile e “facile”, grazie alle allitterazioni ed alla scansione regolare delle unità, l’autore adombra persino, pur nelle ripresa di tòpoi trobadorici, riconoscibili da un pubblico anche non particolarmente scaltrito, le norme araldiche. Nei vv. 6 e 7, infatti, dove si legge “ tutti color di fior’, giano e vermiglio, oro ed azzurro e ricche gioi per dare”, il capostipite dello Stilnovismo si richiama alla convenzione araldica secondo cui gli smalti (colori e metalli, cioè oro ed argento) sono associati secondo precise ed inderogabili regole.
Anche “la rosa e lo giglio” del v. 2, fiori tradizionalmente legati alla figura della Vergine, non prescindono forse da valenze profonde, “eccentriche”, ma il discorso ci porterebbe lontano…
Fonti:
C. Bologna, P. Rocchi, Rosa fresca aulentissima, p. 182, Torino, 2010
Enciclopedia del Medioevo, Milano, 2007, s. v. Federico II, Fibonacci
W. Potters. Nascita del sonetto. Metrica e matematica al tempo di Federico II, 1998
[1] Lo statunitense Steven Botteril accoglie l’ipotesi di Potters circa la genesi “matematica” del sonetto con una certa perplessità. Per quanto mi riguarda, mi convincono poco certe interpretazioni incentrate su codici e numeri.
approssimazione del numero irrazionale
ReplyDeletePer la precisione zret, il rapporto tra circonfernza e diametro del cerchio, detto pi greco, e' un numero trascendente in quanto non e' radice di nessuna equazione polinomiale a coefficienti razionali ...
Beh.. non é farina del suo sacco ma é intererssante.
ReplyDeleteZret mi sembra meno sbarellato del fratello.