Oltre l'uomo
E’
celeberrima la lode dell’uomo tessuta da Giovanni Pico della Mirandola
nell’“Oratio de hominis dignitate”. All’incirca negli stessi anni un
intellettuale non integrato. Leon Battista Alberti, nel “Momus sive de
principe”, conduce un discorso sul valore della rarità e dell’ingegno
che rendono l’uomo quasi divino.
Nel Prologo dell’inusuale romanzo in latino, l’autore scrive: “Il principe e l’artefice delle cose, il Dio otttimo e massimo, mentre distribuì tutte le qualità più ammirevoli alle sue creature in modo tale che a ciascuna singolarmente toccasse almeno un segno delle più alti lodi divine, volle riservare a sé – è chiaro, lo si tocca con mano – il privilegio di essere l’unico e solo interamente fornito delle qualità di una divinità totale. Diede, infatti, forza agli astri, splendore al cielo, alla terra bellezza, ragione ed immortalità alle anime, distribuendo tutte le meraviglie di questa sorta alle singole cose quasi una per una e, in quanto a sé, volle essere l’unico dotato in tutti i suoi aspetti di quella perfezione che non ha pari. Proprio questa qualità, se non andiamo errati, va ritenuta la prima in un ente divino: essere senza concorrenza, unico e solo.
Da ciò deriva che tutte le rarità, cioè quelle che non hanno la minima somiglianza con tutte le altre, per antica opinione degli uomini sono giudicatequasi divine. Così gli eventi mostruosi, i prodigi, le strane apparizioni ed i fenomeni del genere, per il fatto di accadere raramente, erano annoverati dagli antichi tra i segni della sacra presenza degli dei. La natura, come si è potuto osservare a memoria d’uomo sino ad oggi, ha messo insieme l’immensità e la stranezza con la rarità, tanto che pare che non sia capace di concepire nulla di bello e di grandioso che non sia anche raro. E’ forse per questo che, se notiamo persone che spiccano per ingegno ed emergono dalla massa, in modo da essere ciascuna secondo i suoi titoli di merito, fuori del comune e quindi rare, le definiamo divine e le facciamo oggetto di ammirazione ed onori assai simili a quelli divini, spinti dall’insegnamento della natura. Per questa via ci rendiamo conto che tutte le rarità hanno un che di divino, in quanto tendono ad essere considerate uniche e fuori dell’ordinario, ben distinte dall’ammasso di tutte le altre cose”.
Non sfugga in primo luogo quale lievissima ironia s’insinui nella glorificazione stessa di Dio, ente che non ammette rivalità alcuna. Si osservi anche come Leon Battista Alberti dipinge la natura le cui radiose sembianze sono increspate di stranezze, percorse da linee irrazionali (“l’ammasso di tutte le cose”).
Ci si comincia poi a scostare dall’immagine precipua nel Rinascimento dell’uomo inteso come fulcro dell’universo. La celebrazione di Pico ci appare, se confrontata con la pagina dell’Alberti, grandiosa, nel suo fervente entusiamo, nel suo afflato solenne, nella nostalgica descrizione dell’Adam Kadmon, ma pure teorica. L’uomo, con Alberti, è ancora al centro, ma il suo ruolo principia a diventare eccentrico. Il vero uomo, infatti, emerge dalla massa: è l’individuo eccezionale che palesa in sé qualcosa di divino. “Alberti – glossano Bologna e Rocchi – risolve il tema dell’artista-genio – centrale nell’Umanesimo – con la sua assimilazione al genio-creatore: l’artista è, come dice l’autore nel ‘De pictura’, alter deus. E’ interessante notare come nella visione da lui proposta si intraveda quell’associazione tra follia e talento artistico che ebbe tanta fortuna nei secoli successivi. La stessa rappresentazione dell’alterità rispetto alla massa implica la coscienza di una natura eccezionale che comporta anche, in qualche misura, un’esclusione”.
Sono indicazioni istruttive: l’uomo vero si differenzia rispetto al volgo (la massa) e trascende la sua stessa natura umana per (ri)scoprire un’impronta superiore. Spesso si legge che in ogni essere umano, in quanto tale, balugina una scintilla divina, ma saremmo tentati di concordare con Alberti che, con un inatteso scarto, sposta l’attenzione dall’uomo tout court all’individuo straordinario. L’uomo è tale se e solo se è creatore, ossia se è in grado di elevarsi dalla condizione meramente biologica per provare a costruire il senso del mondo, a tracciare il profilo della vita. Così, se consideriamo il vuoto che riempie gli involucri definiti in mancanza di un termine migliore “uomini”, vedremo un discrimine preciso tra vari livelli, se non categorie. E’ possibile che, a guisa di una polla prosciugata da un lungo periodo di aridità, la coscienza in molti sia evaporata. I tempi duri e ferrigni che viviamo concorrono in modo determinante a tale inaridimento, ma un quid antropologico scava un solco. E’ un qualcosa la cui essenza e matrice si sottrae. Purtuttavia, come in presenza di quelle sensazioni dai contorni molto sfumati, ma con effetti indubitabili sul nostro spirito, sentiamo che è così. Si giunge a codesta conclusione con dolore e per esperienza, non per aprioristico sprezzo del prossimo. Se si pensa ad un argomento contro Dio, più che il male è forse la conoscenza e la frequentazione di certe creature malriuscite a rafforzare la tesi negatoria. Con calzante sintagma T.S. Eliot le bolla come “hollow men”, “uomini vuoti”: lo sguardo vacuo li alligna nella superficialità più epidermica che assurge a summa dei peccati capitali.
E’ naturale che non si può essere assertivi: la natura umana è, per sua natura, contraddittoria e complessa. Attrae e ripugna, suscita fiducia e disinganno, empatia ed avversione. Gli abissi luminosi sono sovrastati da cieli neri, senza stelle. La disgregazione è, in parte, bilanciata dalle sublimi opere degli artisti. Giustamente, però, Alberti, contrappuntato l’elogio dell’uomo pichiano (che è l’archetipo della creatura antecedente alla caduta, prima della storia), con il suo umoristico disincanto, delinea la fisionomia dell’uomo di genio, prima o dopo, in inevitabile rotta di collisione con la storia e la società. Anche se non si è dei genii, lo scatto dell’intelletto e la diagonalità dello sguardo dislocano ai margini della “realtà” convenzionale. L’emarginazione e la solitudine sono il prezzo da pagare per essere sé stessi e non “uomini vuoti”… a perdere.
Nel Prologo dell’inusuale romanzo in latino, l’autore scrive: “Il principe e l’artefice delle cose, il Dio otttimo e massimo, mentre distribuì tutte le qualità più ammirevoli alle sue creature in modo tale che a ciascuna singolarmente toccasse almeno un segno delle più alti lodi divine, volle riservare a sé – è chiaro, lo si tocca con mano – il privilegio di essere l’unico e solo interamente fornito delle qualità di una divinità totale. Diede, infatti, forza agli astri, splendore al cielo, alla terra bellezza, ragione ed immortalità alle anime, distribuendo tutte le meraviglie di questa sorta alle singole cose quasi una per una e, in quanto a sé, volle essere l’unico dotato in tutti i suoi aspetti di quella perfezione che non ha pari. Proprio questa qualità, se non andiamo errati, va ritenuta la prima in un ente divino: essere senza concorrenza, unico e solo.
Da ciò deriva che tutte le rarità, cioè quelle che non hanno la minima somiglianza con tutte le altre, per antica opinione degli uomini sono giudicatequasi divine. Così gli eventi mostruosi, i prodigi, le strane apparizioni ed i fenomeni del genere, per il fatto di accadere raramente, erano annoverati dagli antichi tra i segni della sacra presenza degli dei. La natura, come si è potuto osservare a memoria d’uomo sino ad oggi, ha messo insieme l’immensità e la stranezza con la rarità, tanto che pare che non sia capace di concepire nulla di bello e di grandioso che non sia anche raro. E’ forse per questo che, se notiamo persone che spiccano per ingegno ed emergono dalla massa, in modo da essere ciascuna secondo i suoi titoli di merito, fuori del comune e quindi rare, le definiamo divine e le facciamo oggetto di ammirazione ed onori assai simili a quelli divini, spinti dall’insegnamento della natura. Per questa via ci rendiamo conto che tutte le rarità hanno un che di divino, in quanto tendono ad essere considerate uniche e fuori dell’ordinario, ben distinte dall’ammasso di tutte le altre cose”.
Non sfugga in primo luogo quale lievissima ironia s’insinui nella glorificazione stessa di Dio, ente che non ammette rivalità alcuna. Si osservi anche come Leon Battista Alberti dipinge la natura le cui radiose sembianze sono increspate di stranezze, percorse da linee irrazionali (“l’ammasso di tutte le cose”).
Ci si comincia poi a scostare dall’immagine precipua nel Rinascimento dell’uomo inteso come fulcro dell’universo. La celebrazione di Pico ci appare, se confrontata con la pagina dell’Alberti, grandiosa, nel suo fervente entusiamo, nel suo afflato solenne, nella nostalgica descrizione dell’Adam Kadmon, ma pure teorica. L’uomo, con Alberti, è ancora al centro, ma il suo ruolo principia a diventare eccentrico. Il vero uomo, infatti, emerge dalla massa: è l’individuo eccezionale che palesa in sé qualcosa di divino. “Alberti – glossano Bologna e Rocchi – risolve il tema dell’artista-genio – centrale nell’Umanesimo – con la sua assimilazione al genio-creatore: l’artista è, come dice l’autore nel ‘De pictura’, alter deus. E’ interessante notare come nella visione da lui proposta si intraveda quell’associazione tra follia e talento artistico che ebbe tanta fortuna nei secoli successivi. La stessa rappresentazione dell’alterità rispetto alla massa implica la coscienza di una natura eccezionale che comporta anche, in qualche misura, un’esclusione”.
Sono indicazioni istruttive: l’uomo vero si differenzia rispetto al volgo (la massa) e trascende la sua stessa natura umana per (ri)scoprire un’impronta superiore. Spesso si legge che in ogni essere umano, in quanto tale, balugina una scintilla divina, ma saremmo tentati di concordare con Alberti che, con un inatteso scarto, sposta l’attenzione dall’uomo tout court all’individuo straordinario. L’uomo è tale se e solo se è creatore, ossia se è in grado di elevarsi dalla condizione meramente biologica per provare a costruire il senso del mondo, a tracciare il profilo della vita. Così, se consideriamo il vuoto che riempie gli involucri definiti in mancanza di un termine migliore “uomini”, vedremo un discrimine preciso tra vari livelli, se non categorie. E’ possibile che, a guisa di una polla prosciugata da un lungo periodo di aridità, la coscienza in molti sia evaporata. I tempi duri e ferrigni che viviamo concorrono in modo determinante a tale inaridimento, ma un quid antropologico scava un solco. E’ un qualcosa la cui essenza e matrice si sottrae. Purtuttavia, come in presenza di quelle sensazioni dai contorni molto sfumati, ma con effetti indubitabili sul nostro spirito, sentiamo che è così. Si giunge a codesta conclusione con dolore e per esperienza, non per aprioristico sprezzo del prossimo. Se si pensa ad un argomento contro Dio, più che il male è forse la conoscenza e la frequentazione di certe creature malriuscite a rafforzare la tesi negatoria. Con calzante sintagma T.S. Eliot le bolla come “hollow men”, “uomini vuoti”: lo sguardo vacuo li alligna nella superficialità più epidermica che assurge a summa dei peccati capitali.
E’ naturale che non si può essere assertivi: la natura umana è, per sua natura, contraddittoria e complessa. Attrae e ripugna, suscita fiducia e disinganno, empatia ed avversione. Gli abissi luminosi sono sovrastati da cieli neri, senza stelle. La disgregazione è, in parte, bilanciata dalle sublimi opere degli artisti. Giustamente, però, Alberti, contrappuntato l’elogio dell’uomo pichiano (che è l’archetipo della creatura antecedente alla caduta, prima della storia), con il suo umoristico disincanto, delinea la fisionomia dell’uomo di genio, prima o dopo, in inevitabile rotta di collisione con la storia e la società. Anche se non si è dei genii, lo scatto dell’intelletto e la diagonalità dello sguardo dislocano ai margini della “realtà” convenzionale. L’emarginazione e la solitudine sono il prezzo da pagare per essere sé stessi e non “uomini vuoti”… a perdere.
Il vero uomo, infatti, emerge dalla massa: è l’individuo eccezionale che palesa in sé qualcosa di divino
ReplyDeleteQuello che vorrebbe essere lui, immagino.
Anche se non si è dei genii,
ReplyDeleteParole sante. Aggiungo e si è dei coglioni (con una sola "i", straccione inutile).
lo scatto dell’intelletto e la diagonalità dello sguardo dislocano ai margini della “realtà” convenzionale. L’emarginazione e la solitudine sono il prezzo da pagare per essere sé stessi e non “uomini vuoti”… a perdere.
Straccione inutile e due: "sé" non va mai scritto con l'accento, quando precede "stessi". Ma che cosa cazzo insegni: uncinetto, punto croce o lettere?
Mica per niente OGNI ANNO SCOLASTICO, TUTTE LE SUE CLASSI lo prendono per il culo :-)
DeleteSu "sé stessi" non sarei così drastico; l'uso di ciascuna forma ha le sue motivazioni:
Delete(http://www.accademiadellacrusca.it/faq/faq_risp.php?id=7305&ctg_id=93).