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Egomania
Pulvis et umbra sumus (Orazio)
Nonostante si continui a disquisire circa l'evoluzione della coscienza, ovunque si vada, si trovano tanti piccoli ma ipertrofici ego, tante meschinità nascoste dietro parole altisonanti. Tutte le dissertazioni sul cambio di era e sulla nascita di un'umanità rinnovata sono fedi consolatorie ed ingannevoli di questi ultimi, contraddittori tempi. L'alba di un'era radiosa pare molto lontana.
"Mio" ed "io" sono le parole che intasano i nostri discorsi: possesso e superbia sono i gravami di un soggetto ormai immemore della sua comunione con l’altro e con la natura. "Io, il più lurido dei pronomi", annotava amaramente Carlo Emilio Gadda. Se da un lato il senso dell'identità è del tutto naturale e consonante con una personalità equilibrata, la prevaricazione dell'io alla perenne conquista di un Lebensraum è aberrante. Non sappiamo rinunciare al nostro ego che si nutre di querimonie, di autocelebrazioni, del consenso altrui. Ciò è segno di debolezza: forti sono coloro che, rinunciando all'acclamazione della folla, hanno scelto una vita solitaria, umbratile dove le esose esigenze dell'io sono ricondotte emtro limiti accettabili.
Siamo di passaggio, pellegrini su questo pianeta: proveniamo da un luogo di cui ignoriamo tutto o quasi, diretti verso un altrove altrettanto misterioso. Il nostro mastodontico io è simile ad un gigante d'argilla: da un momento all'altro può crollare e ne resteranno solo frammenti sparsi.
In un suo accorato sonetto il poeta secentesco Tommaso Stigliani descrive degli oggetti (libri, candele, suppellettili) che muti sopravvivono all'uomo ormai trapassato in un'altra dimensione o svanito nel nulla, come un ricciolo di fumo nell'aria.
Quanti interessi di parrocchia, quante quisquilie che diventano ragioni di stato solo per compiacere il nostro famelico io! Quanto più divora, però, tanto più è smunto, poiché una fame insaziabile lo consuma e lo tormenta. Imparare a negare l'io per affermare la proprio dignità senza compromessi, ma anche senza chiusure preconcette: è questa una sfida assai impegnativa. Le catene più difficili da spezzare sono quelle da noi stessi forgiate.
Quando qualcuno tradisce o delude, forse soffriremo meno, se proveremo a pensare che il nostro io non può essere sfiorato da bassezze e da insulti. Il vero uomo non si impone, ma non accetta di abbassarsi al livello infimo dell'individuo volgare, soprattutto quando costui crede di potersi ergere a giudice. "L'uomo veramente libero - scrisse Gibran - non vuole dominare, ma neppure essere dominato ".
Neppure dominato da un io tirannico, si potrebbe chiosare.
Nonostante si continui a disquisire circa l'evoluzione della coscienza, ovunque si vada, si trovano tanti piccoli ma ipertrofici ego, tante meschinità nascoste dietro parole altisonanti. Tutte le dissertazioni sul cambio di era e sulla nascita di un'umanità rinnovata sono fedi consolatorie ed ingannevoli di questi ultimi, contraddittori tempi. L'alba di un'era radiosa pare molto lontana.
"Mio" ed "io" sono le parole che intasano i nostri discorsi: possesso e superbia sono i gravami di un soggetto ormai immemore della sua comunione con l’altro e con la natura. "Io, il più lurido dei pronomi", annotava amaramente Carlo Emilio Gadda. Se da un lato il senso dell'identità è del tutto naturale e consonante con una personalità equilibrata, la prevaricazione dell'io alla perenne conquista di un Lebensraum è aberrante. Non sappiamo rinunciare al nostro ego che si nutre di querimonie, di autocelebrazioni, del consenso altrui. Ciò è segno di debolezza: forti sono coloro che, rinunciando all'acclamazione della folla, hanno scelto una vita solitaria, umbratile dove le esose esigenze dell'io sono ricondotte emtro limiti accettabili.
Siamo di passaggio, pellegrini su questo pianeta: proveniamo da un luogo di cui ignoriamo tutto o quasi, diretti verso un altrove altrettanto misterioso. Il nostro mastodontico io è simile ad un gigante d'argilla: da un momento all'altro può crollare e ne resteranno solo frammenti sparsi.
In un suo accorato sonetto il poeta secentesco Tommaso Stigliani descrive degli oggetti (libri, candele, suppellettili) che muti sopravvivono all'uomo ormai trapassato in un'altra dimensione o svanito nel nulla, come un ricciolo di fumo nell'aria.
Quanti interessi di parrocchia, quante quisquilie che diventano ragioni di stato solo per compiacere il nostro famelico io! Quanto più divora, però, tanto più è smunto, poiché una fame insaziabile lo consuma e lo tormenta. Imparare a negare l'io per affermare la proprio dignità senza compromessi, ma anche senza chiusure preconcette: è questa una sfida assai impegnativa. Le catene più difficili da spezzare sono quelle da noi stessi forgiate.
Quando qualcuno tradisce o delude, forse soffriremo meno, se proveremo a pensare che il nostro io non può essere sfiorato da bassezze e da insulti. Il vero uomo non si impone, ma non accetta di abbassarsi al livello infimo dell'individuo volgare, soprattutto quando costui crede di potersi ergere a giudice. "L'uomo veramente libero - scrisse Gibran - non vuole dominare, ma neppure essere dominato ".
Neppure dominato da un io tirannico, si potrebbe chiosare.
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