http://zret.blogspot.com/2011/12/lanima-e-il-suo-destino.html
L'anima e il suo destino
“L’anima
e il suo destino” è il titolo di un saggio del teologo Vito Mancuso. Il
libro ha suscitato infuocate polemiche, poiché l’autore, pur
dichiarandosi cattolico, mette in discussione alcuni dogmi di Santa
Madre Chiesa. In effetti, mi domando per quale motivo Mancuso continui
ad aderire al Cattolicesimo, visto che ne contesta gran parte della
discutibile dottrina. Non intendo qui recensire il volume che non è
privo di qualche pregio, benché costruito su premesse scientifiche e
filosofiche alquanto farraginose. E’, però, lodevole che l’autore si
interroghi circa i novissimi, sull’orizzonte ultraterreno dell’uomo,
accantonate le questioni sociali o pseudo-etiche cui indulgono in modo
corrivo sacerdoti e vescovi dal pulpito e soprattutto in televisione.
Il saggio in oggetto è dunque uno sprone per collocare tra parentesi temi insulsi e cercare risposte sul nostro destino. Il tema dell’immortalità dell’anima, dibattuto sin dagli albori della filosofia, è oggi per lo più ignorato: la scienza quasi sempre identifica l’anima con il cervello, dichiarandone de facto la caducità; la filosofia preferisce esplorare altri territori. Resta, però, ineludibile la domanda: che cosa ci attende, dopo che sarà conclusa l’esperienza su questo pianeta? Le risposte sono sostanzialmente tre: il nulla, l’esistenza in un altro corpo, un’altra vita in una realtà non fisica.
Tutto sommato, la prima ipotesi non è poi così indesiderabile, viste le torture e le storture della condizione umana, tormenti che non sappiamo se la morte cancellerà ipso facto o no.
A proposito della seconda possibilità, mi sono già espresso nell’articolo “Reincarnazione” cui rimando.
Bisogna ora sfiorare la terza congettura. Qui mi comporto da avvocato del diavolo e riconosco che, nonostante gli studi condotti sulle near death experiences ed il lascito di antiche, venerande tradizioni, a tutt’oggi l’idea di immortalità dell’anima resta labile ed affidata alla fede del singolo, a meno che non si abbia esperienza delle sfere invisibili. I racconti dei “ritornati in vita”, pur essendo indizi significativi, di per sé non dimostrano molto: potrebbero essere, infatti, il risultato di ricordi e di immagini introdotti dall’”esterno”. Il tanatologo Cesare Boni, convinto assertore dell’immortalità dell’anima, asserisce che i defunti ed i luoghi scorti da chi varca il limitare tra la dimensione terrena ed il regno oltremondano sono generati dalla coscienza stessa: non sono dunque “oggettivi”, essendo archetipi sedimentati nell’inconscio che l’io desta nel momento cruciale del trapasso. Di per sé non provano che, dopo il momento fatale, si dipani un’altra vita e ci si inoltri in una plaga metafisica.
Comunque stiano le cose, è palese che l’uomo difficilmente rinuncia a nutrire la speranza che la sua identità non si perda, una volta scritta la parola “fine”.
Alcuni confidano nella resurrezione del corpo, credenza probabilmente di matrice persiana che, se non si intende il soma come un quid trascendente la pura materialità (il corpo glorioso di Shaul), rischia di sdrucciolare in una concezione grossolana, prefigurando per gli eletti un paradiso simile ad un noioso villaggio turistico. Si è che l’eternità non è nel tempo, mentre il corpo (anche rigenerato) è nello spazio-tempo, ossia in uno stato incompatibile con la beatitudine. Vogliamo forse vagheggiare un mondo in cui si conservino indefinitamente le spoglie fisiche?
Se l’anima esiste, non è ilica: così è libera dal carcere spazio-temporale, causa di ogni patimento. Il suo stato è forse contiguo ad un sereno nulla o, per lo meno, ad un’estasi leggera, eterea, impalpabile. Se l’anima non esiste, l’individualità si sbriciola con il soma e… morta lì.
Esiste la vita dopo la morte? E’ questa la domanda che echeggia nel vuoto della nostra ignoranza.
Un altro interrogativo è forse, però, più abissale: esiste la vita dopo la nascita?
Il saggio in oggetto è dunque uno sprone per collocare tra parentesi temi insulsi e cercare risposte sul nostro destino. Il tema dell’immortalità dell’anima, dibattuto sin dagli albori della filosofia, è oggi per lo più ignorato: la scienza quasi sempre identifica l’anima con il cervello, dichiarandone de facto la caducità; la filosofia preferisce esplorare altri territori. Resta, però, ineludibile la domanda: che cosa ci attende, dopo che sarà conclusa l’esperienza su questo pianeta? Le risposte sono sostanzialmente tre: il nulla, l’esistenza in un altro corpo, un’altra vita in una realtà non fisica.
Tutto sommato, la prima ipotesi non è poi così indesiderabile, viste le torture e le storture della condizione umana, tormenti che non sappiamo se la morte cancellerà ipso facto o no.
A proposito della seconda possibilità, mi sono già espresso nell’articolo “Reincarnazione” cui rimando.
Bisogna ora sfiorare la terza congettura. Qui mi comporto da avvocato del diavolo e riconosco che, nonostante gli studi condotti sulle near death experiences ed il lascito di antiche, venerande tradizioni, a tutt’oggi l’idea di immortalità dell’anima resta labile ed affidata alla fede del singolo, a meno che non si abbia esperienza delle sfere invisibili. I racconti dei “ritornati in vita”, pur essendo indizi significativi, di per sé non dimostrano molto: potrebbero essere, infatti, il risultato di ricordi e di immagini introdotti dall’”esterno”. Il tanatologo Cesare Boni, convinto assertore dell’immortalità dell’anima, asserisce che i defunti ed i luoghi scorti da chi varca il limitare tra la dimensione terrena ed il regno oltremondano sono generati dalla coscienza stessa: non sono dunque “oggettivi”, essendo archetipi sedimentati nell’inconscio che l’io desta nel momento cruciale del trapasso. Di per sé non provano che, dopo il momento fatale, si dipani un’altra vita e ci si inoltri in una plaga metafisica.
Comunque stiano le cose, è palese che l’uomo difficilmente rinuncia a nutrire la speranza che la sua identità non si perda, una volta scritta la parola “fine”.
Alcuni confidano nella resurrezione del corpo, credenza probabilmente di matrice persiana che, se non si intende il soma come un quid trascendente la pura materialità (il corpo glorioso di Shaul), rischia di sdrucciolare in una concezione grossolana, prefigurando per gli eletti un paradiso simile ad un noioso villaggio turistico. Si è che l’eternità non è nel tempo, mentre il corpo (anche rigenerato) è nello spazio-tempo, ossia in uno stato incompatibile con la beatitudine. Vogliamo forse vagheggiare un mondo in cui si conservino indefinitamente le spoglie fisiche?
Se l’anima esiste, non è ilica: così è libera dal carcere spazio-temporale, causa di ogni patimento. Il suo stato è forse contiguo ad un sereno nulla o, per lo meno, ad un’estasi leggera, eterea, impalpabile. Se l’anima non esiste, l’individualità si sbriciola con il soma e… morta lì.
Esiste la vita dopo la morte? E’ questa la domanda che echeggia nel vuoto della nostra ignoranza.
Un altro interrogativo è forse, però, più abissale: esiste la vita dopo la nascita?
esiste la vita dopo la nascita?
ReplyDeleteLa tua no di certo!
Ciao Zret, salutami tanto i tuoi alunni.
ReplyDeleteAlmeno qualcuno che avrà una vita felice dopo (nonostante te), c'è...
...? E’ questa la domanda che echeggia nel vuoto della nostra ignoranza.
ReplyDeleteLa frase di zret è corretta, qualsiasi cosa ci sia al posto dei puntini.