http://zret.blogspot.com/2012/03/necessita-e-male-in-un-saggio-di-simone.html
Necessità e male in un saggio di Simone Weil
Il
saggio di Simone Weil (1909-1943) “La Grecia e le intuizioni
precristiane” avvince, anche se convince solo in parte. La pensatrice
francese prova a dipanare la matassa della necessità e del male.
Scrive la Weil: “La scienza in tutti i suoi rami, dalla matematica alla sociologia, ha per oggetto l’ordine del mondo. Essa non lo vede sotto l’aspetto della necessità, poiché ogni considerazione di convenienza e finalità deve essere rigorosamente esclusa, ad eccezione della nozione stessa d’ordine universale. Più la scienza è rigorosa, precisa, dimostrativa, strettamente scientifica, più risulta manifesto il carattere essenzialmente provvidenziale dell’ordine del mondo. Ciò che chiamiamo il o i Disegni, il o i piani della provvidenza, non sono che immaginazioni fabbricate da noi.
Autenticamente provvidenziale, provvidenza stessa, è proprio questo ordine del mondo che è il tessuto, la trama di tutti gli eventi e che, sotto uno dei suoi aspetti, è il meccanismo spietato e cieco della necessità. Perché una volta per tutte la necessità è stata vinta dalla saggia persuasione dell’Amore. Questa saggia persuasione è la provvidenza. Questa sottomissione senza violenza della necessità alla sapienza amante, è la bellezza. La bellezza esclude i fini particolari. Quando in una poesia è possibile spiegare che quella tal parola è stata messa dal poeta là dov’è per produrre tale o tal altro effetto, per esempio una rima ricca, un’allitterazione, una certa immagine e via di seguito, la poesia è di second’ordine. Di una poesia perfetta non si può dire nulla, se non che la parola è la dov’è, e che è assolutamente necessario che vi sia.
E’ lo stesso per tutti gli esseri, noi compresi, per tutte le cose, per tutti gli eventi che si inseriscono nel corso del tempo. Quando rivediamo, dopo una lunga assenza, un essere umano ardentemente amato ed egli ci parla, ogni parola è infinitamente preziosa, non per il suo significato, ma perché la presenza di colui che amiamo si fa sentire in ogni sillaba. Anche se per caso soffriamo in quel momento di un mal di testa così violento che ogni suono fa male, quella voce che fa male non per questo è meno infinitamente cara e preziosa, poiché racchiude quella presenza. Allo stesso modo colui che ama Dio non ha bisogno di rappresentarsi il tale o tal altro bene suscettibile di derivare da un evento accaduto. Ogni evento che si compie è una sillaba pronunciata dalla voce dell’Amore stesso”.
E’ impossibile riassumere un libretto tanto ispirato e sofferto, perciò, oltre al passo sopra riportato, estraggo qualche altro diamante tagliente che l’autrice cava nella miniera della sua anima.
“La Creazione, l’Incarnazione, la Passione costituiscono la follia di Dio”: audace e quasi blasfema asserzione.
“La necessità fa di noi una poltiglia informe”: fatale sensazione di chi si sente schiacciato, umiliato e che nell’umiliazione trova la sua più alta dignità.
“Accettare l’esistenza di tutto ciò che esiste, compreso il male, eccettuata la porzione di male che noi abbiamo la possibilità e l’obbligo di impedire”: amor fati, ma pure scatto etico e quasi ribellione ad un dominio assurdo.
“Noi siamo frammenti staccati da Dio”: senso di scissione, acuminato dall’angoscia.
“Attraverso tre fori passa il soffio di Dio: la scienza teorica, pura; la bellezza dell’arte; la sventura”: tentativo di riunire il diviso per mezzo di esperienze abissali, al confine della dismisura. E’ nell’eccesso, nella dismisura che si può intravedere una paradossale speranza di salvezza?
“Ciascun mattino l’anima si mutila di ogni aspirazione, perché il pensiero non può viaggiare nel tempo senza traversare la morte”: tra le pieghe della vita quotidiana si addensano le ombre di un comune destino.
Così la Weil scava nella condizione umana lacerata tra disperazione ed anelito, tra ineluttabilità e Grazia, tra il ghiaccio della rassegnazione ed il fuoco della fede più folle. Se le parole sul martirio che strazia la vita, suonano alla maniera di una fra le tante teodicee persino con venature masochiste – il dolore è autoflagellazione più che catarsi – la visione del cosmo che è assottigliamento, regressione di Dio, persino croce cui sono inchiodati il Creatore e le creature, si radica nel terreno di un pensiero chiaroveggente. Così l’insondabile(?) ma suggestivo frammento di Anassimandro rimbalza nelle pagine del saggio per porci innanzi al senso ultimo di una realtà senza apparente significato.
Dilaniata tra ammirazione per la bellezza della natura e coscienza dell’irrazionalità del mondo, la Weil si spinge fra le fenditure della logica per dimostrarne la manifesta incongruità. Celebra la scienza teorica, per denunciarla come orditura necessitante del cosmo. Strappa al silenzio di Dio una sillaba balbettante ed erige un muro invalicabile tra gli uomini e l’Essere supremo. Soprattutto, con il suo lirismo teso, spezzato (la filosofia assurge ad arte, quando, esorcizzando il male, lo decanta e lo lascia come sedimento ormai inerte), l’autrice sgomenta e consola (ma il veleno delle parole è nel loro intento consolatorio), per scolpire la contraddizione, non del pensiero ma dell’essere.
Nella contraddizione s'incarna la più disperata, dura verità, si raggruma il buio più accecante.
Scrive la Weil: “La scienza in tutti i suoi rami, dalla matematica alla sociologia, ha per oggetto l’ordine del mondo. Essa non lo vede sotto l’aspetto della necessità, poiché ogni considerazione di convenienza e finalità deve essere rigorosamente esclusa, ad eccezione della nozione stessa d’ordine universale. Più la scienza è rigorosa, precisa, dimostrativa, strettamente scientifica, più risulta manifesto il carattere essenzialmente provvidenziale dell’ordine del mondo. Ciò che chiamiamo il o i Disegni, il o i piani della provvidenza, non sono che immaginazioni fabbricate da noi.
Autenticamente provvidenziale, provvidenza stessa, è proprio questo ordine del mondo che è il tessuto, la trama di tutti gli eventi e che, sotto uno dei suoi aspetti, è il meccanismo spietato e cieco della necessità. Perché una volta per tutte la necessità è stata vinta dalla saggia persuasione dell’Amore. Questa saggia persuasione è la provvidenza. Questa sottomissione senza violenza della necessità alla sapienza amante, è la bellezza. La bellezza esclude i fini particolari. Quando in una poesia è possibile spiegare che quella tal parola è stata messa dal poeta là dov’è per produrre tale o tal altro effetto, per esempio una rima ricca, un’allitterazione, una certa immagine e via di seguito, la poesia è di second’ordine. Di una poesia perfetta non si può dire nulla, se non che la parola è la dov’è, e che è assolutamente necessario che vi sia.
E’ lo stesso per tutti gli esseri, noi compresi, per tutte le cose, per tutti gli eventi che si inseriscono nel corso del tempo. Quando rivediamo, dopo una lunga assenza, un essere umano ardentemente amato ed egli ci parla, ogni parola è infinitamente preziosa, non per il suo significato, ma perché la presenza di colui che amiamo si fa sentire in ogni sillaba. Anche se per caso soffriamo in quel momento di un mal di testa così violento che ogni suono fa male, quella voce che fa male non per questo è meno infinitamente cara e preziosa, poiché racchiude quella presenza. Allo stesso modo colui che ama Dio non ha bisogno di rappresentarsi il tale o tal altro bene suscettibile di derivare da un evento accaduto. Ogni evento che si compie è una sillaba pronunciata dalla voce dell’Amore stesso”.
E’ impossibile riassumere un libretto tanto ispirato e sofferto, perciò, oltre al passo sopra riportato, estraggo qualche altro diamante tagliente che l’autrice cava nella miniera della sua anima.
“La Creazione, l’Incarnazione, la Passione costituiscono la follia di Dio”: audace e quasi blasfema asserzione.
“La necessità fa di noi una poltiglia informe”: fatale sensazione di chi si sente schiacciato, umiliato e che nell’umiliazione trova la sua più alta dignità.
“Accettare l’esistenza di tutto ciò che esiste, compreso il male, eccettuata la porzione di male che noi abbiamo la possibilità e l’obbligo di impedire”: amor fati, ma pure scatto etico e quasi ribellione ad un dominio assurdo.
“Noi siamo frammenti staccati da Dio”: senso di scissione, acuminato dall’angoscia.
“Attraverso tre fori passa il soffio di Dio: la scienza teorica, pura; la bellezza dell’arte; la sventura”: tentativo di riunire il diviso per mezzo di esperienze abissali, al confine della dismisura. E’ nell’eccesso, nella dismisura che si può intravedere una paradossale speranza di salvezza?
“Ciascun mattino l’anima si mutila di ogni aspirazione, perché il pensiero non può viaggiare nel tempo senza traversare la morte”: tra le pieghe della vita quotidiana si addensano le ombre di un comune destino.
Così la Weil scava nella condizione umana lacerata tra disperazione ed anelito, tra ineluttabilità e Grazia, tra il ghiaccio della rassegnazione ed il fuoco della fede più folle. Se le parole sul martirio che strazia la vita, suonano alla maniera di una fra le tante teodicee persino con venature masochiste – il dolore è autoflagellazione più che catarsi – la visione del cosmo che è assottigliamento, regressione di Dio, persino croce cui sono inchiodati il Creatore e le creature, si radica nel terreno di un pensiero chiaroveggente. Così l’insondabile(?) ma suggestivo frammento di Anassimandro rimbalza nelle pagine del saggio per porci innanzi al senso ultimo di una realtà senza apparente significato.
Dilaniata tra ammirazione per la bellezza della natura e coscienza dell’irrazionalità del mondo, la Weil si spinge fra le fenditure della logica per dimostrarne la manifesta incongruità. Celebra la scienza teorica, per denunciarla come orditura necessitante del cosmo. Strappa al silenzio di Dio una sillaba balbettante ed erige un muro invalicabile tra gli uomini e l’Essere supremo. Soprattutto, con il suo lirismo teso, spezzato (la filosofia assurge ad arte, quando, esorcizzando il male, lo decanta e lo lascia come sedimento ormai inerte), l’autrice sgomenta e consola (ma il veleno delle parole è nel loro intento consolatorio), per scolpire la contraddizione, non del pensiero ma dell’essere.
Nella contraddizione s'incarna la più disperata, dura verità, si raggruma il buio più accecante.
insomma zret non perdi occasiono per dimostrare che sei un disturbato mentale.
ReplyDeleteNon per niente sei continuamente preso per il culo dai tuoi allievi
Zret adora intortarsi il fratello. Sceglie e commenta scritti specifici per fare breccia su Strak. Sembra proprio che la Zrettiana sadica manipolazione non abbia mai fine ..e l'altro abbocca abbocca abbocca e non ha con chi confrantarsi per poter minimamente capire perchè ormai è sempre dentro casa
ReplyDeletemi domando: i parassiti (valga quesrto esempio estremo per tutti) sono stati creati da Dio? Qual è il loro ruolo nel provvidenziale disegno del cosmo? Non ha forse agito un demiurgo folle?
ReplyDeleteIo mi domando: i parassiti umani tipo Zret & Straker, da chi sono stati creati? e perchè?
Forse esistono per farci comprendere quanto sono neri gli abissi della NON reale comunicazione umana e quanto è triste il solo pigiare i tasti della tastiera e ridursi a non
ReplyDeleteuscire non parlare non vedere non toccare il mondo intorno a noi
estraggo qualche altro diamante tagliente che l’autrice cava nella miniera della sua anima.
ReplyDeleteTi sbagli, la cava della quale sproloqui è quella dove spacchi pietre con la tua inutile testa vuota.