Scopo del Blog
Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.
Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.
Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.
Ciao e grazie della visita.
Il contenuto di questo blog non viene piu' aggiornato regolarmente. Per le ultime notizie potete andare su:
http://indipezzenti.blogspot.ch/
https://www.facebook.com/Task-Force-Butler-868476723163799/
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Showing posts with label Cicerone. Show all posts
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Wednesday, April 20, 2016
Saturday, June 22, 2013
Ipotassi, paratassi e coglionassi (e sticassi (C) TdM)
http://zret.blogspot.it/2013/06/ipotassi-paratassi.html
Ipotassi, paratassi

Qualcuno
un paio di settimane addietro volle consigliarmi di privilegiare la
paratassi rispetto all’ipotassi. Al suo suggerimento allegò un breve
testo scritto (molto male) da un gazzettiere. L’ignoranza impera: vero è
che la coordinazione è sovente più icastica della subordinazione, ma la
scelta tra l’una e l’altra dipende da esigenze espressive e persino
dalla Weltanschauung.
Accuseremo scrittori come Cicerone o Livio, che optano per un periodare ampio, gerarchico, di non saper scrivere? Si è che autori come quelli sullodati esprimono con il loro modus scribendi una precisa concezione del reale, improntata a prospettiva ed ordine. Cicerone e Livio sono dei classici e “classico” vale in primo luogo regolare, armonico.
Un altro esempio: Giovanni Boccaccio, come è noto, predilige costruzioni linguistiche molto complesse dove attorno al “pianeta” della principale ruotano i numerosi “satelliti” delle complementari. Anche qui si rintraccia una visione del mondo, quella pre-umanistica destinata a culminare nell’interpretazione rinascimentale che colloca l’Uomo al centro della Storia e della Natura.[1]
Quando il concetto di realtà muta, cambia anche la lingua che insieme lo traduce e lo plasma. Così, verbigrazia, un poeta come Pascoli frantuma l’architettura del periodo, disarticola la frase, la scompone nei suoi atomi fonici, poiché l’universo che egli trasfigura è disgregato, privo di un baricentro.
Oggigiorno il gusto ci induce ad anteporre uno stile paratattico ad uno ipotattico. Tuttavia, in talune circostanze, solo un impianto linguistico complesso può rendere una stratificazione concettuale. La lingua è embricata al pensiero e viceversa: non comprenderlo significa non saper né scrivere né pensare. Di tale abissale ignoranza abbiamo, ahinoi, molti e sintomatici saggi.
La padronanza della subordinazione denota la capacità di ragionare, di sviluppare argomentazioni. In verità, chi oggi propugna una prosa esclusivamente paratattica, non ha alcuna dimestichezza con la lingua e, mentre crede di essere à la page, verga testi sconnessi e scorretti, dove le secondarie spesso non sono rette da alcunché.
Vediamo un campione. Vomita Heidi: “Sono in tanti, nel mondo scientifico italiano, a essere stufi delle cretinate pseudoscientifiche pubblicate sui giornali e trasmesse alla radio e in televisione (sì, Roberto Giacobbo, sto parlando con te) e del modo in cui il giornalismo sensazionalizza il lavoro paziente di chi fa ricerca scientifica: entrambi rimbambiscono la gente, spaventano inutilmente, affossano la ricerca italiana e causano sprechi e decisioni idiote (e a volte letali) da parte dei politici.
Così per domani (8 giugno) è stato organizzato l'evento “Italia unita per la corretta informazione scientifica”: una serie di incontri, in varie città d'Italia, per fare divulgazione scientifica e fare chiarezza su alcuni temi (pseudo)scientifici controversi.
Io contribuirò nel mio piccolo partecipando alla sessione di Pavia (dalle 14:30) con una relazione sulle cosiddette “scie chimiche”, ma ci saranno relatori esperti anche per parlare di piante geneticamente modificate, di vaccini, di cellule staminali e di modelli animali nella ricerca biomedica. Siateci: è un modo per far vedere che non tutti si sono rimbambiti e che c'è ancora voglia di fare scienza per il bene di tutti. Anche dei ciarlatani e dei catastrofisti”.
Si censurino almeno la vomitevole ripetizione del verbo “fare”, l’uso di termini del registro familiare (stufi, cretinate), "pseudo-scientifiche" scritto senza il trattino, l’impiego di orridi neologismi (sensazionalizza), l’immancabile ma molesto verbo “esserci”, le cadute a rompicollo nella sintassi popolare (trasmesse alla radio)… Dulcis in fundo, si deplori la proposizione conclusiva ellittica del verbo, enunciato che resta lì impiccato. E’ indubbio che taluni Autori amano talvolta suggellare un discorso con un’ellissi, ma in primo luogo non ne abusano, inoltre la loro scelta rientra in una ricerca di efficacia e non è sintomo di analfabetismo, a differenza di quanto succede nel caso della “guardia svizzera”.
Si potrebbero soggiungere altre osservazioni, ma non intendo sviscerare un tema comunque analizzato all’interno di altri articoli. Ho tratto spunto da una balzana “critica” di negazionisti la cui tracotanza è pari solo alla loro infinita sprovvedutezza. Costoro, Attivissimo in primis, producono scritti che, nella loro pacchiana pretenziosità, sono simili alle riproduzioni in plastica del Colosseo. L’analogia con l’Anfiteatro Flavio è pressoché assente, giacché il monumento di plastica sembra una dentiera.
[1] E' una semplificazione esegetica che riporto per comodità comunicativa, sebbene il discorso sia molto più sfaccettato.
Accuseremo scrittori come Cicerone o Livio, che optano per un periodare ampio, gerarchico, di non saper scrivere? Si è che autori come quelli sullodati esprimono con il loro modus scribendi una precisa concezione del reale, improntata a prospettiva ed ordine. Cicerone e Livio sono dei classici e “classico” vale in primo luogo regolare, armonico.
Un altro esempio: Giovanni Boccaccio, come è noto, predilige costruzioni linguistiche molto complesse dove attorno al “pianeta” della principale ruotano i numerosi “satelliti” delle complementari. Anche qui si rintraccia una visione del mondo, quella pre-umanistica destinata a culminare nell’interpretazione rinascimentale che colloca l’Uomo al centro della Storia e della Natura.[1]
Quando il concetto di realtà muta, cambia anche la lingua che insieme lo traduce e lo plasma. Così, verbigrazia, un poeta come Pascoli frantuma l’architettura del periodo, disarticola la frase, la scompone nei suoi atomi fonici, poiché l’universo che egli trasfigura è disgregato, privo di un baricentro.
Oggigiorno il gusto ci induce ad anteporre uno stile paratattico ad uno ipotattico. Tuttavia, in talune circostanze, solo un impianto linguistico complesso può rendere una stratificazione concettuale. La lingua è embricata al pensiero e viceversa: non comprenderlo significa non saper né scrivere né pensare. Di tale abissale ignoranza abbiamo, ahinoi, molti e sintomatici saggi.
La padronanza della subordinazione denota la capacità di ragionare, di sviluppare argomentazioni. In verità, chi oggi propugna una prosa esclusivamente paratattica, non ha alcuna dimestichezza con la lingua e, mentre crede di essere à la page, verga testi sconnessi e scorretti, dove le secondarie spesso non sono rette da alcunché.
Vediamo un campione. Vomita Heidi: “Sono in tanti, nel mondo scientifico italiano, a essere stufi delle cretinate pseudoscientifiche pubblicate sui giornali e trasmesse alla radio e in televisione (sì, Roberto Giacobbo, sto parlando con te) e del modo in cui il giornalismo sensazionalizza il lavoro paziente di chi fa ricerca scientifica: entrambi rimbambiscono la gente, spaventano inutilmente, affossano la ricerca italiana e causano sprechi e decisioni idiote (e a volte letali) da parte dei politici.
Così per domani (8 giugno) è stato organizzato l'evento “Italia unita per la corretta informazione scientifica”: una serie di incontri, in varie città d'Italia, per fare divulgazione scientifica e fare chiarezza su alcuni temi (pseudo)scientifici controversi.
Io contribuirò nel mio piccolo partecipando alla sessione di Pavia (dalle 14:30) con una relazione sulle cosiddette “scie chimiche”, ma ci saranno relatori esperti anche per parlare di piante geneticamente modificate, di vaccini, di cellule staminali e di modelli animali nella ricerca biomedica. Siateci: è un modo per far vedere che non tutti si sono rimbambiti e che c'è ancora voglia di fare scienza per il bene di tutti. Anche dei ciarlatani e dei catastrofisti”.
Si censurino almeno la vomitevole ripetizione del verbo “fare”, l’uso di termini del registro familiare (stufi, cretinate), "pseudo-scientifiche" scritto senza il trattino, l’impiego di orridi neologismi (sensazionalizza), l’immancabile ma molesto verbo “esserci”, le cadute a rompicollo nella sintassi popolare (trasmesse alla radio)… Dulcis in fundo, si deplori la proposizione conclusiva ellittica del verbo, enunciato che resta lì impiccato. E’ indubbio che taluni Autori amano talvolta suggellare un discorso con un’ellissi, ma in primo luogo non ne abusano, inoltre la loro scelta rientra in una ricerca di efficacia e non è sintomo di analfabetismo, a differenza di quanto succede nel caso della “guardia svizzera”.
Si potrebbero soggiungere altre osservazioni, ma non intendo sviscerare un tema comunque analizzato all’interno di altri articoli. Ho tratto spunto da una balzana “critica” di negazionisti la cui tracotanza è pari solo alla loro infinita sprovvedutezza. Costoro, Attivissimo in primis, producono scritti che, nella loro pacchiana pretenziosità, sono simili alle riproduzioni in plastica del Colosseo. L’analogia con l’Anfiteatro Flavio è pressoché assente, giacché il monumento di plastica sembra una dentiera.
[1] E' una semplificazione esegetica che riporto per comodità comunicativa, sebbene il discorso sia molto più sfaccettato.
Pubblicato da
Zret
ipotattico, paratattico e anche un po' cornigero
Sunday, December 18, 2011
Genesi
http://zret.blogspot.com/2011/12/genesi.html
Genesi

Alcune riflessioni frammentarie circa il tema della creazione
Come avviene la creazione? La creazione è il prodigioso risultato di un prodigio, di cui è difficile comprendere la genesi. E’ arduo spiegare un fenomeno che sfugge alle coordinate razionali, situandosi nella regione liminare tra il nulla e l’infinito. Ritengo tuttavia che il processo creativo dipenda dall’aggregazione di atomi coincidenti con idee, emozioni e sensazioni. Una particella ne attrae un’altra che ne attira un’altra ancora e così via, fino a che numerosi atomi formano il corpo. Fuor di metafora, una semplice parola-idea o un accostamento inusuale di due termini (la callida iunctura di Orazio) possono, agglutinandosi ad altri, generare l’enunciato ed il testo. Si crea una sorta di frattale linguistico, i cui sviluppi sono a volte imprevedibili. Certo, resta difficile intendere come quel comune vocabolo, logoro e confuso tra un’infinità di lemmi, possa all’improvviso risplendere di luce propria e rischiarare la regione tutta intorno. Forse quel termine è associato all’intuizione, ad un’estemporanea e fuggevole visione oltre il visibile.
Ungaretti individua in una parola, di cui sono riscoperte le risonanze interiori e le qualità fonico-semantiche, il nucleo della poesia. Heidegger vede nel linguaggio poetico, con la sua sfida, quello che più di ogni altro lascia trasparire l’essenza dell’essere il quale resta in gran parte nascosto, non esaurendosi negli enti.
Cicerone menziona, a proposito della creazione poetica, l’ars e l’ingenium, ossia da un lato la tecnica, la padronanza degli strumenti stilistici, dall’altro il talento, un qualcosa di innato. L’Arpinate localizza le due sorgenti dell’arte, ma ci accorgiamo che il tema non è stato sviscerato.
Michelangelo scopre nel marmo le figure imprigionate: allo scultore spetta di liberarle. E’ così: le opere letterarie, i dipinti, le statue… sono già state create, esistono già in potenza; l’artista le cava dal mondo informe in cui sono inglobate, portandole allo scoperto. La creazione artistica si situa dunque agli antipodi rispetto a quella divina: Dio trae dal nulla il mondo, mentre l’artista si limita a scoprire forme ed idee già esistenti che l’uomo comune non è in grado di scorgere.
E’ come se il processo creativo, attingendo ad una fonte di archetipi, dipendesse da un appello, da un destino. “I' mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto e a quel modo/ch'e' ditta dentro vo significando”. Così Dante traduce l’idea dell’urgenza creativa.
Non è l’artista che si esprime, poiché una voce a lui anteriore e superiore parla attraverso di lui. Il silenzio nella sua mente è la condizione necessaria affinché quella voce si manifesti.
Come avviene la creazione? La creazione è il prodigioso risultato di un prodigio, di cui è difficile comprendere la genesi. E’ arduo spiegare un fenomeno che sfugge alle coordinate razionali, situandosi nella regione liminare tra il nulla e l’infinito. Ritengo tuttavia che il processo creativo dipenda dall’aggregazione di atomi coincidenti con idee, emozioni e sensazioni. Una particella ne attrae un’altra che ne attira un’altra ancora e così via, fino a che numerosi atomi formano il corpo. Fuor di metafora, una semplice parola-idea o un accostamento inusuale di due termini (la callida iunctura di Orazio) possono, agglutinandosi ad altri, generare l’enunciato ed il testo. Si crea una sorta di frattale linguistico, i cui sviluppi sono a volte imprevedibili. Certo, resta difficile intendere come quel comune vocabolo, logoro e confuso tra un’infinità di lemmi, possa all’improvviso risplendere di luce propria e rischiarare la regione tutta intorno. Forse quel termine è associato all’intuizione, ad un’estemporanea e fuggevole visione oltre il visibile.
Ungaretti individua in una parola, di cui sono riscoperte le risonanze interiori e le qualità fonico-semantiche, il nucleo della poesia. Heidegger vede nel linguaggio poetico, con la sua sfida, quello che più di ogni altro lascia trasparire l’essenza dell’essere il quale resta in gran parte nascosto, non esaurendosi negli enti.
Cicerone menziona, a proposito della creazione poetica, l’ars e l’ingenium, ossia da un lato la tecnica, la padronanza degli strumenti stilistici, dall’altro il talento, un qualcosa di innato. L’Arpinate localizza le due sorgenti dell’arte, ma ci accorgiamo che il tema non è stato sviscerato.
Michelangelo scopre nel marmo le figure imprigionate: allo scultore spetta di liberarle. E’ così: le opere letterarie, i dipinti, le statue… sono già state create, esistono già in potenza; l’artista le cava dal mondo informe in cui sono inglobate, portandole allo scoperto. La creazione artistica si situa dunque agli antipodi rispetto a quella divina: Dio trae dal nulla il mondo, mentre l’artista si limita a scoprire forme ed idee già esistenti che l’uomo comune non è in grado di scorgere.
E’ come se il processo creativo, attingendo ad una fonte di archetipi, dipendesse da un appello, da un destino. “I' mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto e a quel modo/ch'e' ditta dentro vo significando”. Così Dante traduce l’idea dell’urgenza creativa.
Non è l’artista che si esprime, poiché una voce a lui anteriore e superiore parla attraverso di lui. Il silenzio nella sua mente è la condizione necessaria affinché quella voce si manifesti.
Pubblicato da
Zret
Thursday, December 15, 2011
Genesi
http://zret.blogspot.com/2011/12/genesi.html
Genesi

Alcune riflessioni frammentarie circa il tema della creazione
Come avviene la creazione? La creazione è il prodigioso risultato di un prodigio, di cui è difficile comprendere la genesi. E’ arduo spiegare un fenomeno che sfugge alle coordinate razionali, situandosi nella regione liminare tra il nulla e l’infinito. Ritengo tuttavia che il processo creativo dipenda dall’aggregazione di atomi coincidenti con idee, emozioni e sensazioni. Una particella ne attrae un’altra che ne attira un’altra ancora e così via, fino a che numerosi atomi formano il corpo. Fuor di metafora, una semplice parola-idea o un accostamento inusuale di due termini (la callida iunctura di Orazio) possono, agglutinandosi ad altri, generare l’enunciato ed il testo. Si crea una sorta di frattale linguistico, i cui sviluppi sono a volte imprevedibili. Certo, resta difficile intendere come quel comune vocabolo, logoro e confuso tra un’infinità di lemmi, possa all’improvviso risplendere di luce propria e rischiarare la regione tutta intorno. Forse quel termine è associato all’intuizione, ad un’estemporanea e fuggevole visione oltre il visibile.
Ungaretti individua in una parola, di cui sono riscoperte le risonanze interiori e le qualità fonico-semantiche, il nucleo della poesia. Heidegger vede nel linguaggio poetico, con la sua sfida, quello che più di ogni altro lascia trasparire l’essenza dell’essere il quale resta in gran parte nascosto, non esaurendosi negli enti.
Cicerone menziona, a proposito della creazione poetica, l’ars e l’ingenium, ossia da un lato la tecnica, la padronanza degli strumenti stilistici, dall’altro il talento, un qualcosa di innato. L’Arpinate localizza le due sorgenti dell’arte, ma ci accorgiamo che il tema non è stato sviscerato.
Michelangelo scopre nel marmo le figure imprigionate: allo scultore spetta di liberarle. E’ così: le opere letterarie, i dipinti, le statue… sono già state create, esistono già in potenza; l’artista le cava dal mondo informe in cui sono inglobate, portandole allo scoperto. La creazione artistica si situa dunque agli antipodi rispetto a quella divina: Dio trae dal nulla il mondo, mentre l’artista si limita a scoprire forme ed idee già esistenti che l’uomo comune non è in grado di scorgere.
E’ come se il processo creativo, attingendo ad una fonte di archetipi, dipendesse da un appello, da un destino. “I' mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto e a quel modo/ch'e' ditta dentro vo significando”. Così Dante traduce l’idea dell’urgenza creativa.
Non è l’artista che si esprime, poiché una voce a lui anteriore e superiore parla attraverso di lui. Il silenzio nella sua mente è la condizione necessaria affinché quella voce si manifesti.
Come avviene la creazione? La creazione è il prodigioso risultato di un prodigio, di cui è difficile comprendere la genesi. E’ arduo spiegare un fenomeno che sfugge alle coordinate razionali, situandosi nella regione liminare tra il nulla e l’infinito. Ritengo tuttavia che il processo creativo dipenda dall’aggregazione di atomi coincidenti con idee, emozioni e sensazioni. Una particella ne attrae un’altra che ne attira un’altra ancora e così via, fino a che numerosi atomi formano il corpo. Fuor di metafora, una semplice parola-idea o un accostamento inusuale di due termini (la callida iunctura di Orazio) possono, agglutinandosi ad altri, generare l’enunciato ed il testo. Si crea una sorta di frattale linguistico, i cui sviluppi sono a volte imprevedibili. Certo, resta difficile intendere come quel comune vocabolo, logoro e confuso tra un’infinità di lemmi, possa all’improvviso risplendere di luce propria e rischiarare la regione tutta intorno. Forse quel termine è associato all’intuizione, ad un’estemporanea e fuggevole visione oltre il visibile.
Ungaretti individua in una parola, di cui sono riscoperte le risonanze interiori e le qualità fonico-semantiche, il nucleo della poesia. Heidegger vede nel linguaggio poetico, con la sua sfida, quello che più di ogni altro lascia trasparire l’essenza dell’essere il quale resta in gran parte nascosto, non esaurendosi negli enti.
Cicerone menziona, a proposito della creazione poetica, l’ars e l’ingenium, ossia da un lato la tecnica, la padronanza degli strumenti stilistici, dall’altro il talento, un qualcosa di innato. L’Arpinate localizza le due sorgenti dell’arte, ma ci accorgiamo che il tema non è stato sviscerato.
Michelangelo scopre nel marmo le figure imprigionate: allo scultore spetta di liberarle. E’ così: le opere letterarie, i dipinti, le statue… sono già state create, esistono già in potenza; l’artista le cava dal mondo informe in cui sono inglobate, portandole allo scoperto. La creazione artistica si situa dunque agli antipodi rispetto a quella divina: Dio trae dal nulla il mondo, mentre l’artista si limita a scoprire forme ed idee già esistenti che l’uomo comune non è in grado di scorgere.
E’ come se il processo creativo, attingendo ad una fonte di archetipi, dipendesse da un appello, da un destino. “I' mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto e a quel modo/ch'e' ditta dentro vo significando”. Così Dante traduce l’idea dell’urgenza creativa.
Non è l’artista che si esprime, poiché una voce a lui anteriore e superiore parla attraverso di lui. Il silenzio nella sua mente è la condizione necessaria affinché quella voce si manifesti.
Pubblicato da
Zret
Saturday, May 7, 2011
L'Arte
http://zret.blogspot.com/2011/05/larte.html
L'Arte

Un tale – è Cicerone a riportare l'aneddoto - voleva insegnare a Temistocle, il fondatore della talassocrazia ateniese, l'arte della memoria. Temistocle non mostrò interesse: "Mi useresti un piacere di gran lunga maggiore, se mi insegnassi a dimenticare, piuttosto che a ricordare ciò che desidererei non ricordare." Saggia risposta quella dell'uomo politico. In verità non è solo auspicabile obliare gli affronti, come chiosa l'Arpinate: bisognerebbe imparare l'arte dell'oblio per cancellare quelle memorie (errori, sventure, incomprensioni, affanni) che assediano il presente.
Sebbene l'inglese sia ritenuto una lingua profana, alcune incursioni semantiche in tale idioma ci offrono motivi di riflessione: così che cos'è la dimenticanza, se non un conseguimento eccelso, una conquista gloriosa? Per questo motivo in inglese scordare è (to) forget, ossia ‘prendere, ottenere assai’ (il prefisso “for” ha valore intensivo). E' solo apparente il paradosso: molto stringe chi tutto perde, chi si lascia dietro di sé lo strascico tetro, fallace dei ricordi. Tra l'altro (to) forget è costruito secondo lo stesso modello di (to) forgive, omologo di “perdonare”: perdonare, infatti, è un donare molto, implicando un'elargizione di sé che è nobiltà d'animo.
Come apprendere dunque l'arte dell'oblio, dacché le rimembranze ci attorniano per espugnarci? Un ricordo assale il baluardo della coscienza, un altro le tende un'imboscata, un altro, muovendosi di soppiatto, entra da una breccia delle mura, un altro le dirocca, un po' alla volta, per penetrare nella cittadella...
Le reminiscenze sono in ogni dove. Scrutano, bisbigliano, fluttuano, quando non strattonano o non scaraventano nell’abisso del tempo trascorso. Là è un libro, qui un volto, lì un profumo, quivi una voce, ora è un sapore, talvolta è un brivido... Viviamo in un labirinto di memorie, tra riflessi di ombre ed ombre di larve. Né il sonno, con i suoi sogni pregni di esperienze, ci dà requie: durante la notte, anzi le ricordanze, trasfigurate in immagini emotive, ci turbano con in più quell'alone enigmatico che sfida il tentennante raziocinio.
Qualcuno scrisse che "un ricordo del dolore è ancora dolore, mentre un ricordo della gioia è dolore": è così, sebbene la qualità della sofferenza cambi. Cambiano il timbro e lo spessore: anche i patimenti appassiscono. Perché dovremmo, novelli Enea, rinnovare la pena con la rievocazione? No. Meglio tacere, quand’anche scordare significasse tacitare il cuore. L’oblio diventi obl-io, cancellazione dell’io caduto-caduco. Nel silenzio e nell'amnesia è il fuoco della speranza.
Che cosa saremmo senza le memorie, senza il solco del passato? Nulla. Ce ne dorremmo?
Sebbene l'inglese sia ritenuto una lingua profana, alcune incursioni semantiche in tale idioma ci offrono motivi di riflessione: così che cos'è la dimenticanza, se non un conseguimento eccelso, una conquista gloriosa? Per questo motivo in inglese scordare è (to) forget, ossia ‘prendere, ottenere assai’ (il prefisso “for” ha valore intensivo). E' solo apparente il paradosso: molto stringe chi tutto perde, chi si lascia dietro di sé lo strascico tetro, fallace dei ricordi. Tra l'altro (to) forget è costruito secondo lo stesso modello di (to) forgive, omologo di “perdonare”: perdonare, infatti, è un donare molto, implicando un'elargizione di sé che è nobiltà d'animo.
Come apprendere dunque l'arte dell'oblio, dacché le rimembranze ci attorniano per espugnarci? Un ricordo assale il baluardo della coscienza, un altro le tende un'imboscata, un altro, muovendosi di soppiatto, entra da una breccia delle mura, un altro le dirocca, un po' alla volta, per penetrare nella cittadella...
Le reminiscenze sono in ogni dove. Scrutano, bisbigliano, fluttuano, quando non strattonano o non scaraventano nell’abisso del tempo trascorso. Là è un libro, qui un volto, lì un profumo, quivi una voce, ora è un sapore, talvolta è un brivido... Viviamo in un labirinto di memorie, tra riflessi di ombre ed ombre di larve. Né il sonno, con i suoi sogni pregni di esperienze, ci dà requie: durante la notte, anzi le ricordanze, trasfigurate in immagini emotive, ci turbano con in più quell'alone enigmatico che sfida il tentennante raziocinio.
Qualcuno scrisse che "un ricordo del dolore è ancora dolore, mentre un ricordo della gioia è dolore": è così, sebbene la qualità della sofferenza cambi. Cambiano il timbro e lo spessore: anche i patimenti appassiscono. Perché dovremmo, novelli Enea, rinnovare la pena con la rievocazione? No. Meglio tacere, quand’anche scordare significasse tacitare il cuore. L’oblio diventi obl-io, cancellazione dell’io caduto-caduco. Nel silenzio e nell'amnesia è il fuoco della speranza.
Che cosa saremmo senza le memorie, senza il solco del passato? Nulla. Ce ne dorremmo?
Pubblicato da Zret
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