L'immensa sputtanata a Zelig

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Scopo del Blog

Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.

Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.

Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.

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Sunday, April 6, 2014

Superare il riduzionismo antropologico

http://zret.blogspot.it/2014/04/superare-il-riduzionismo-antropologico.html

 Superare il riduzionismo antropologico

Il pensiero libero deve essere anche provocatorio.

Il dibattito tra chi sostiene che la specie Homo sapiens differisce dagli animali da un punto di vista meramente quantitativo e chi, invece, crede l’uomo manifesti delle caratteristiche irriducibili rispetto agli altri esseri viventi, è infuocato. Come spesso avviene, il problema in questi termini dilemmatici è mal posto. Se si affrontano le questioni con discernimento, esse diventano meno ostiche e si evitano dicotomie inconciliabili.

Vediamo dunque come si potrebbe approcciare tale spinoso tema. E’ forse errato disquisire di uomini tout court. Piaccia o no, gli uomini non sono tutti uguali: alcuni – abbiamo il coraggio di ammetterlo – sono inferiori agli animali; altri sono senza dubbio, sotto il profilo qualitativo, superiori. Non sono forse dei bruti tutti coloro che oggigiorno sono incapaci di usare i cinque sensi e la ragione, donati loro dalla Natura? Se potessimo immedesimarci in alcuni primati non umani, probabilmente scopriremmo che possiedono sensi più vividi ed un’intelligenza più acuta della massa irragionevole. Coloro che, come ci insegna Giovanni Pico della Mirandola nel “De dignitate hominis”, sono scivolati sul pendio che conduce alll’imbarbarimento, non sono più “uomini”, non appartengono più alla specie Homo sapiens sapiens, avendo subito una mutazione antropologica.

La Bibbia ed altre tradizioni (si pensi soprattutto alla cultura gnostica) sembrano suggerire che l’umanità del passato non coincideva con un’unica specie: coesistettero diversi tipi dissimili da un punto di vista strutturale. Forse da uno dei vari gruppi discendono le cosiddette élites, invero una stirpe degenere di degenerati che definire “umana” è erroneo in rapporto alla loro origine e natura.

Resta un barlume di umanità e di etica in tutta quella masnada di individui che definiamo “negazionisti”? Essi ci sembrano l’incarnazione di una subspecie che pare non avere alcuna speranza o perché a tal punto corrotta da occupare una nuova nicchia biologica, la specie Homo insipiens insipiens, o in quanto derivante da una razza imbastardita cui si accenna in pristini retaggi.

Sono accese le polemiche tra i carnivori ed i vegetariani-vegani: i primi accusano i secondi di essere incoerenti, di difendere gli agnelli, ma non le zanzare. Li incolpano di commuoversi per la mucca ed il maiale mandati al macello, ma di non muovere un dito per tutti i bambini che muoiono di fame e di sete. Quasi sempre queste accuse sono strumentali e pretestuose. Spesso provengono da chi non ha cuore la vita né umana né animale né vegetale. Esistono i Giainisti che, per quanto è loro possibile, cercano di evitare anche l’uccisione accidentale di un moscerino e, accontentando i carnivori, considerano strappare un frutto dall’albero un’azione riprovevole come macellare una capra.

Ora, chi reputa la vita sacra, cerca di rispettarla in ogni sua forma, sebbene ci possa riuscire solo in alcuni casi: chi comincia ad eliminare un po’ di sofferenza dal mondo è da apprezzare, visto che il male non potrà mai essere del tutto annichilito.

Quanto alle zanzare che i vegetariani-vegani non esitano a schiacciare, allorquando questi insetti diventano molesti, quanto ai frutti ed agli ortaggi che finiscono sulle tavole dei sanguinari vegetariani-vegani, non è certo colpa di costoro se la vita si basa, almeno in una certa misura, sulla morte. Bisogna dunque rivolgersi alla Natura o a Dio per tentare di capire per quale ragione il mondo debba fondarsi sul pesce piccolo divorato dal pesce grande, sull’erbivoro sbranato dal predatore. L’Artefice (o chi per Lui) ha generato (o promanato) un universo in cui per alimentarsi occorre, volenti o nolenti, uccidere: in linea teorica, se Egli avesse voluto (o potuto?), la vita potrebbe sostenersi solo con l’etere o qualcosa del genere. Compito dell’uomo non è dunque abolire il male da questa dimensione – è, infatti, impresa impossibile – ma provare a migliorare le condizioni del mondo.

Molte parabole buddhiste narrano di animali che si immolano per salvare vite umane preziose. Se un filosofo vegetariano, la cui benevolenza è destinata ad alleviare le sofferenze del prossimo, decide, spinto dalla fame, di uccidere una lepre e di cibarsene, la sua azione è equiparabile alle crapule carnee di un maldicente che sul pianeta diffonde solo veleni?

Vediamo quindi quanto sia utile il discernimento: ci aiuta a distinguere caso per caso, a non perderci in diatribe infinite. Allora gli uomini sono differenti per natura dagli animali? Alcuni sì ed altri no? Quali uomini? Che cosa s’intende per “uomo”? Vale più la vita di una mosca o quella del principe Filippo d’Edimburgo?


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Tuesday, April 3, 2012

Oltre l'uomo

http://zret.blogspot.co.uk/2012/04/oltre-luomo.html

Oltre l'uomo


E’ celeberrima la lode dell’uomo tessuta da Giovanni Pico della Mirandola nell’“Oratio de hominis dignitate”. All’incirca negli stessi anni un intellettuale non integrato. Leon Battista Alberti, nel “Momus sive de principe”, conduce un discorso sul valore della rarità e dell’ingegno che rendono l’uomo quasi divino.

Nel Prologo dell’inusuale romanzo in latino, l’autore scrive: “Il principe e l’artefice delle cose, il Dio otttimo e massimo, mentre distribuì tutte le qualità più ammirevoli alle sue creature in modo tale che a ciascuna singolarmente toccasse almeno un segno delle più alti lodi divine, volle riservare a sé – è chiaro, lo si tocca con mano – il privilegio di essere l’unico e solo interamente fornito delle qualità di una divinità totale. Diede, infatti, forza agli astri, splendore al cielo, alla terra bellezza, ragione ed immortalità alle anime, distribuendo tutte le meraviglie di questa sorta alle singole cose quasi una per una e, in quanto a sé, volle essere l’unico dotato in tutti i suoi aspetti di quella perfezione che non ha pari. Proprio questa qualità, se non andiamo errati, va ritenuta la prima in un ente divino: essere senza concorrenza, unico e solo.

Da ciò deriva che tutte le rarità, cioè quelle che non hanno la minima somiglianza con tutte le altre, per antica opinione degli uomini sono giudicatequasi divine. Così gli eventi mostruosi, i prodigi, le strane apparizioni ed i fenomeni del genere, per il fatto di accadere raramente, erano annoverati dagli antichi tra i segni della sacra presenza degli dei. La natura, come si è potuto osservare a memoria d’uomo sino ad oggi, ha messo insieme l’immensità e la stranezza con la rarità, tanto che pare che non sia capace di concepire nulla di bello e di grandioso che non sia anche raro. E’ forse per questo che, se notiamo persone che spiccano per ingegno ed emergono dalla massa, in modo da essere ciascuna secondo i suoi titoli di merito, fuori del comune e quindi rare, le definiamo divine e le facciamo oggetto di ammirazione ed onori assai simili a quelli divini, spinti dall’insegnamento della natura. Per questa via ci rendiamo conto che tutte le rarità hanno un che di divino, in quanto tendono ad essere considerate uniche e fuori dell’ordinario, ben distinte dall’ammasso di tutte le altre cose”.


Non sfugga in primo luogo quale lievissima ironia s’insinui nella glorificazione stessa di Dio, ente che non ammette rivalità alcuna. Si osservi anche come Leon Battista Alberti dipinge la natura le cui radiose sembianze sono increspate di stranezze, percorse da linee irrazionali (“l’ammasso di tutte le cose”).

Ci si comincia poi a scostare dall’immagine precipua nel Rinascimento dell’uomo inteso come fulcro dell’universo. La celebrazione di Pico ci appare, se confrontata con la pagina dell’Alberti, grandiosa, nel suo fervente entusiamo, nel suo afflato solenne, nella nostalgica descrizione dell’Adam Kadmon, ma pure teorica. L’uomo, con Alberti, è ancora al centro, ma il suo ruolo principia a diventare eccentrico. Il vero uomo, infatti, emerge dalla massa: è l’individuo eccezionale che palesa in sé qualcosa di divino. “Alberti – glossano Bologna e Rocchi – risolve il tema dell’artista-genio – centrale nell’Umanesimo – con la sua assimilazione al genio-creatore: l’artista è, come dice l’autore nel ‘De pictura’, alter deus. E’ interessante notare come nella visione da lui proposta si intraveda quell’associazione tra follia e talento artistico che ebbe tanta fortuna nei secoli successivi. La stessa rappresentazione dell’alterità rispetto alla massa implica la coscienza di una natura eccezionale che comporta anche, in qualche misura, un’esclusione”.

Sono indicazioni istruttive: l’uomo vero si differenzia rispetto al volgo (la massa) e trascende la sua stessa natura umana per (ri)scoprire un’impronta superiore. Spesso si legge che in ogni essere umano, in quanto tale, balugina una scintilla divina, ma saremmo tentati di concordare con Alberti che, con un inatteso scarto, sposta l’attenzione dall’uomo tout court all’individuo straordinario. L’uomo è tale se e solo se è creatore, ossia se è in grado di elevarsi dalla condizione meramente biologica per provare a costruire il senso del mondo, a tracciare il profilo della vita. Così, se consideriamo il vuoto che riempie gli involucri definiti in mancanza di un termine migliore “uomini”, vedremo un discrimine preciso tra vari livelli, se non categorie. E’ possibile che, a guisa di una polla prosciugata da un lungo periodo di aridità, la coscienza in molti sia evaporata. I tempi duri e ferrigni che viviamo concorrono in modo determinante a tale inaridimento, ma un quid antropologico scava un solco. E’ un qualcosa la cui essenza e matrice si sottrae. Purtuttavia, come in presenza di quelle sensazioni dai contorni molto sfumati, ma con effetti indubitabili sul nostro spirito, sentiamo che è così. Si giunge a codesta conclusione con dolore e per esperienza, non per aprioristico sprezzo del prossimo. Se si pensa ad un argomento contro Dio, più che il male è forse la conoscenza e la frequentazione di certe creature malriuscite a rafforzare la tesi negatoria. Con calzante sintagma T.S. Eliot le bolla come “hollow men”, “uomini vuoti”: lo sguardo vacuo li alligna nella superficialità più epidermica che assurge a summa dei peccati capitali.

E’ naturale che non si può essere assertivi: la natura umana è, per sua natura, contraddittoria e complessa. Attrae e ripugna, suscita fiducia e disinganno, empatia ed avversione. Gli abissi luminosi sono sovrastati da cieli neri, senza stelle. La disgregazione è, in parte, bilanciata dalle sublimi opere degli artisti. Giustamente, però, Alberti, contrappuntato l’elogio dell’uomo pichiano (che è l’archetipo della creatura antecedente alla caduta, prima della storia), con il suo umoristico disincanto, delinea la fisionomia dell’uomo di genio, prima o dopo, in inevitabile rotta di collisione con la storia e la società. Anche se non si è dei genii, lo scatto dell’intelletto e la diagonalità dello sguardo dislocano ai margini della “realtà” convenzionale. L’emarginazione e la solitudine sono il prezzo da pagare per essere sé stessi e non “uomini vuoti”… a perdere.