L'immensa sputtanata a Zelig

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Scopo del Blog

Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.

Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.

Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.

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Sunday, February 1, 2015

Elogio della selce

http://zret.blogspot.ch/2015/02/elogio-della-selce.html

Elogio della selce

L’arte è l’immagine allegorica della Creazione. (P. Klee)



Chi non ha almeno una volta sfogliato un calendario illustrato con quadri dipinti con la bocca o con i piedi? Anche il destino più crudele non può spegnere l’impulso a creare che alberga in taluni uomini. Davvero l’ingenium è qualità che separa gli “spiriti magni” dalla massa.

L’ispirazione, che ha donato all’umanità capolavori immortali, è attitudine a contemplare, a sintonizzarsi con la vita universa, a comporre la sinfonia delle emozioni, ad intuire l’anima delle cose. Sono virtù oggi sempre più rare.

L’estro è segno di nobiltà d’animo: accantonato ogni fine utilitaristico, il genio persegue come fine soltanto l’arte. Pochi sono i veri artisti, ma talora si scopre il buon gusto o un talento o un’inclinazione pure in un onesto artigiano.

Consideriamo gli oli e gli acquerelli dei lunari cui si accennava: vi si scopre spesso un genuino amore per la natura, trasfuso in tele che raffigurano ora ameni paesaggi primaverili, ora suggestive marine, ora scorci alpestri, ora interni inondati di luce… Con sapienti pennellate, con colori smaglianti e liquide ombre si squaderna un mondo di alberi, viottole, fiori, spiagge, colline, bimbi... E' soprattutto un universo interiore, uno slancio inesausto verso il sogno di un’esistenza libera da ogni costrizione.

Se pensiamo che “uomini” con cui la sorte è stata ingiustamente generosa, sono talmente snaturati e corrotti che usano la penna e la lingua solo per calunniare e per maledire, siamo inclini ad accogliere la distinzione dei filosofi gnostici. I pensatori della Gnosi antica, infatti, collocavano nel novero degli ilici, gli “esseri materiali”, tutti coloro in cui non si sprigiona mai una favilla di spiritualità. Sono perduti, senza speranza alcuna di acquisire un briciolo di decoro. Sono “sepolcri imbiancati”, scheletri vestiti di paludamenti. Non sono neppure come gli scrittori cortigiani del Rinascimento, in cui tra la piaggeria e la vacua erudizione, talora traluce una frase tornita, un’immagine notevole. Essi sono venali, ma affatto privi di qualsiasi vena.

Persino la selce, l’inerte e dura selce, se sfregata, genera rutilanti scintille, loro no...

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Sunday, April 8, 2012

I visitatori di Fazio Cardano

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I visitatori di Fazio Cardano

Gerolamo Cardano, scienziato, medico, filosofo ed occultista (1501-1576) è noto per i suoi studi matematici e per aver inventato un particolare tipo di giunto meccanico deformabile, il giunto cardanico. Nel 1545 pubblicò l’Ars magna, opera in cui compare per la prima volta la formula di risoluzione delle equazioni cubiche. Lo scienziato partenopeo racconta nel De vita propria un singolare aneddoto riguardante il genitore, Fazio.

"13 agosto 1491. Quando ebbi terminato i riti abituali, all'incirca alla ventesima ora del giorno, esattamente sette uomini mi apparvero, vestiti di abiti serici, che somigliavano alle toghe dei greci e che portavano anche dei calzari splendenti. Le vesti che indossavano sotto il pettorale brillante e rosso sembravano tessute di scarlatto ed erano di straordinaria bellezza. Tuttavia non erano vestiti tutti in tal guisa, ma solo due, che sembravano appartenere a un rango più nobile degli altri. Il più alto, dal colorito rubicondo, era accompagnato da due compagni, ed il secondo, dall’incarnato più chiaro e più piccolo di statura, da tre compagni. Così in tutto erano sette".

Fazio Cardano precisava che i visitatori potevano avere tra i trenta ed i quarant’anni anni, "portati bene". Quando chiese loro chi fossero, essi risposero d'essere uomini fatti d'aria e soggetti alla nascita e alla morte. "Comunque, la loro vita era più lunga della nostra e potevano campare sino a trecento anni. Interrogati sull'immortalità della nostra anima, affermarono che nulla sopravvive dell'individuo, che sia personale. Quando mio padre domandò perché non avessero rivelato agli uomini i luoghi ove si trovavano i tesori, risposero che ciò era loro vietato in virtù di una legge speciale che condannava alle più pesanti ammende colui che avesse comunicato quelle informazioni agli uomini". Prosegue Cardano: "Essi restarono con mio padre per più di tre ore, ma quando egli pose la questione intorno alla causa dell'universo, non si trovarono d'accordo. Il più alto rifiutava di ammettere che Dio avesse creato il mondo eterno. Al contrario, l'altro soggiunse che Dio l’avesse creato a poco a poco, di modo che, se avesse smesso di farlo, fosse che anche per un solo attimo, il cosmo sarebbe perito. Che sia realtà o fola, questo è quanto."

Jacques Bergier osserva che “i visitatori di Fazio Cardano sembrano essere stati gli ultimi di una serie di ospiti susseguitisi in tutto il Medioevo. Avevano di particolare che si poteva comunicare con loro, non pretendevano in nessun modo di essere accolti come angeli e non erano latori di alcuna rivelazione; al contrario, il loro atteggiamento partecipa piuttosto del nostro razionalismo contemporaneo. I visitatori di Fazio Cardano negavano l’esistenza di un’anima immortale e sostenevano una sorta di teoria della creazione continua dell’universo”.

Come il co-autore del celebre e diseguale saggio “Il mattino dei maghi”, possiamo soltanto formulare congetture circa la l’origine delle creature con cui Fazio Cardano ebbe un incontro ravvicinato. Furono “turisti” interplanetari o esseri provenienti da una dimensione parallela? Gli abiti di seta (tute?) ed i calzari rutilanti ricordano l’abbigliamento di presunti cosmonauti di cui pullulano i libri di Ufologia e che affollano le testimonianze di molti contattisti. Cardano, tipico rappresentante di un’età, il Rinascimento, il cui levigato classicismo è percorso da venature magico-esoteriche, riporta l’episodio con l’oggettività della quale difettano alcuni ricercatori d’oggi.

Lo scienziato napoletano, tra l’altro, come parecchi intellettuali a lui coevi, non si peritò di disquisire sulla natura di creature soprannaturali: a questo proposito scrisse: “Come l’intelligenza di un uomo è superiore a quella di un cane, così quella di un demone (si intenda un intermediario tra gli uomini e Dio, non un diavolo, n.d.r.) è superiore a quella di un uomo".

Di solito nell’antichità e nel Medioevo codesti enigmatici visitatori presentano tre caratteristiche, ricordate da teologi e cabalisti: il volto doppio, un abito di luce, il nimbo che circonfonde il capo. Alcuni studiosi attuali inscrivono tali tratti nella “mitologia” contemporanea, vedendo nel volto doppio uno scafandro, nella veste luminosa una tuta corrusca, nell’aura un campo di forze che produce un’energia radiante, ma queste potrebbero essere interpretazioni condizionate da abitudini e concetti propri della nostra era tecnologica, laddove, ad esempio, la luce potrebbe essere la manifestazione di uno stato spirituale.

Sia come sia, i parametri per definire entità preternaturali, per distinguere esseri extra-dimensionali (malevoli o evoluti) da supposti ufonauti hanno contorni molto sfumati. Scorgere in ogni dove tracce di tecnologia spaziale è probabilmente errato quanto evocare sempre contatti con dimensioni tangenti il mondo fisico in cui siamo assediati.

Fonti:

J. Bergier, Les extra-terrestres dans l’histoire, Paris, 1975, pp. 98-99
Enciclopedia delle scienze, Milano, 2005, s.v. Cardano
A. Lissoni, Gli alieni di Gerolamo Cardano

Tuesday, April 3, 2012

Oltre l'uomo

http://zret.blogspot.co.uk/2012/04/oltre-luomo.html

Oltre l'uomo


E’ celeberrima la lode dell’uomo tessuta da Giovanni Pico della Mirandola nell’“Oratio de hominis dignitate”. All’incirca negli stessi anni un intellettuale non integrato. Leon Battista Alberti, nel “Momus sive de principe”, conduce un discorso sul valore della rarità e dell’ingegno che rendono l’uomo quasi divino.

Nel Prologo dell’inusuale romanzo in latino, l’autore scrive: “Il principe e l’artefice delle cose, il Dio otttimo e massimo, mentre distribuì tutte le qualità più ammirevoli alle sue creature in modo tale che a ciascuna singolarmente toccasse almeno un segno delle più alti lodi divine, volle riservare a sé – è chiaro, lo si tocca con mano – il privilegio di essere l’unico e solo interamente fornito delle qualità di una divinità totale. Diede, infatti, forza agli astri, splendore al cielo, alla terra bellezza, ragione ed immortalità alle anime, distribuendo tutte le meraviglie di questa sorta alle singole cose quasi una per una e, in quanto a sé, volle essere l’unico dotato in tutti i suoi aspetti di quella perfezione che non ha pari. Proprio questa qualità, se non andiamo errati, va ritenuta la prima in un ente divino: essere senza concorrenza, unico e solo.

Da ciò deriva che tutte le rarità, cioè quelle che non hanno la minima somiglianza con tutte le altre, per antica opinione degli uomini sono giudicatequasi divine. Così gli eventi mostruosi, i prodigi, le strane apparizioni ed i fenomeni del genere, per il fatto di accadere raramente, erano annoverati dagli antichi tra i segni della sacra presenza degli dei. La natura, come si è potuto osservare a memoria d’uomo sino ad oggi, ha messo insieme l’immensità e la stranezza con la rarità, tanto che pare che non sia capace di concepire nulla di bello e di grandioso che non sia anche raro. E’ forse per questo che, se notiamo persone che spiccano per ingegno ed emergono dalla massa, in modo da essere ciascuna secondo i suoi titoli di merito, fuori del comune e quindi rare, le definiamo divine e le facciamo oggetto di ammirazione ed onori assai simili a quelli divini, spinti dall’insegnamento della natura. Per questa via ci rendiamo conto che tutte le rarità hanno un che di divino, in quanto tendono ad essere considerate uniche e fuori dell’ordinario, ben distinte dall’ammasso di tutte le altre cose”.


Non sfugga in primo luogo quale lievissima ironia s’insinui nella glorificazione stessa di Dio, ente che non ammette rivalità alcuna. Si osservi anche come Leon Battista Alberti dipinge la natura le cui radiose sembianze sono increspate di stranezze, percorse da linee irrazionali (“l’ammasso di tutte le cose”).

Ci si comincia poi a scostare dall’immagine precipua nel Rinascimento dell’uomo inteso come fulcro dell’universo. La celebrazione di Pico ci appare, se confrontata con la pagina dell’Alberti, grandiosa, nel suo fervente entusiamo, nel suo afflato solenne, nella nostalgica descrizione dell’Adam Kadmon, ma pure teorica. L’uomo, con Alberti, è ancora al centro, ma il suo ruolo principia a diventare eccentrico. Il vero uomo, infatti, emerge dalla massa: è l’individuo eccezionale che palesa in sé qualcosa di divino. “Alberti – glossano Bologna e Rocchi – risolve il tema dell’artista-genio – centrale nell’Umanesimo – con la sua assimilazione al genio-creatore: l’artista è, come dice l’autore nel ‘De pictura’, alter deus. E’ interessante notare come nella visione da lui proposta si intraveda quell’associazione tra follia e talento artistico che ebbe tanta fortuna nei secoli successivi. La stessa rappresentazione dell’alterità rispetto alla massa implica la coscienza di una natura eccezionale che comporta anche, in qualche misura, un’esclusione”.

Sono indicazioni istruttive: l’uomo vero si differenzia rispetto al volgo (la massa) e trascende la sua stessa natura umana per (ri)scoprire un’impronta superiore. Spesso si legge che in ogni essere umano, in quanto tale, balugina una scintilla divina, ma saremmo tentati di concordare con Alberti che, con un inatteso scarto, sposta l’attenzione dall’uomo tout court all’individuo straordinario. L’uomo è tale se e solo se è creatore, ossia se è in grado di elevarsi dalla condizione meramente biologica per provare a costruire il senso del mondo, a tracciare il profilo della vita. Così, se consideriamo il vuoto che riempie gli involucri definiti in mancanza di un termine migliore “uomini”, vedremo un discrimine preciso tra vari livelli, se non categorie. E’ possibile che, a guisa di una polla prosciugata da un lungo periodo di aridità, la coscienza in molti sia evaporata. I tempi duri e ferrigni che viviamo concorrono in modo determinante a tale inaridimento, ma un quid antropologico scava un solco. E’ un qualcosa la cui essenza e matrice si sottrae. Purtuttavia, come in presenza di quelle sensazioni dai contorni molto sfumati, ma con effetti indubitabili sul nostro spirito, sentiamo che è così. Si giunge a codesta conclusione con dolore e per esperienza, non per aprioristico sprezzo del prossimo. Se si pensa ad un argomento contro Dio, più che il male è forse la conoscenza e la frequentazione di certe creature malriuscite a rafforzare la tesi negatoria. Con calzante sintagma T.S. Eliot le bolla come “hollow men”, “uomini vuoti”: lo sguardo vacuo li alligna nella superficialità più epidermica che assurge a summa dei peccati capitali.

E’ naturale che non si può essere assertivi: la natura umana è, per sua natura, contraddittoria e complessa. Attrae e ripugna, suscita fiducia e disinganno, empatia ed avversione. Gli abissi luminosi sono sovrastati da cieli neri, senza stelle. La disgregazione è, in parte, bilanciata dalle sublimi opere degli artisti. Giustamente, però, Alberti, contrappuntato l’elogio dell’uomo pichiano (che è l’archetipo della creatura antecedente alla caduta, prima della storia), con il suo umoristico disincanto, delinea la fisionomia dell’uomo di genio, prima o dopo, in inevitabile rotta di collisione con la storia e la società. Anche se non si è dei genii, lo scatto dell’intelletto e la diagonalità dello sguardo dislocano ai margini della “realtà” convenzionale. L’emarginazione e la solitudine sono il prezzo da pagare per essere sé stessi e non “uomini vuoti”… a perdere.

Wednesday, March 14, 2012

Rinascimento e morte dell’uomo

http://zret.blogspot.com/2012/03/rinascimento-e-morte-delluomo.html

Rinascimento e morte dell’uomo

Molti uomini di oggi non hanno più neppure il coraggio della propria viltà.

"L'umanità non presenta un’evoluzione verso qualcosa di migliore o di più forte o di più elevato nel modo in cui oggi questo viene creduto. Il 'progresso’ è semplicemente un'idea moderna, cioè un'idea falsa. L'Europeo di oggi resta, nel suo valore, profondamente al di sotto dell'Europeo del Rinascimento; la prosecuzione di uno sviluppo non è assolutamente, per una qualsivoglia necessià, elevazione, potenziamento, consolidamento."(F. Nietzsche, L'Anticristo) Le parole del filosofo tedesco centrano il bersaglio: l’idea di progresso è uno pseudo-mito con cui abbiamo plastificato la nostra età tecnotronica. Vero è anche l’uomo rinascimentale fu superiore all’uomo contemporaneo: persino l’uomo del volgo era meno volgare del più distinto scienziatodi oggi.

Sebbene la cultura umanistico-rinascimentale vagheggi appunto una rinascenza dell’età classica, in realtà plasma una nuova civiltà il cui il valore precipuo risiede nella continuità-discontinuità con l’antico più che nella sua meccanica rivisitazione. Un esempio per tutti: mentre artisti e teorici educano l’occhio e la mente per costruire la prospettiva centrale, non riscoprono una tecnica pristina (la prospettiva antica era ottica ed empirica, non matematica), ma tracciano inedite coordinate visive e figurative.

E’ anche indubbio che la temperie rinascimentale riprende e riannoda i fili dispersi della Tradizione, rileggendola, però, alla luce di sistemi in fieri e, in una certa misura, di esigenze contingenti.

Ne scaturisce un mondo fecondo, versatile, dinamico, in cui le polarità dello spirito umano sono spesso conciliate. Molti intellettuali dell’epoca vivono una vita breve, ma intensa: essi bruciano le esperienze culturali più disparate, generando una fiammata che illumina il periodo tra XV e XVI secolo, con un barlume che rischiara la storia ancora per qualche decennio.

Nella storia, però, agiscono forze disumane che conducono l’umanità verso il baratro. Queste energie distruttive serpeggiavano già nell’Europa trecentesca, specialmente sotto la forma del mercantilismo (“la gente avida di sùbiti guadagni”). Così, intanto che l’Europa risplende per il lampo dei genii (pittori, architetti, poeti, scienziati…), il tarlo dell’usura rode i patrimoni e le coscienze.

Non è tuttavia solo la mentalità borghese a corrodere la marmorea bellezza della civiltà rinascimentale, poiché alcune ombre sono proiettate dalla luce stessa della razionalità. E’ destino delle epoche più inclini alla logica, nutrire in sé il delirio, l’aberrazione. Questo vale per il cosiddetto “secolo dei lumi”, ma in parte pure per il Rinascimento che non può soffocare la parte ctonia dell’uomo. La stessa pittura impeccabile e rigorosa di Piero della Francesca, pittura che non è un’immagine verosimile del reale, ma un’idealizzazione matematica, non eclissa, se non per una breve stagione, cupi orizzonti. L’idolatria della scienza, intesa come strumento di potere, è destinata a condurre all’hybris di Francis Bacon, al rigido dualismo di Cartesio. L’equilibrio tra natura e storia si rompe e l’uomo si atteggia a super-uomo, incarnando caratteristiche sub-umane.

Che l’equilibrio sia fragile è comunque dimostrato dagli atteggiamenti ondivaghi talora fino alla contraddizione di alcuni umanisti: si pensi a Leon Battista Alberti sulla cui nitida, armoniosa architettura, già germinano le disillusioni del "Momo". E’ in nuce la tendenza che porta alla riflessione sulla melancolia, sull’intellettuale saturnino: è la visione che disgrega dall’interno le certezze (e le illusioni) umanistiche. Nelle arti figurative soprattutto alle olimpiche creazioni rinascimentali, reagisce il Manierismo (Pontormo, Rosso Fiorentino, Giulio Romano…) con il suo gusto eccentrico, bizzarro, l’insofferenza per la regola e la misura. Lo stesso “quadrato” Piero della Francesca, con "La flagellazione di Cristo”, dipinge uno dei quadri più enigmatici e densi di sapere esoterico dell’intero Rinascimento. Essoterismo e filigrana iniziatica convivono in molti autori. L’arte (pittori ferraresi) e la scienza si sostanziano di valori alchemici, astrologici, magici, fino alla tabula rasa del simbolico operata da Galilei e dai suoi epigoni. Il movimento centrifugo non degrada l’uomo, piuttosto lo riconduce ad una concezione più realistica e sofferta, poiché l’antico non può sic et simpliciter rinascere. Inoltre l’uomo decade se oblia la scintilla divina, ma specialmente se crede di innalzarsi a dio.

E’ dunque un bilanciamento precario ed effimero a donare all’Europa un periodo splendido: la caduca concilazione tra ragione e follia, tra Cristianesimo e Neoplatonismo, tra umanesimo cortigiano ed umanesimo civile, tra città e contado, tra disinteresse ed amministrazione ocutata del denaro… si spezza. Soprattutto si perde la simbiosi tra teoria e prassi, sicché da un lato si sviluppano uomini tutti mentali, dall’altro esseri tutti ilici: la frattura tra anima e corpo produce creature scisse, monche, in cui le pulsioni naturali non sono sublimate ma represse. [1]

La coscienza un po’ alla volta si intorpidisce, vuoi per il freddo razionalismo che culmina in Cartesio vuoi per la raison d’état vuoi per il fanatismo luterano-calvinista e controriformistico, istanze cui è costretta ad adeguarsi la società, nonostante nobili eccezioni e nobili ribellioni (Bruno, Caravaggio etc.).

Più dell’irrazionalità che s’insinua nelle concezioni estetiche e negli animi, è la logica del dominio e del profitto ad oscurare il senso: la Banca svedese è fondata nel 1656 e la Banca d’Inghilterra nel 1694. Il potere del denaro, alimentato da un’oscura pulsione di morte, si rafforza sino a soggiogare l’interiorità prima che il mondo. Il dominio suscita rivolte: la rivolta romantica e, più tardi, quella decadente pur ambigua, esprimono il rifiuto della modernità e dei suoi disvalori, ma ormai ai denari sono saldati, in un invincibile connubio, l’industrialismo e la tecnologia che sono adulterazione della natura lato sensu. Perciò il rifiuto diventa velleitario, impotente. Eppure, nella sua impotenza, oggi più isolata che solitaria, gli uomini (se ancora ne sopravvivono) riscoprono ed affermano l’unica dignità: il culto della verità e della bellezza.

[1] Circa questa frattura si leggano le sagaci osservazioni di Leopardi nello “Zibaldone”.

Articolo correlato: G. Ranella, Il senso della Tradizione, 2012