L'immensa sputtanata a Zelig

Il blog che si sta visitando potrebbe utilizzare cookies, anche di terze parti, per tracciare alcune preferenze dei visitatori e per migliorare la visualizzazione. fai click qui per leggere l'informativa Navigando comunque in StrakerEnemy acconsenti all'eventuale uso dei cookies; clicka su esci se non interessato. ESCI
Cliccare per vederla

Scopo del Blog

Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.

Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.

Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.

Ciao e grazie della visita.

Il contenuto di questo blog non viene piu' aggiornato regolarmente. Per le ultime notizie potete andare su:

http://indipezzenti.blogspot.ch/

https://www.facebook.com/Task-Force-Butler-868476723163799/

Showing posts with label De rerum natura. Show all posts
Showing posts with label De rerum natura. Show all posts

Wednesday, October 9, 2013

L’assurda razionalità del Tutto


http://zret.blogspot.com/2013/10/lassurda-razionalita-del-tutto.html

L’assurda razionalità del Tutto

Il reale è irrazionale e l’irrazionale è reale… purtroppo.

Gli atei ed i razionalisti affermano che il male non esiste. Hanno perfettamente ragione, se si analizza la realtà solo attraverso strumenti razionali. E’ singolare che gli spiritualisti ed i materialisti, pur agli antipodi, concordino su tale punto, adducendo diverse motivazioni: il mysterium iniquitatis non sussiste. Logici e matematici pensano che il mondo possa essere compreso per mezzo della logica. Essa dimostra che il male non è nelle cose, ma nelle interpretazioni. Peccato che l’universo non sia logico, essendo autocontraddittorio.

Certo, il bene ed il male sono categorie umane, valori che gli uomini attribuiscono agli enti. La Natura di per sé non è (o pare?) né malvagia né benevola: essa è quella che è. Siamo noi a vedere in un terremoto il male e in un tramonto dai colori rutilanti il bene. Il ghepardo che caccia e divora la gazzella non è malvagio: è nella sua natura predare degli erbivori di cui si ciba.

Tuttavia il male ed il bene non risiedono tanto in un’esegesi antropocentrica e negli influssi deleteri o benefici che gli eventi esercitano su ognuno di noi. Il male è anche nella mancanza di senso, nell’irrazionalità dell’essere. Qual è lo scopo di tutto questo? Che fine hanno il cosmo, l’esistenza, il dolore? La domanda metafisica per miscredenti e scienziati razionalisti è priva di significato. Essi si richiamano a tutti quei filosofi antichi e moderni che hanno constatato la verità effettuale, ponendo dinanzi all’uomo lo spettacolo di un universo la cui unica giustificazione è nell’assenza di ogni giustificazione.

Spesso gli irreligiosi celebrano Lucrezio che nel “De rerum natura” distrugge le illusioni umane: la chimera dell’immortalità, della Provvidenza, di un premio per i giusti e di una punizione per i reprobi... La Natura è indifferente alla condizione delle sue creature, siano piante, animali, uomini. I cicli cosmici sono una perenne aggregazione e disgregazione di atomi. Dopo la morte si sprofonda nel nulla, lo stesso nulla da cui si proviene.

Eppure Lucrezio sembra a tratti ribellarsi a questa raggelante visione o, meglio, denunciarne l’assurda razionalità. Se il poema si apre con l’inno a Venere, immagine della vita e dell’energia, si conclude con la drammatica descrizione della “pestilenza” che dilagò ad Atene durante la prima fase della Guerra del Peloponneso. La morte e la distruzione paiono abitare nel cuore dell’universo, essere il sigillo di una realtà votata all’insignificanza, al disfacimento.

E’ appunto nella gratuità, nel gioco assurdo del caso che si incarna il male. E’ veramente così? Non lo sappiamo. E’ indubbio che spesso così ci sembra. Per questo motivo il poeta e romanziere Marino Moretti può suggellare una sua accorata e bellissima lirica con il verso: “Così parve la vita, senza scopo”.

Vietata la riproduzione - Tutti i diritti riservati di sparare le peggio puttanate sulla faccia della terra

Tuesday, April 3, 2012

Oltre l'uomo

http://zret.blogspot.co.uk/2012/04/oltre-luomo.html

Oltre l'uomo


E’ celeberrima la lode dell’uomo tessuta da Giovanni Pico della Mirandola nell’“Oratio de hominis dignitate”. All’incirca negli stessi anni un intellettuale non integrato. Leon Battista Alberti, nel “Momus sive de principe”, conduce un discorso sul valore della rarità e dell’ingegno che rendono l’uomo quasi divino.

Nel Prologo dell’inusuale romanzo in latino, l’autore scrive: “Il principe e l’artefice delle cose, il Dio otttimo e massimo, mentre distribuì tutte le qualità più ammirevoli alle sue creature in modo tale che a ciascuna singolarmente toccasse almeno un segno delle più alti lodi divine, volle riservare a sé – è chiaro, lo si tocca con mano – il privilegio di essere l’unico e solo interamente fornito delle qualità di una divinità totale. Diede, infatti, forza agli astri, splendore al cielo, alla terra bellezza, ragione ed immortalità alle anime, distribuendo tutte le meraviglie di questa sorta alle singole cose quasi una per una e, in quanto a sé, volle essere l’unico dotato in tutti i suoi aspetti di quella perfezione che non ha pari. Proprio questa qualità, se non andiamo errati, va ritenuta la prima in un ente divino: essere senza concorrenza, unico e solo.

Da ciò deriva che tutte le rarità, cioè quelle che non hanno la minima somiglianza con tutte le altre, per antica opinione degli uomini sono giudicatequasi divine. Così gli eventi mostruosi, i prodigi, le strane apparizioni ed i fenomeni del genere, per il fatto di accadere raramente, erano annoverati dagli antichi tra i segni della sacra presenza degli dei. La natura, come si è potuto osservare a memoria d’uomo sino ad oggi, ha messo insieme l’immensità e la stranezza con la rarità, tanto che pare che non sia capace di concepire nulla di bello e di grandioso che non sia anche raro. E’ forse per questo che, se notiamo persone che spiccano per ingegno ed emergono dalla massa, in modo da essere ciascuna secondo i suoi titoli di merito, fuori del comune e quindi rare, le definiamo divine e le facciamo oggetto di ammirazione ed onori assai simili a quelli divini, spinti dall’insegnamento della natura. Per questa via ci rendiamo conto che tutte le rarità hanno un che di divino, in quanto tendono ad essere considerate uniche e fuori dell’ordinario, ben distinte dall’ammasso di tutte le altre cose”.


Non sfugga in primo luogo quale lievissima ironia s’insinui nella glorificazione stessa di Dio, ente che non ammette rivalità alcuna. Si osservi anche come Leon Battista Alberti dipinge la natura le cui radiose sembianze sono increspate di stranezze, percorse da linee irrazionali (“l’ammasso di tutte le cose”).

Ci si comincia poi a scostare dall’immagine precipua nel Rinascimento dell’uomo inteso come fulcro dell’universo. La celebrazione di Pico ci appare, se confrontata con la pagina dell’Alberti, grandiosa, nel suo fervente entusiamo, nel suo afflato solenne, nella nostalgica descrizione dell’Adam Kadmon, ma pure teorica. L’uomo, con Alberti, è ancora al centro, ma il suo ruolo principia a diventare eccentrico. Il vero uomo, infatti, emerge dalla massa: è l’individuo eccezionale che palesa in sé qualcosa di divino. “Alberti – glossano Bologna e Rocchi – risolve il tema dell’artista-genio – centrale nell’Umanesimo – con la sua assimilazione al genio-creatore: l’artista è, come dice l’autore nel ‘De pictura’, alter deus. E’ interessante notare come nella visione da lui proposta si intraveda quell’associazione tra follia e talento artistico che ebbe tanta fortuna nei secoli successivi. La stessa rappresentazione dell’alterità rispetto alla massa implica la coscienza di una natura eccezionale che comporta anche, in qualche misura, un’esclusione”.

Sono indicazioni istruttive: l’uomo vero si differenzia rispetto al volgo (la massa) e trascende la sua stessa natura umana per (ri)scoprire un’impronta superiore. Spesso si legge che in ogni essere umano, in quanto tale, balugina una scintilla divina, ma saremmo tentati di concordare con Alberti che, con un inatteso scarto, sposta l’attenzione dall’uomo tout court all’individuo straordinario. L’uomo è tale se e solo se è creatore, ossia se è in grado di elevarsi dalla condizione meramente biologica per provare a costruire il senso del mondo, a tracciare il profilo della vita. Così, se consideriamo il vuoto che riempie gli involucri definiti in mancanza di un termine migliore “uomini”, vedremo un discrimine preciso tra vari livelli, se non categorie. E’ possibile che, a guisa di una polla prosciugata da un lungo periodo di aridità, la coscienza in molti sia evaporata. I tempi duri e ferrigni che viviamo concorrono in modo determinante a tale inaridimento, ma un quid antropologico scava un solco. E’ un qualcosa la cui essenza e matrice si sottrae. Purtuttavia, come in presenza di quelle sensazioni dai contorni molto sfumati, ma con effetti indubitabili sul nostro spirito, sentiamo che è così. Si giunge a codesta conclusione con dolore e per esperienza, non per aprioristico sprezzo del prossimo. Se si pensa ad un argomento contro Dio, più che il male è forse la conoscenza e la frequentazione di certe creature malriuscite a rafforzare la tesi negatoria. Con calzante sintagma T.S. Eliot le bolla come “hollow men”, “uomini vuoti”: lo sguardo vacuo li alligna nella superficialità più epidermica che assurge a summa dei peccati capitali.

E’ naturale che non si può essere assertivi: la natura umana è, per sua natura, contraddittoria e complessa. Attrae e ripugna, suscita fiducia e disinganno, empatia ed avversione. Gli abissi luminosi sono sovrastati da cieli neri, senza stelle. La disgregazione è, in parte, bilanciata dalle sublimi opere degli artisti. Giustamente, però, Alberti, contrappuntato l’elogio dell’uomo pichiano (che è l’archetipo della creatura antecedente alla caduta, prima della storia), con il suo umoristico disincanto, delinea la fisionomia dell’uomo di genio, prima o dopo, in inevitabile rotta di collisione con la storia e la società. Anche se non si è dei genii, lo scatto dell’intelletto e la diagonalità dello sguardo dislocano ai margini della “realtà” convenzionale. L’emarginazione e la solitudine sono il prezzo da pagare per essere sé stessi e non “uomini vuoti”… a perdere.

Friday, September 10, 2010

Respira il lago un palpito sopito (lirica di Clemente Rebora)

http://zret.blogspot.com/2010/09/respira-il-lago-un-palpito-sopito.html

Respira il lago un palpito sopito (lirica di Clemente Rebora)

“Respira il lago un palpito sopito” è una lirica di Clemente Rebora (1885-1957). Nel componimento del 1913, la natura è trasfigurata in una visione mistica ed introspettiva. L’arioso paesaggio è umanizzato: lo specchio d'acqua, gli astri, i monti sono esseri viventi, colti nel loro misterioso tremito. Il silenzio pervade le cose e l’anima: parola-chiave è “seno”. In questa immagine anfibologica, si compenetrano il cuore dell’uomo e l’insenatura del lago. Nel crepuscolo l’eco dei rintocchi scorre tra le valli, come linfa vitale. L’ultima quartina, in cui la cadenza di endecasillabi e settenari si concentra in una misura ieratica, culmina nella perplessa riflessione sul destino: una legge insondabile ma limpida lascia balenare, per un istante, la luce di là dalle cose.

Respira il lago un palpito sopito
e dan le stelle battiti di ciglia
divini: appare il mito
dei monti e origlia.

Per ogni seno l’ora intima scende
dalla campana: e silenzio indi vive;
ogni cosa s’intende
tra foci errando e sorgive.

Sopra gli uomini, in vere leggi pure,
accomuna il mistero della sorte
allegrezze e sciagure:
del male è il bene più forte.




Sunday, October 25, 2009

Le bianche scogliere di Rugen: un paesaggio dell'anima in bilico tra timore e speranza

http://zret.blogspot.com/2009/10/le-bianche-scogliere-di-rugen-un.html

Le bianche scogliere di Rugen: un paesaggio dell'anima in bilico tra timore e speranza

"Le bianche scogliere di Rugen" è un dipinto di Caspar David Friedrich (Greifswald 1774- Dresda, 1840). L'artista romantico tedesco, in questo quadro del 1818, raffigura uno scorcio della costa baltica. A proposito del capolavoro, Eva Di Stefano scrive:"Se finora (in molte delle opere precedenti, n.d.r.) abbiamo visto una zona piena e centrale - il monte e la figura - stagliarsi contro il cielo e l'infinito, qui la zona piena, invece, funge da cornice che ritaglia la zona centrale del vuoto, ovvero una distesa marina senza limiti e senza un orizzonte che la distingua dal cielo in cui sconfina. Se capovolgiamo mentalmente il quadro, ci accorgiamo che quello spazio immateriale dai contorni frastagliati equivale ai contorni appuntiti di una montagna... Quel vuoto appare come una lastra di trasparenze che attrae magneticamente lo sguardo, come fosse lo stesso sfondo impalpabile, simile ad un velario, a forgiare il ritmo appuntito delle scogliere che la luce trasfigura, in contrasto con la precisione delle alberate quinte laterali, delle figure, della vegetazione in primo piano. Su questo incerto palcoscenico dell'abisso tre personaggi si sporgono da una finestra naturale: la moglie, lo stesso Friedrich e, in piedi, il fratello Christian."[1]

Nei personaggi e nel colore degli abiti alcuni critici hanno voluto vedere significati simbolici, ma qui i valori sono affidati alla scelte compositive, ad una descrizione evocativa. Protagonista dell’opera è la natura con la candida scogliera, inquadrata dall'alto a suggerire un senso di vertigine. Il profilo spigoloso delle rocce contrasta con la placida distesa marina, appena increspata e soffusa di tinte delicate, giallo paglierino, celeste e rosa con gradazioni salmone. L'ampia inquadratura dà risalto sia allo scenario con il precipizio e l'arco dei rami che abbracciano l'azzurro, sia ai tre viandanti colti mentre sono mesmerizzati da qualcosa nel burrone, il cui ciglio è orlato di erbe in ciuffi. Sulla destra il fratello del pittore è assorto, mentre Friedrich e la donna paiono attratti e meravigliati da un punto preciso nel crepaccio.

Non si legga il soggetto in modo realistico, benché il quadro sia la testimonianza del viaggio intrapreso da Friedrich con la giovane consorte per presentarle la famiglia a Greifswald, con l'inevitabile sosta in quella terra dell'anima che è l'isola di Rugen. L'apparente realismo del paesaggio, infatti, è trasposto in particolari non verosimili, allusivi: i personaggi sono in bilico sull'enigmatico vuoto. L'esistenza è caducità, viaggio ai margini del mistero. Il fratello dell'artista poggia pericolosamente i piedi sulle gracili barbe di un cespuglio; la donna ha un piede quasi nello strapiombo. Friedrich ha abbandonato sul terreno il bastone ed il cilindro, come a suggerire il distacco dalla quotidianità e l'attesa sgomenta ma fiduciosa dell'istante supremo. Anche le radici dell'albero flesso sulla sinistra si aggrappano al vuoto. Spuntoni sottili e fragili come stalagmiti di cristallo si protendono verso il firmamento.

Il nulla è il vero soggetto dell'opera, il cupio dissolvi che è l'immersione nel setoso silenzio della natura, nella sua luce ambrata. Davanti alla vita si spalanca il sentimento del tempo che si stempera nell'eterno, tra tremore ed anelito. Le esili vele, immagini di labili sogni, scivolano sulla superficie del mare, mentre la brezza, profumata di salsedine, scorrendo tra le chiome, reca la voce del destino, una voce tramata di inquietudine e di consolazione.

[1] E. Di Stefano, Friedrich, Firenze, 2001, p. 27





Monday, October 19, 2009

Vegliardi

Vegliardi

A volte intravediamo negli occhi dei bimbi profondità indescrivibili. E' come se essi fossero eredi di un'ancestrale memoria genetica e psichica risalente alle origini della stirpe da cui discendono, ma sembrano anche i custodi muti della storia cosmica dal principio sino ad oggi. In verità questi bambini sono dei vegliardi, onusti di ricordi per lo più dimenticati: in loro talvolta affiorano reminiscenze anteriori alla formazione della Terra, delle ere in cui la vita pulsava nel cuore delle comete, delle epoche in cui viaggiatori nel tempo e nello spazio solcavano su vascelli di luce gli oceani dell'immensità.

Per Platone la conoscenza è anamnesi, ricordo sfocato di esistenze precedenti: così nelle iridi dei bambini baluginano spire di galassie e roteano astri sorgenti da scuri abissi. E' una conoscenza che, non appena, viene comunicata si perde, simile a quei papiri antichi che si sbriciolano, quando entrano in contatto con gli agenti atmosferici o se sono sfiorati da mani incaute.

Il passato ed il futuro coesistono nella luce corrusca dell'istante: così in quegli occhi così vivi e radiosi, già aleggiano le ombre della senilità. Lo sguardo è spento, vacuo, rassegnato oppure, fisso oltre le apparenze, scruta le cose alla ricerca di una fenditura.

Si nasce già vecchi e la corsa verso la fine è immatura. Oggi l'infanzia è circoscritta in uno spazio angusto, poiché presto il mondo travolge il giardino dell'innocenza. Così, solo per qualche attimo, i bambini ci rammentano da dove veniamo e chi siamo: presto si accodano, incamminandosi sulla strada della "nostra povera ragione". Senili, ancora prima di incanutire e di incurvarsi, vagano in un pianeta ormai consumato, declinante, all'interno di un universo arrancante verso il nulla.

Già Lucrezio, nel poema De rerum natura, si doleva perché la terra era esausta, depauperata; oggi sterili ed
aride lande attendono invano il refrigerio della brezza ed il lavacro delle piogge. Tutto è dominato da un'infinita stanchezza: i colori colano via, i suoni si sfibrano in note dodecafoniche, le immagini si sfaldano in fragili veli.

Ancora poco tempo, scandito da abitudini insensate e logore, da informi presagi.

Ancora poco tempo
.