L'immensa sputtanata a Zelig

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Scopo del Blog

Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.

Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.

Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.

Ciao e grazie della visita.

Il contenuto di questo blog non viene piu' aggiornato regolarmente. Per le ultime notizie potete andare su:

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Saturday, January 3, 2015

Esiste il male?


http://zret.blogspot.ch/2015/01/esiste-il-male.html

Esiste il male?


Il materialismo e lo spiritualismo sono soperchierie. (C. G. Jung)

Un po’ di tempo fa ho incontrato alcuni miei ex allievi con cui ho avuto il piacere di sviscerare, quasi fosse un dialogo di Platone, alcuni argomenti abissali. [chissa' quanto si sono divertiti gli ex-allievi...]

Abbiamo deciso di stabilire il presupposto secondo cui il male non esiste. Tutti gli esseri viventi, in misura maggiore o minore, lo sperimentano, ma si può arguire che il male oggettivamente sussiste? E’ sufficiente una valutazione personale per attestarne la presenza?

Gli atei e materialisti, manifestando ragionevolezza, negano la presenza del male, poiché reputano che tutto avvenga secondo necessarie leggi di natura. Se il ghepardo sbrana la gazzella, siamo di fronte ad una situazione del tutto naturale. Anche se un astro, esplodendo, causa la fine di numerose e raffinate civiltà galattiche, assistiamo ancora ad un evento normale, inscritto nei processi fisici del cosmo. La natura è quel che è: ciò che gli uomini percepiscono come doloroso o ingiusto, dipende solo da un giudizio di valore, giacché non sussiste nelle cose. Secondo tale concezione, ha torto Siddharta Gautama quando lamenta che “la vita è dolore”. No, la vita è così e basta. La natura può sembrare crudele, ma è perfetta.

In modo quasi paradossale i new agers, che si piccano di essere spiritualisti, sono d’accordo con i materialisti: essi ripetono che “tutto è perfetto”. Secondo questa interpretazione, pure il caso-limite di uno psicopatico che tortura un bambino per settimane e che lo uccide dopo aver inflitto alla vittima inaudite sofferenze, sarebbe razionale, possedendo una sua logica indefettibile. E’ spiegato con i soliti argomenti: il karma e la necessità di evolvere. Una summa di questo pensiero si può leggere in un articolo di Luciano Giannazza intitolato “E’ colpa tua”: stando all’autore tutto quello che ci accade, di bello e di brutto, sarebbe stato deciso da noi a priori per evolvere… c’est naturel! Prendiamo un altro caso estremo: il giovane che qualche giorno addietro è stato ustionato con l’acido da una sua ex fidanzata, prima di rinascere, avrebbe stabilito che per lui sarebbe stato molto istruttivo e di enorme giovamento sul piano spirituale incorrere in questo piccolo contrattempo. Et voilà: è stato accontentato!

E’ ovvio che sia i materialisti sia i new agers inciampano in alcune difficoltà teoriche, ma i primi sono maggiormente da apprezzare: infatti, con coerenza, negano il male ma pure Dio e l’immortalità dell’anima. Certo non sanno spiegare né come né perché sorga il male umano, quel surplus di violenza del tutto incompatibile con la struggle for life. Uccidere per sopravvivere è un fatto di natura, ma il seviziare ha una funzione darwiniana? E’ indubbio: anche certi animali seviziano, ma tale comportamento sembra avere una sua valenza biologica: la gatta che tormenta il topolino, dopo averlo catturato, insegna ai gattini come cacciare le prede.

Nel complesso le aporie che devono affrontare i materialisti sono meno ostiche di quelle su cui scivolano i new agers. I materialisti abbracciano anche l’idea del determinismo che è una forma di fatalismo: tutto avviene secondo precise leggi di natura. Giustamente essi non si interrogano sul problema del male, ma sbagliano, come i new agers, quando s’impegnano in crociate contro la superstizione e le ingiustizie sulla Terra. Se non sussiste il male, non ha ragion d’essere neppure l’etica, che è distinzione tra bene e male: perciò di fronte alle sciagure, alle guerre, all’ignoranza, all’oscurantismo, il vero ateo materialista deve rimanere indifferente, come è imperturbabile al cospetto di un ragno che divora un insetto.

Gli “spiritualisti”, invece, vogliono salvare capra e cavoli: affermano il libero arbitrio, ma lo neutralizzano con l’idea del karma; dichiarano che tutto è perfetto, compiuto, ma spronano gli uomini affinché maturino ed evolvano; siamo noi a costruire l’esistenza ed il mondo, ma seguendo un percorso predeterminato a priori in modo inconsapevole. Ne risulta un guazzabuglio, un’accozzaglia di sciocchezze in cui ogni concetto si disintegra in una contraddizione insanabile. Il fatalismo più radicale si incista nella più recisa affermazione della libertà umana.

A proposito di incongruenze, ho notato che alcuni atei e materialisti sono propensi a credere nell’immortalità dell’anima. Ebbene, questa è una gigantesca, irriducibile incoerenza: se, infatti, esiste solo la materia-energia, l’eternità è prerogativa delle particelle del tutto prive di coscienza. Dopo il decesso ci attende il nulla e non è poi una prospettiva così spaventosa, se ricordiamo l’insegnamento di Epicuro. La sopravvivenza dell’individuo dopo la morte fisica presuppone che esista un quid immateriale ed imperituro di cui siamo parte o manifestazione: se non ci piace chiamarlo Dio, definiamolo Anima, Coscienza, Assoluto, Essenza, Essere… Raffiguriamolo anche in modo diverso da come lo presentano le religioni tradizionali, magari come un Dio imperfetto o qualcosa del genere, ma non è consequenziale escluderlo. Un irreligioso non può stare con il piede in due staffe: respingere Dio e, nel contempo, aspettarsi di continuare a vivere in un altro piano, per la “contradizion che no’l consente”.

Tornando al tema del male, è evidente che le argomentazioni dei miscredenti sono, tutto sommato, persuasive, se si prescinde da almeno un aspetto. Il male, che essi riescono ad espellere dalla porta, rientra dalla finestra, quando si considera che l’universo è intrinsecamente irrazionale, solo per il motivo che esiste. Ora l’irrazionalità, sebbene non sia sinonimo di male, implica un risvolto illogico, una mancanza di senso che ci obbligano poi ad arrampicarci sugli specchi per tentare di spiegare l’inspiegabile. Solo il Nulla è perfetto, ma il Nulla non esiste. Visto che qualcosa esiste, quel qualcosa, porta su di sé, come una tartaruga il carapace, il problema del male. Esistere (ex-sistere, ossia stare fuori) significa essere collocato nello spazio e nel tempo: spazio e tempo contengono in sé l’entropia, l’imperfezione che sono difetti del tutto.

Infine la “realtà” è codificata attraverso la lingua: essa, anzi, per molti versi precede e fonda il “reale”. Dunque se le comunità linguistiche hanno sentito l’esigenza di coniare un termine per designare il male, esso in qualche maniera esiste. Esiste nel lògos (discorso) e, in ragione di una corrispondenza biunivoca e sincronica, esiste pure nel mondo.


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Wednesday, October 9, 2013

L’assurda razionalità del Tutto


http://zret.blogspot.com/2013/10/lassurda-razionalita-del-tutto.html

L’assurda razionalità del Tutto

Il reale è irrazionale e l’irrazionale è reale… purtroppo.

Gli atei ed i razionalisti affermano che il male non esiste. Hanno perfettamente ragione, se si analizza la realtà solo attraverso strumenti razionali. E’ singolare che gli spiritualisti ed i materialisti, pur agli antipodi, concordino su tale punto, adducendo diverse motivazioni: il mysterium iniquitatis non sussiste. Logici e matematici pensano che il mondo possa essere compreso per mezzo della logica. Essa dimostra che il male non è nelle cose, ma nelle interpretazioni. Peccato che l’universo non sia logico, essendo autocontraddittorio.

Certo, il bene ed il male sono categorie umane, valori che gli uomini attribuiscono agli enti. La Natura di per sé non è (o pare?) né malvagia né benevola: essa è quella che è. Siamo noi a vedere in un terremoto il male e in un tramonto dai colori rutilanti il bene. Il ghepardo che caccia e divora la gazzella non è malvagio: è nella sua natura predare degli erbivori di cui si ciba.

Tuttavia il male ed il bene non risiedono tanto in un’esegesi antropocentrica e negli influssi deleteri o benefici che gli eventi esercitano su ognuno di noi. Il male è anche nella mancanza di senso, nell’irrazionalità dell’essere. Qual è lo scopo di tutto questo? Che fine hanno il cosmo, l’esistenza, il dolore? La domanda metafisica per miscredenti e scienziati razionalisti è priva di significato. Essi si richiamano a tutti quei filosofi antichi e moderni che hanno constatato la verità effettuale, ponendo dinanzi all’uomo lo spettacolo di un universo la cui unica giustificazione è nell’assenza di ogni giustificazione.

Spesso gli irreligiosi celebrano Lucrezio che nel “De rerum natura” distrugge le illusioni umane: la chimera dell’immortalità, della Provvidenza, di un premio per i giusti e di una punizione per i reprobi... La Natura è indifferente alla condizione delle sue creature, siano piante, animali, uomini. I cicli cosmici sono una perenne aggregazione e disgregazione di atomi. Dopo la morte si sprofonda nel nulla, lo stesso nulla da cui si proviene.

Eppure Lucrezio sembra a tratti ribellarsi a questa raggelante visione o, meglio, denunciarne l’assurda razionalità. Se il poema si apre con l’inno a Venere, immagine della vita e dell’energia, si conclude con la drammatica descrizione della “pestilenza” che dilagò ad Atene durante la prima fase della Guerra del Peloponneso. La morte e la distruzione paiono abitare nel cuore dell’universo, essere il sigillo di una realtà votata all’insignificanza, al disfacimento.

E’ appunto nella gratuità, nel gioco assurdo del caso che si incarna il male. E’ veramente così? Non lo sappiamo. E’ indubbio che spesso così ci sembra. Per questo motivo il poeta e romanziere Marino Moretti può suggellare una sua accorata e bellissima lirica con il verso: “Così parve la vita, senza scopo”.

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Thursday, October 3, 2013

Schegge sull'osso sacro a cura di Zret il pagliaccio triste (II)


zret.blogspot.com/2013/10/schegge-sul-sacro-ii.html

Schegge sul sacro (II)


Qui Schegge sul sacro(I)

Che non ci sia niente di peggiore del mondo non si deve dimostrare. (M. Sgalambro)

Che cos’è il sacro? Potrebbe essere coesistenza di bene e male? Si domanda Gustav Meyrink nel romanzo “Il domenicano bianco”: “Forse che, come suprema verità e suprema paradosso, Satana e Dio, il Distruttore ed il Costruttore sono una sola e medesima cosa?

La tradizione vedica esprime un concetto simile, quando evoca gli dei Shiva e Visnù. Shiva, come signore del tempo, presiede all'incessante movimento di creazione-annientamento-rigenerazione, il cui ritmo è scandito dalla sua danza cosmica. Visnù è il dio della conservazione, benevolo e misericordioso.

Per lo più incompreso, Schelling, scavando per cercare le radici del male, si dovette arrendere: il buio splende nell’Assoluto, non meno della Luce.

Coomaraswamy [e di qoglioniestiqazzi ne vogliamo parlare?] crede che Dio sia una vittima volontaria. Egli paradossalmente si è dispiegato nell’ignoranza e nella divisione. Le nostre tenebre sono le sue tenebre. Il bacio di Dio è bacio d’amore e morte.

Forse per queste ragioni al cospetto del sacro i popoli antichi – penso in particolar modo agli Etruschi - avvertivano un brivido di orrore religioso.

Oggi la fede è confinata nei santini, nelle preghiere bofonchiate dalle beghine, orazioni devote ma purtroppo inutili. La vera esperienza del sacro è molto diversa: accecante e distruttiva. Essa si ritorce contro chi la brama. Il sacro ha due volti, è bifronte a coppie di due.

Quale sguardo può sostenere lo sguardo del volto nero?

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Sunday, July 7, 2013

I negatori del male e la condizione umana

http://zret.blogspot.it/2013/07/i-negatori-del-male-e-la-condizione.html

I negatori del male e la condizione umana


L’ambiguità del reale è siffatta che il Bene stesso può generare il Male.” (F. Schelling)

E’ estenuante il dibattito con gli assertori della “verità”: estenuante ed inutile. Ora, mi chiedo come sia possibile essere sicuri di possedere verità ontologiche (non empiriche) per dispensarle ai profani. Come spesso avviene, la pietra d’inciampo è il problema del male.

I dogmatici, per avere ragione in modo definitivo, invece di ricorrere ai funambolismi dei teologi, che tentano di spiegare il mysterium iniquitatis, scivolando in conclusioni più insanabili delle già antinomiche premesse, negano il male tout court. E’ uno stratagemma molto efficace, ma pur sempre uno stratagemma.

Se si obietta che resta comunque una dose di male che pare assurdo, inesplicabile, i negatori ti rispondono, con Leibniz e Pangloss che “tutto è perfetto così com’è”. “Viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Tali asserzioni sono postulati che non abbisognano di alcuna dimostrazione. Il male è solo il frutto di una visione limitata e soggettiva. Sarà... Se si propone l’esempio di un bambino ucciso, dopo essere stato seviziato magari per anni, coloro replicano nel modo seguente: in primo luogo quel bambino ha deciso di nascere per maturare un’istruttiva esperienza che prevedeva la sua morte dopo una lunga tortura. Inoltre essi affermano che il male incarnato in tale vissuto è del tutto illusorio, più inconsistente di un’ombra.

Ora, è anche possibile, in linea teorica, che costoro abbiano ragione: la realtà è così irrazionale che il male stesso potrebbe essere giustificato con argomenti così irragionevoli. Quanto contesto in modo reciso è l’atteggiamento dogmatico, apodittico, categorico dei negatori: essi non propongono il loro pensiero come un’eventuale risposta, ma come la RISPOSTA. Questo è oltremodo irritante nonché una bestemmia nei confronti degli esseri viventi tutti che soffrono pene indicibili sia fisiche sia morali. Onestà intellettuale vorrebbe che, al cospetto delle più atroci manifestazioni del male, si sospendesse il giudizio o si ventilassero delle ipotesi. Onestà intellettuale vorrebbe si evitasse di addurre come prova di quanto bandito il Pensiero tradizionale che viene piegato (e stuprato) per sentenziare e persino per giudicare.[1]

I seguaci di Plotino, di Agostino, di Leibniz etc. sostengono che il male è non-essere, assenza di Bene, essendo privo di sostanza. Lo ripeto: potrebbe essere così, ma, mentre i filosofi citati, se non altro, inquadrano la loro interpretazione in una dottrina filosofica, chi ne ha solo orecchiato le idee manca del tutto dell’inclinazione a definire un disegno coerente, semmai impastando un po’ di pseudo-concetti della New age più becera.

Prova ne è la gigantesca incongruenza in cui si impastoiano. I negatori del male sono nel contempo propugnatori del libero arbitrio, quindi dell’etica. Se, però, tutto è armonico, tutto è solo come dev’essere, allora tutto è lecito: non intercorre alcuna differenza tra una carneficina ed il salvataggio di mille vite. Sono due azioni del tutto intercambiabili, poiché ambedue consentono di maturare esperienze e di “evolvere”. Del tutto intercambiabili sono anche un criminale ed un benefattore.[2]

Per carità, sono il primo a vedere nella morale il preludio del moralismo. Sono il primo anche a propendere per la fallacia circa il convincimento del “libero arbitrio”, simpatizzando, invece, per una concezione fatalista. Tuttavia le mie sono mere congetture o, al limite, intuizioni: so che non possono né potranno mai essere avvalorate in modo definitivo né d’altro canto confutate. Ammetto pure che non è per nulla facile dirimere certe controversie, preferendo il dubbio umano ad una “verità” sacerdotale.

Sentirei di accostarmi, come ho già scritto, a quelle concezioni, secondo cui il mysterium iniquitatis è inerente alla creazione (o emanazione stessa): questa idea, prima di essere gnostica, è in Anassimandro.[3] Riconosco che non è non il non plus ultra come chiarimento, ma è sempre meglio sia delle consolatorie delucidazioni New age sia dell’esegesi ebraico-cristiana-musulmana, secondo cui il male sarebbe dovuto ad una scelta di Adamo ed Eva. I progenitori avrebbero violato un precetto divino, quando ancora il male non era entrato nel mondo. Da dove spunta poi il Serpente tentatore? Lo creò Dio? Se è così, nell'Eterno alberga un lato oscuro? Il Signore non sapeva, nella sua onniscienza, che Eva avrebbe ceduto alle lusinghe del Serpente? Etc. Insomma lasciamo tali quesiti a chi si appoggia alla Bibbia con le stampelle di traduzioni approssimative.

Essere umani significa riconoscere che talune questioni non possono essere del tutto intese. I dogmatici sono l’antitesi dell’umanità, poiché si reputano, con immensa superbia, eguali a Dio stesso, di cui conoscono ed interpretano intenzioni, fini, persino i più reconditi pensieri. La condizione umana è, invece, insufficienza ed incompletezza: altrimenti non sarebbe una condizione propriamente umana, nel bene e... nel male.

[1] La Philosophia perennis è strumentalizzata per divulgare ed imporre storte nozioni della New age deteriore.

[2] Non è naturalmente l’unica incoerenza in cui annegano. Comunque che noia, che nausea questa “perfezione”, questa acquiescenza all’esistente… un sedativo per la coscienza, un elisir narcotizzante che dona una felicità da moribondi.

[3] Il mito cosmogonico di Purusha (RigVeda), l’Uomo primordiale che si smembra e si sacrifica nella Manifestazione, non è forse così distante. Questo mito non presuppone che fine del cosmo e delle creature sia evolvere, attraverso l’esperienza dei patimenti: infatti vede la creazione in sé come sacrificio, come disarticolazione rispetto ad un’unità originaria. Il fine non è dunque l’evoluzione, ma il ritorno ad uno stato primigenio. La sofferenza non è tanto un mezzo, quanto un aspetto necessario dell’universo. La scelta compiuta dagli esseri tutti (inclusi i minerali) di scendere nel mondo materiale è inevitabile (fatalismo?), perché è l’unico modo per risalire, per tornare alla Sorgente da dove Purusha si è allontanato. Il motivo di questo distacco non è per nulla chiaro. Il mito di Purusha, oltre a contenere un dualismo che ricorda quello cartesiano tra res cogitans e res extensa, definisce una situazione circolare, oziosa e tautologica. Per dirla con Leopardi: “Tutte le cose si muovono per tornare infine nel luogo donde si son mosse”.


Friday, May 10, 2013

Gesù o Barabba? No, Gesù è Bar Abba

http://zret.blogspot.co.uk/2013/05/gesu-o-barabba-no-gesu-e-bar-abba.html

Gesù o Barabba? No, Gesù è Bar Abba

Gesù o Barabba?” è un recente articolo del Professor Francesco Lamendola. Il titolo dilemmatico del testo preannuncia una riflessione sulla dicotomia tra bene e male. Confesso che gli argomenti dell’autore e soprattutto lo spunto evangelico per l'esposizione delle idee mi lasciano dubbioso. Come ho scritto in altri occasioni, la Storia ha la sua dignità e si rischia di incorrere in luoghi comuni, allorquando una riflessione morale, pur profonda, eclissa il rigore metodologico.

L’antitesi tra Gesù e Barabba e l’attribuzione agli Ebrei della crocifissione di Cristo sono da un punto di vista storico destituiti di fondamento: non ripeterò quanto già osservato in parecchi articoli, tra cui segnatamente “Uno o due Messia?”, limitandomi a rammentare che, se Bar Abba fu un uomo che davvero visse nella Palestina del I secolo, fu il Messia di Aronne, non un malfattore.

Né è necessario ribadire che il processo di Gesù fu celebrato dai Romani per volontà dei Romani, come ha dimostrato, tra gli altri, Samuel Brandon, in un suo eccellente saggio, "Il processo di Gesù", il cui errore consiste nella mancata individuazione dei due Messia. E’ tuttavia un malinteso che solo negli ultimi decenni è stato superato, grazie ad esegeti che sono riusciti a sbrogliare l’intricata matassa evangelica. Questi biblisti hanno afferrato il filo sottile che ha permesso loro, pur tra mille difficoltà, di scovare le tracce del Messia sacerdotale, contraffatto nelle sembianze di un assassino.

Fra questi ricercatori il più meticoloso mi pare Giancarlo Tranfo al cui saggio “La croce di spine” rinvio per ogni ragguaglio in merito. Davvero commendevole l’operato di questo novello Teseo che, non perdendosi nel dedalo delle ricostruzioni, analisi, fonti, polemiche…, ha ricostruito uno scenario plausibile della Palestina nel I secolo, dilaniata da discordie, tumulti e guerre.

Comprendo l’istanza etica e l’afflato spirituale che animano la pur bella pagina del Professor Lamendola, ma se intendiamo stigmatizzare la vocazione per il male, credo sia più consono riferirsi alle potenti famiglie non tutte ebraiche (meglio khazare) che oggi, nel silenzio complice dei media istituzionali, martoriano l’umanità ed il pianeta. Gli Ebrei descritti nei Vangeli furono ora dei rivoluzionari, ora dei collaboratori di Roma, ora degli iniziati (gli Esseni?) etc., ma non gli accusatori che incriminarono Cristo e lo condannarono a morte.

Restano – è naturale – le abissali domande sulla presenza del male e sul motivo per cui molti uomini decidano(?) di pervertire la propria natura, dando l’assenso alla più ignominiosa scelleratezza. Si può aprire una digressione qui circa la spaventevole degradazione che hanno subìto gli stessi malvagi: infatti, se nei secoli passati, i pravi o erano dei delinquenti comuni o degli uomini nella cui malizia brillava tuttavia una grandezza, oggi molti individui sembrano indulgere ai più luridi vizi e delitti (la calunnia, l’aggressione squallida e gratuita, l’invidia più livida, l’incontinenza più sfacciata…). Il male che essi incarnano è meschino, miserabile, infimo. Un esempio: Alessandro il Macedone fu uomo impulsivo, lussurioso e crudele, ma capace di sognare in grande, intrepido e mosso talora da nobili passioni. Oggigiorno una figura come Barack Obama (al secolo Barry Soetoro) è una nullità che trasuda laidezza, ipocrisia e codardia da ogni poro. Un tempo sulle strade i viandanti erano assaliti dai briganti; oggi si è aggrediti da ribrezzosi personaggi che si compiacciono del turpiloquio e della loro irredimibile bassezza.

Si accennava ai quesiti cruciali che si pone l’ottimo Professor Lamendola: egli reputa che l’opzione per il male dipenda dall’ignoranza di sé stessi, da un’elusione del gnòti sautòn. Non saprei: il tema, più che complesso, mi pare inestricabile. Nondimeno, ben vengano gli interrogativi che l’autore lancia, a guisa di dardi rapidissimi di cui non si sa se centreranno il bersaglio o no. Come sempre, sono preferibili le domande acuminate alle nostre spuntate risposte.


Monday, March 4, 2013

Il libro di Mirdad

http://zret.blogspot.co.uk/2013/03/il-libro-di-mirdad.html

Il libro di Mirdad

Il libro di Mirdad, il segreto della conoscenza e della saggezza”, [professore di sta cippa, non sei neanche capace di copiare un titolo: prima saggezza e poi conoscenza] è un’opera del libanese Mikhail Naimy, sodale ed accolito del compatriota Kahil Gibran. E’ scritto in larga parte sotto forma di dialogo. Narra la storia di un misterioso straniero, Mirdad. Egli si reca in visita nel remoto monastero che sorge sulla montagna dell’Arca. Lì assume il ruolo di maestro e di guida spirituale per i nove allievi che si è scelto.

“Il libro di Mirdad”, vergato in inglese e poi tradotto in arabo, è romanzo sui generis in cui non accade quasi nulla, se si escludono i primi magri capitoli. L’esile filo narrativo è imperlato di parabole, di profondi insegnamenti, di aforismi adamantini. Alcune pagine sono molto belle ed ispirate, pervase dalla ieraticità di un Vangelo apocrifo.

“Solo l’ignoranza ama essere ornata di parrucche e di toghe sì da poter emanare leggi ed infliggere condanne”.

“La fede che nasce su un’onda di paura non è altro che la schiuma della paura: essa s’alza e s’abbassa con la paura. La vera Fede non sboccia che sullo stelo dell’Amore. Il suo frutto è il Discernimento”.

“Le parole sono nel migliore dei casi lampi che rivelano orizzonti; esse non sono strade che conducono a quegli orizzonti e, ancor meno, esse gli orizzonti.”

“Più che un inferno è l’avere ali di luce e piedi di piombo; l’essere sostenuti dalla speranza ed il venire sommersi dalla disperazione; l’essere spiegati dall’indomita fede ed il venire ripiegati dal pavido dubbio”.

I concetti si addensano in immagini di mirabile purezza, in esempi torniti, in limpide descrizioni del paesaggio. “Il libro di Mirdad” è un’esortazione a superare il dualismo, ad attingere la natura divina che è in noi, sepolta sotto uno spesso strato di sedimenti, la cui luce è offuscata dall’eclissi cieca e nera dell’esistenza.

Pieno di pàthos è il capitolo intitolato “La grande nostalgia”, ove lo struggente rimpianto della Beatitudine ancestrale trova accenti elegiaci.

Le parole di Naimy sono un balsamo per gli infermi. Sono rugiada sulla fronte del febbricitante. Che cos’è la vita, se non una febbre, una sete inestinguibile di Infinito, tosto risorgente, non appena è un po’ placata? L’autore, attraverso la seducente tessitura fonica, elargisce attimi intensi, visioni mistiche. Lascia persino baluginare l’ineffabile mistero dell’Assoluto, oltre l’Inferno, oltre lo stesso Paradiso. Così tutte le aspirazioni umane e persino gli ideali più alti, al cospetto dell’Unità primigenia, inscalfibile, si riducono a squallide carcasse, a relitti rosi dalla salsedine.

Non sorprende che un dipinto dai colori smaglianti come “Il Libro di Mirdad”, sia piaciuto per la sua spiritualità ad Osho, ma deluderà i palati grossolani avvezzi a storie avventurose, ad intrecci costellati di colpi di scena. Lontano dai gusti triviali dei nostri tempi, eppure in parte non discosto da talune recenti espressioni della New age, il titolo si sgualcisce qua è là in qualche increspatura consolatoria. In quei brani dove il profeta Mirdad prova a suggerire l’origine del male, si avverte alcunché di arido, di gratuito. Qui l’autore ricuce con mano ferma e sapiente le dolorose ferite del cosmo e dell’essere, ma le cicatrici sono ancora visibili.

Il romanzo si conclude con un inno, scandito da una ripresa: “Dio è il tuo capitano, salpa, o mia Arca!”. Beato chi conosce la rotta…

Wednesday, December 19, 2012

Il più bel post d'o professò cogliò


http://zret.blogspot.it/2012/12/il-bivio.html

Il bivio


Wednesday, July 20, 2011

Una teoria di teorie

http://zret.blogspot.com/2011/07/una-teoria-di-teorie.html

Una teoria di teorie

Dove affiora la vita e che cos’è? E’ possibile che la vita sia generata dalla coscienza, ma non sappiamo che cosa si debba intendere veramente per coscienza. Perché affermiamo che piante, animali ed uomini sono esseri animati, mentre le pietre ed i cristalli non lo sono? Anche i cristalli potrebbero essere creature viventi in cui la coscienza è sopita.

Alcuni indirizzi di pensiero oggi riscoprono l'Anima mundi, studiando l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, ma nessuno è riuscito a spiegare, a dar conto della discontinuità tra il mondo delle particelle e l’universo delle cellule per risalire via via sino alla consapevolezza, all’anima, fino allo spirito.

Giustamente si suppone che la mente possa influire sul corpo, ma resta un enigma in che modo e come gettare un ponte tra le due rive. E’ in gioco non solo una questione conoscitiva, ma anche la salute che è il risultato di un fragile equilibrio. Affermare che le cellule, le molecole e persino gli atomi sono dotati di mente è più uno stratagemma linguistico che un chiarimento, anche se probabilmente è così.[1]

Non conosciamo dove finisca la fisica per dar spazio alla chimica, dove termini la chimica e principi la biologia, dove si compia la biologia per dar luogo alla psicologia… In modo quasi paradossale, in una struttura del sapere ad anello, è la fisica la disciplina più contigua alla metafisica: qui l’orizzonte diviene elusivo, quasi immateriale.

E’ evidente: bisognerebbe riuscire a comporre tutte le discontinuità, a saldare le fratture, ma è compito arduo. Così la “semplice” frase: “La mente influisce sulla materia” implica dei passaggi concettuali audaci, vertiginosi, poiché ignoriamo i due corni del dilemma e come interagiscano. Anche qualora intendessimo eliminare uno dei due corni, per mezzo di una visione monistica, ci troveremmo di fronte a tante e tali aporie da sbriciolare la teoria nel momento stesso in cui venisse ventilata.[2]

Le teorie sono edifici splendidi, ma fragili. Le teorie sono edifici grandiosi che si riempiono di crepe, un istante dopo che sono stati innalzati. Ipotesi, sistemi, interpretazioni… mai come in questi anni si sono moltiplicati e sono più gli aspetti che li differenziano da quelli che li accomunano.

Mi pare che i modelli esegetici siano dei cerchi perfetti, ma vuoti. La realtà manifesta rimane un enigma e, quanto più tentiamo di delinearla, tanto più il quadro si complica, abbisognando di continui aggiustamenti. Le teorie sono simili a quei dipinti che un artista incontentabile continua a ritoccare con il risultato che, alla fine, li rovina.

Altro che teoria del tutto, qui non siamo ancora stati in grado di formulare un agile e comprensibile modello di settori limitati del reale. Se poi si aggiunge che le teorie che ambiscono ad essere onnicomprensive sono complesse a tal punto da debordare nell’astrusità, si intende che la strada da percorrere è ancora molto lunga. Si consideri che molte interpretazioni si ostinano ad aggredire, in verità con scarsissimo successo, solo il mondo fenomenico. Che cosa succede quando si tenta di addentrarsi nell’essenza? Siamo ciechi che brancicano nel buio.

Ancora, ammesso e non concesso che si riesca a fornire un quadro pur sommario, ma plausibile dell’universo, come si potrà poi attaccare la roccaforte del male? Se la presenza della vita nel cosmo è una sfida formidabile anche per gli intelletti più eccelsi, il problema del male, in quanto realtà incongrua, dissonante con il tutto, disarma.

Eppure si seguita a cercare ed a porsi domande, perché è nella natura umana, anche se forse sarebbe meglio evitare di porsi quesiti che non possono avere risposta.

[1] Se la medicina allopatica considera solo i sintomi, perdendo di vista l’uomo, priva com’è di una visione olistica, alcune medicine cosiddette alternative tendono a colpevolizzare il paziente. Lo riconosce lo stesso Deepak Chopra, medico ayurvedico: se – egli nota – riteniamo che molte malattie affondino le radici in conflitti interiori, in squilibri psichici di cui spesso non si è consapevoli, esortare il paziente a prendere coscienza di questi problemi significa creare dei sensi di colpa, senza che si riesca a favorire la guarigione, anzi causando talvolta un peggioramento.

[2] E’ naturale che pure “la materia produce il pensiero” è asserzione altrettanto ardita ed indimostrabile.


Tuesday, February 22, 2011

Timorìa

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Timorìa

Could be right, I could be wrong. (Public image Ltd)

Il tempo è scaduto: ne siamo consci. Gli eventi ci incalzano con i loro artigli di acciaio. Il grande gioco è alla sua ultima manche. Infatti si tratta di un gioco, benché feroce. Invano siamo stati avvisati ed ammoniti: se le profezie si adempiono in modo fatale (poco o punto importa se le predizioni si autorealizzino o se dipendano da un destino), dove finisce il libero arbitrio cui ci si appella affinché cambiamo?

Siamo alle solite: si cerca senza requie e con poco senno un responsabile. Di Dio, del Demiurgo, degli Arconti o degli uomini: di chi è la colpa? E’ vero: gli uomini (non tutti nella stessa misura) hanno le loro responsabilità che coincidono con l’egoismo, l’indifferenza, la cupidigia… Non eravamo, però, stati creati “ad immagine e somiglianza di Dio”?[1] Va bene: qualcuno o qualcosa ci traviò. Tutto andò storto da allora, nonostante alcuni patetici tentativi di cambiare rotta. Non so se l’essere umano sia fondamentalmente buono o malvagio. Credo sia egocentrico: allora si capisce se è più incline al male o al bene.

Dunque è inevitabile che l’umanità sia punita, come quando fu quasi del tutto sterminata dal diluvio. Forse quell’epocale inondazione fu un evento naturale (o tecnologico?) che poi antichi popoli attribuirono a divinità irate e colleriche. Quel castigo nondimeno non fu sufficiente, nonostante fossero sopravvissuti il pio Ziusudra-Utnapishtim-Noè ed i suoi discendenti. Eccoci quindi di nuovo con la spada di Damocle di un cataclisma storico. Il copione è molto simile e, come se non fossero bastate le brutture e le violenze del passato, si prospetta l’avvento di un “mondo nuovo” da far tremare le vene e i polsi. Come se non fosse bastato lo strazio dell’esistenza quotidiana, ora ci attende il patibolo per essere nati. Molto bene. Riceviamo la ricompensa del nostro agire e/o del nostro subire, indifferentemente, di azioni consapevoli o inconsapevoli, anteriori. Fatum. I giusti saranno salvati, ma esistono i giusti?

Siamo di fronte a questa giustizia punitiva, al cospetto di un Male assurdo, coronato da una sanzione che pare, se non discutibile, intempestiva: nessuno è del tutto innocente, ma non so che gusto si possa provare a vedere un epilogo che si conosce già, solo per poter esclamare: “Hai visto? Te l’avevo detto!”

E’ una concezione basata sulla vendetta e sul senso del peccato: la mentalità medievale, interpretata da alcuni antropologi come “cultura della colpa”, ha lasciato i suoi strascichi. Non si può affermare che è una visione affatto errata; certo stride con un’etica imperniata su altri princìpi. Credo che potrei accettare l’esistenza di un Dio alla Horkheimer. Non che i conti non debbano essere pareggiati, anzi, ma forse si potrebbe (o si sarebbe potuto) intervenire in un modo diverso, senza lasciare esplodere la granata le cui schegge di pazzia si conficcheranno nella carne viva. Non si può pensare che l’orrore tracimante sia cancellato con un colpo di spugna.

Sarà pure un’ottica sfocata: tutto questo potrebbe essere necessario e persino equo, ma a volte si viene rasentati dal pensiero che una fenditura di irrazionalità spacchi l’universo. Scrive Sebastiano Vassalli nel romanzo storico “La chimera”: “Arriva sempre nella vita di un uomo che abbia avuto in gioventù un forte stimolo ideale, il momento in cui si prende atto definitivamente, senza più speranze né illusioni né sogni, dell’inerzia delle cose e del mondo, il momento in cui si capisce che la fede non smuove le montagne, che le tenebre prevarranno sempre sulla luce, l’inerzia soffocherà il moto e così via”.

Non siamo a questo punto di sfiducia e di disincanto, ma moltissime questioni esigono una vera risposta che invano cercheremo con le nostre limitate, gracili conoscenze o nei libri, sacri e no.

[1] Forse non esiste traduzione più grossolana ed approssimativa di questa vulgata, ma tant’è…



Monday, January 10, 2011

Il male secondo René Guénon

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Il male secondo René Guénon

Nel 1909, all'età di ventitrè anni, René Guénon diede alle stampe uno scritto intitolato “Il Demiurgo”. Nel testo l'insigne studioso ed esponente della Philosophia perennis, affronta il plurimillenario quesito "Si Deus, unde malum? Si Deus non est, unde Bonum?", rispondendo con logica adamantina ad una domanda abissale, per mezzo di una disquisizione costellata di nozioni universali, quali l'infinito, l'essere ed il non-essere, il manifesto ed il non-manifesto, l'unità ed il molteplice.

L'autore si chiede: "Come dunque ha potuto Dio, se è perfetto, creare degli esseri imperfetti?", "Come ha potuto l'Unità produrre la Dualità?". Nella visione tradizionale che Guénon propugna, richiamandosi soprattutto al "Trattato della conoscenza dello Spirito", di Shankaracharya, la distinzione tra Bene e Male è prerogativa del manifesto. Il Male, dal punto di vista universale, non esiste. Anche gli errori o, meglio, verità relative, sono schegge della Verità totale. La stessa distinzione tra lo Spirito e la materia, tra valori e disvalori, ha senso solo sotto certi riguardi: lo Spirito, che è Trascendenza assoluta, è l'unica vera realtà.

Resta comunque l'onere di chiarire, pur all'interno di un sistema sostanzialmente monista, l'innegabile, sebbene transeunte, presenza del male: Guénon sostiene che il Demiurgo, concepito come creatore dell'universo materiale, non è una potenza esterna all'uomo: "Nel suo principio esso non è che la volontà dell'uomo, in quanto questa compie la distinzione fra il Bene ed il Male. Ma in seguito l'uomo, limitato come essere individuale da quella volontà che è la sua propria, la considera come qualcosa di esteriore a lui e così essa diviene distinta da lui, poiché essa si oppone agli sforzi che egli compie per uscire dal regno in cui si è rinchiuso da sé stesso, l'uomo la vede come una potenza ostile e la chiama Satan o l'Avversario. Osserviamo peraltro che questo Avversario, che abbiamo creato noi stessi e che creiamo in ogni momento - perché ciò non va considerato come avvenuto in un tempo determinato - questo Avversario, dicevamo, non è malvagio in sé stesso, ma è l'insieme soltanto di ciò che è contrario. Da un punto di vista più generale, il Demiurgo, divenuto una potenza distinta e visto come tale, è il Principe di questo mondo di cui si parla nel Vangelo di Giovanni... Il suo regno è visto come il Mondo inferiore."

Decisivo nello svolgimento delle argomentazioni è il richiamo al passo di "Genesi", inerente alla caduta dell'Adam Kadmon, l'Adamo primordiale la cui scissione fu causata da Nahash, l'egoismo o il desiderio di esistenza individuale, un impulso di separazione che spinge l'uomo ad assaggiare il frutto dell'Albero della Scienza del Bene e del Male.

Questo è il succo di un articolo onesto e limpido i cui cardini sono il male come proiezione umana e dualità. Il concetto di male quale oggettivazione lascia un po' perplessi: si ha l'impressione che tale "oggetto" mentale si sia solidificato. La volontà umana genera questa opposizione per identificarsi, per esistere tramite un principium individuationis.

Va osservato che la dualità è idea cruciale: in effetti la radice di "dualità" (di) si riconosce proprio nel termine “diavolo” (greco diabolon da diaballo, separo, divido): il male è dunque scissione, frattura.

Non mi pare molto persuasiva la resa di Nahash con “egoismo” che, invece, tradurrei con “conoscenza”, valore, però, evidenziato da Guénon con il cenno all’Albero della Scienza. I simboli del testo biblico – manca uno sguardo esegetico all’Albero della Vita - sono forse interpretati in modo un po’ parziale, ma la differenza tra Adam Kadmon e l’Adamo successivo coglie il decadimento da una condizione primigenia in cui l’uomo era in armonia con sé stesso e con il Tutto.

La vera origine della caduta resta un enigma che continua a sfidare anche gli intelletti più eccelsi.



Monday, August 23, 2010

Il passato che non passa

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Il passato che non passa

Le seguenti sono note senza alcuna pretesa di stabilire una verità.

Occorre un impegno immane per conferire un senso al passato e riscattarlo dalla sua irrazionalità, si tratti del passato individuale o di quello che appartiene al genere umano. Vero è che, a distanza di tempo, eventi trascorsi rivelano la loro logica all'interno di un disegno che era apparso casuale. Tuttavia non solo non sappiamo se questa logica sia in parte un significato dato a posteriori e per di più soggettivo, ma anche restano scorie emotive, errori, iniquità che non si incastrano nella strettissima feritoia del senso.

Il passato continua a pesare sulla vita, il cui valore è quello di non acquisire valore nei confronti del tutto, poiché il suo valore è confinato nella contingenza che lo riduce ad un’incognita. Bene scrive l'ottimo Horkheimer nel saggio “Eclissi della ragione” (1947): "La coscienza che il mondo è fenomeno, che non è la verità assoluta, la quale è la sola realtà ultima. La teologia è - devo esprimermi con molta cautela - la speranza che, nonostante questa ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l'ingiustizia possa essere l'ultima parola." Il filosofo tedesco è conscio che la giustizia non potrà essere mai essere realizzata nella storia, poiché "quando anche la migliore società avesse a sostituire l'attuale ordine sociale, non verrà riparata l'ingiustizia passata e non verrà tolta la miseria della natura circostante".

Con intelligenza, Horkheimer vede sia nella natura, sulla scorta di altri pensatori, sia nella storia i chiodi che non si possono sradicare dal muro. Egli poi concepisce la fede come un'apertura di credito a favore di Dio, l'espressione di "una nostalgia, secondo la quale l'assassino non possa trionfare sulla vittima innocente". Così fa tabula rasa del giustificazionismo teologico e filosofico, per cui ogni avvenimento (dallo sbocciare di un fiore ad una strage di stato) assurge a punto significativo, eppure insignificante nella sua perfetta intercambiabilità con gli altri punti. Nell'economia del tutto, ciascun punto, insieme con infiniti altri, concorre a formare la perfetta, razionale linea del progresso storico e dell’evoluzione cosmica. Da qui il laissez faire per cui qualsiasi cosa accada, comunque sarà il migliore degli avvenimenti possibili, poiché incapace anche solo di sfiorare la perfezione dell'essere e perché inquadrato in un piano imperscrutabile, ma - si afferma – coerente ed armonico.

Se il male, nelle sue numerose incarnazioni (ed alcune sono imprescindibili e persino utili), si dispone ad essere oggetto di un'appropriazione e significazione postuma, il compito dell'uomo è appunto in questa "sfida al labirinto", come di chi continui imperterrito a gettar via l'acqua con un secchiello da un'imbarcazione che sta affondando, pur consapevole che la barca s’inabisserà.

Il dilemma decisivo inerisce alla questione circa la razionalità del reale. Il reale lo è o non lo è: una risposta intermedia non pare probabile.[1] Se, come credo, il mondo non è Ragione, il passato può essere redento solo con la dimenticanza. Il passato va perdonato, ma il perdono non è riconciliazione. Giacché non è possibile (ri)conciliare l'inconciliabile, il perdono è dono di oblio. L'essere stesso è forse proteso verso un oblio che cancelli, mercé un colpo di spugna, non solo il passato con il suo strascico di innumerevoli falle, ma anche la sua memoria.

Questa cancellazione, affinché sia una vera catarsi, per giunta non deve riguardare solo le creature, ma anche l'essere.

[1] Quando mi riferisco ad irrazionalità del mondo, escludo qualsiasi valutazione emotiva e psicologica, come pure il riferimento al male. L’universo è irrazionale poiché viola il principio di non contraddizione. Scrivevo nel testo Il mondo, la coscienza ed il nulla: “Perché il reale è autocontradditorio? Perché, assimilato il reale a 1, esso è diverso da 0, ossia il nulla, ma non si spiega come dal nulla assoluto possa scaturire il reale. Bisogna quindi accettare che 1 è uguale a 0 e viceversa. Il paradosso è il seguente: lo 0 è più denso di 1, il nulla più creativo del tutto. Il cosmo è simile ad un enorme macigno in bilico su un abisso infinito. La sostanza del reale è il nulla.” D’altronde, pure la fisica quantistica, di fronte ai paradossi del microcosmo, ha dovuto postulare un nulla da cui tutto affiora, un nulla instabile.




Thursday, April 15, 2010

Ragioni e torti dei Catari

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Ragioni e torti dei Catari

La vita e la morte sono due scrigni serrati, ognuno dei quali contiene la chiave dell'altro. (K. Blixen)

I Catari o, meglio, Buoni cristiani, sono, nel loro netto dualismo, anticosmici: il mondo materiale, creato dal Demiurgo, suscita la loro ripugnanza. Una scintilla divina è incarcerata nell'hyle e, per liberarla, è necessaria una continenza che per i Perfetti assurge ad encratismo.

La loro dottrina, combattuta ferocemente dalla Chiesa di Roma che, con Innocenzo III, bandì un'infame crociata, è bollata sic et simpliciter come "eretica". Chi può negarlo? Le religioni dualiste incorrono in varie antinomie ed eccessi. Tuttavia molti Albigesi seppero vivere i princìpi in cui credevano con coerenza ed abnegazione. Essi affrontarono le torture e le persecuzioni e, mentre ostentavano disprezzo per la natura, non uccidevano gli animali per nutrirsene. Disdegnarono i piaceri: a differenza di papi e vescovi cattolici, la loro non fu una posa farisaica, ma prassi. La diffidenza dei Catari verso il matrimonio non è poi così deprecabile.

Certo, la condanna del mondo ci appare segno di rigidità. L'identificazione di YHWH con un dio minore è apparsa blasfema, eppure chi guardi oltre le parvenze, chi si ponga domande cruciali, in parte almeno si riconosce in alcuni convincimenti dei Catari. Veramente viviamo "nel migliore dei mondi possibili?" Veramente la Terra è un Eden? Qualcuno ci addita la mirabile armonia del cosmo: ci invita a scoprire il phi e la serie di Fibonacci in ogni dove. Molto bello, molto interessante, ma è sufficiente la geometria sacra, filigrana dei fenomeni, per cancellare il male?

Visitiamo un mattatoio, un reparto oncologico, un carcere, una camera di tortura, un campo profughi, una trincea, un laboratorio dove si compiono vivisezioni... e la nostra magnifica sezione aurea sarà come donare un quadro raffigurante una fresca sorgente ad un disidratato ormai moribondo. Con ciò, non si intende asserire che la realtà è ahrimanica, ma che qualcosa non quadra è palese. Si obietterà: il male si manifesta a parte hominis, in un'ottica limitata. Concordo, ma da che angolazione dovremmo considerarlo?

Siamo certi che tutto è provvidenzialmente perfetto? Questa persuasione tende a coincidere con una giustificazione dell'esistente, con una teodicea assai simile ad una sanatoria. Un quid di irrazionale e di insano forse si annida nella pur generosa natura stessa, vista dalle correnti New age, solo come madre benevola. Basti pensare alla ferocia di certe leggi di sopravvivenza, all'invecchiamento ed alla morte, disfatte di una natura altrimenti vittoriosa. Si ricordino poi quegli aspetti dell'esistenza repellenti e biologicamente fatali. "E' naturale" - si contesta. Non tutto ciò che è naturale è anche razionale. Il fisiologico sa essere patologico. Si obietta ancora chiamando in causa la visione soggettiva e parziale degli uomini: ma da che cosa dipende l'imperfezione di tale percezione e l'imperfezione dei percipienti?

Bisogna riconoscere che la fisionomia incongruente e complessa del cosmo ci impedisce di attingere quella verità ontologica che semmai può essere surrogata da aporie, ipotesi, provvisorie (consolanti?) definizioni.

Siamo qui "nel deserto del reale". Pensare che un giorno cadrà una pioggia fecondatrice, non significa che il deserto sia un lussureggiante giardino.


Wednesday, November 18, 2009

Il centro del senso

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Il centro del senso

Siamo intrappolati in angoli angoscianti: così si comprende per quale motivo avvertiamo un'esigenza di pienezza, di autenticità. Grandi moralisti e scrutatori dell'animo umano, come Pascal e Kierkegaard, seppero descrivere l'anelito dell'infinito, la condizione di esuli che accompagna gli uomini nell'esistenza e li attanaglia. E' come se fossimo stati espulsi da una dimensione immemore (il nulla?) ed ora imboccassimo ogni volta una strada che, però, non conduce ad alcuna meta, sicché dobbiamo tornare indietro sui nostri passi per cercare nell'intrico dei giorni un altro sentiero. Invano. Qualcuno pensa che il cosmo sia una sorta di gioco: come pedoni di una scacchiera gigantesca ci moviamo (o siamo mossi?) sempre con il rischio di sdrucciolare sulla lucida superficie. Alla fine qualcuno ci avvertirà che è stato tutto uno scherzo, sebbene a volte crudele: "Sorridi: sei su Candid Camera!".

Incerti se cedere all'idea dell'inconsistenza ontologica o della persistenza, vediamo i duri "fatti" esplodere, proiettando aguzze schegge intorno. Anche il destino si sgretola e ne restano povere rovine, come rocchi consunti di un tempio greco, tra ciuffi d'erba ed oleastri.

Libri, maestri, esperienze poco o nulla valgono, se si devia dal centro del senso che è in ogni dove ed in nessun luogo. Anche l'uomo medio, quello che, come notava Pascal, perde il tempo a rincorrere una palla o una lepre, cerca, sebbene in modo ingenuo, un'apertura verso il significato, auspicando un contatto con l'altro, purchessia: si cerca spesso all'esterno quello che potremmo trovare in noi stessi, se possedessimo una bussola.

La domanda si spezza di fronte alla presenza palese, eppure elusiva ed inafferrabile del mondo. Intanto l'enigma resta tale e l'attesa si protrae nella tensione spasmodica verso l'invisibile.

Come il deserto agogna la pioggia fecondatrice grazie alla quale sbocceranno effimeri fiori dai colori rutilanti, così noi aspettiamo la benedizione delle lacrime.





Saturday, September 12, 2009

Zarathustra parlò e Siddharta tacque

Ma secondo voi perche' questa volta nei tag non ha messo "disinformatori, disinformazione, Paolo Attivissimo"?

http://zret.blogspot.com/2009/09/zarathustra-parlo-e-siddharta-tacque.html

Zarathustra parlò e Siddharta tacque

L'Avesta è il libro sacro della religione zoroastriana. Il fondamento di questo credo è il dualismo. Esistono due divinità opposte ed in conflitto tra loro nell'universo: la prima della Luce e del Bene, Ahura Mazda, la seconda delle Tenebre e del Male, Angra Manyu o Ahriman. Prima di loro, era un principio indeterminato, il Tempo illimitato.

L'oscuro profeta persiano, cui si attribuisce la nascita della religione mazdea, concepì il mondo come il teatro di una colossale guerra tra Bene e Male. Che il mondo sia dominato dal Principio della distruzione e del nulla contro cui l'uomo è chiamato a lottare, è un'idea lontanissima da concezioni orientali dove lo Yin e lo Yang sono energie cosmiche, complementari. Con Zarathustra l'etica assunse, rispetto ad altri campi, un aggetto notevole, persino eccessivo: ne risentirono alcune correnti dell'Ebraismo ed il Cristianesimo, fino alla radicalizzazione manichea, catara e dell'Islam, specialmente sciita. Pochi passi e la morale scade nel moralismo, proprio come "La bontà è una deformazione del Bene" (T. Adorno).

Di fronte alla constatazione che le legioni di Ahriman portano in ogni dove distruzione e rovina (fu forse Zarathustra ad alimentare un egregora?), al cospetto di un hic et nunc compromesso in modo irredimibile, il profeta poteva solo promettere un futuro ultraterreno di beatitudine per i probi. Per fortuna, il capolinea per lo ierofante iranico, è vicino.

Un'altra credenza zoroastriana che, attraverso qualche canale giudaico, penetrò nel cristianesimo è la fede nella resurrezione dei corpi: anche questo miracolo appartiene al futuro, sebbene i tempi incredibilmente brevi del cosmo mazdeo, non costringano ad un'attesa logorante.

Insomma, per questa ed altre religioni simili, la vita non è mai adesso. Il corso del tempo lineare, finito, tipico dello Zoroaastrismo, risucchia il presente, scaraventando l'uomo nella speranza di un futuro perfetto o nella più razionale nostalgia del non essere originario. Se il presente è l'attimo inafferrabile e sempre deludente, anche l'avvenire ed il passato sono gli abissi di proiezioni informi, di miraggi distorti. Sono ologrammi inconsistenti e grigi, ma, di volta in volta, avvivati dall'avvento di uno Saoshyant, il Salvatore.

Resta la diuturna ed epica battaglia contro il Male, combattuta sulla base di un fondamento senza fondamento (l'etica si disintegra, non appena se ne definiscono caratteri e scopi, sicché l'unico suo habitat è il silenzio), con la prospettiva della vittoria finale. Un'escatologia credibile (prima o dopo l'errore sarà corretto), ma consolatoria e forse un po' limitata: l'eroismo appartiene a chi, come Siddharta, indica, con solenne disincanto, corpo e mente, apparenza e sostanza, terra e cielo come Nulla.