L'immensa sputtanata a Zelig

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Scopo del Blog

Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.

Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.

Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.

Ciao e grazie della visita.

Il contenuto di questo blog non viene piu' aggiornato regolarmente. Per le ultime notizie potete andare su:

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Wednesday, January 21, 2015

Esiste la felicità?

Esiste un modo per farlo stare zitto?

http://zret.blogspot.ch/2015/01/esiste-la-felicita.html

Esiste la felicità?


Esiste la felicità? Per una volta la risposta è semplice: sì. Non si confonda, però, questa situazione di appagamento quasi sempre effimera, con la serenità che è del tutto incompatibile con l’esistenza: la serenità, infatti, è uno stato perenne di quiete e di imperturbabilità. Per definizione, invece, la felicità è fugace, vulnerabile. William Blake può a ragione scrivere che essa è “collocata nello spazio tra due attimi”. Montale in “Felicità raggiunta” ci insegna che essa è larvale, fragile: “barlume che vacilla, teso ghiaccio che s’incrina”.

Dunque la felicità esiste, ma è un isolotto attorniato dall’oceano immenso del dolore e della noia. Sussiste, ma solo quando l’esistenza tende a scivolare nel non essere. Supremo paradosso: per sentirsi gratificati, bisogna cominciare ad immergersi nel non essere. Non è un caso se quasi tutti gli autori più profondi evocano il piacere come uno smarrimento nell’oblio, nell’incoscienza. “E naufragar m’è dolce in questo mare” chiosa Leopardi nell’”Infinito”, vale a dire che, solo quando si dimentica il mondo e sé stessi, si assapora un istante di soavità. In modo analogo una corrente minoritaria del Buddhismo vede nel Nirvana, di solito concepito come ineffabile beatitudine di là da ogni determinazione, il Nulla, sic et simpliciter.

“Piacer figlio d’affanno”, osserva ancora il genio di Recanati. E’ vero: il diletto nasce dal contrasto con la sofferenza; quanto più i patimenti sono acerbi, tanto più dolci sono le gioie. Tuttavia conosciamo una condizione in cui la letizia non germoglia fra un groviglio di spine: è il caso dell’infanzia; allora si è giocondi, spensierati, pur senza aver esperimentato i travagli delle età successive. Nondimeno è - come si osservava - una felicità che confina con il non essere, poiché i bimbi non possiedono ancora piena coscienza né di sé né del tempo, percezione che è in primo luogo strumento di tortura. Agli adulti, imprigionati nella corazza dell’ego, la vera giocondità è negata. Sempre.

Essere felici? Se solo riuscissimo a trovare una posizione comoda! Essere felici: un miracolo più raro dell’iridio. Non indulgiamo al “pessimismo” di Schopenauer che, riflettendo sul De vita beata di Seneca, biasima lo scrittore latino non perché le sue argomentazioni non siano persuasive, ma in quanto il filosofo romano si sofferma su qualcosa che non esiste: la vita felice. Nonostante ciò, la realtà assomiglia più al capolavoro di Schopenauer che ai libri della New age.

Come dimenticare che a volte a congiurare contro una labile condizione di soddisfazione siamo noi stessi? Ci sabotiamo, roviniamo quei rari momenti di buonumore con le nostre geremiadi, il nostro incessante, inestinguibile anelito che ci trascina verso obiettivi sempre più lontani, sempre più illusori.

Infinita grandezza ed infinita miseria dell’essere umano, contraddizione vivente: egli beve alla fonte del piacere e se ne disgusta; beve alla sorgente del dolore e ne trae un’amara voluttà.

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Friday, February 21, 2014

Ping pong

http://zret.blogspot.it/2014/02/ping-pong.html

Ping pong


L’uomo è il ‘figlio di Dio’ creato a Sua immagine e somiglianza; e tuttavia l’uomo è ‘peccatore’, è preda del ‘Demonio’. Come possono esistere il Demonio ed il Peccato, se Dio è solo il creatore di tutti gli esseri? L’umanità non è riuscita a spiegare come esista il Male, se un Dio perfetto ha creato e governa il mondo e l’uomo”.

Sono domande che si pone Wilhelm Reich nel saggio “L’assassinio di Cristo”. Sono domande che naturalmente non hanno ancora trovato risposta e forse mai la troveranno almeno in questa dimensione. Nonostante ciò, è sempre lecito, anzi doveroso porsele.

Chi anche solo per qualche istante nella sua vita abbia avuto contatti con gli altri, ne trae il convincimento che qualcosa non quadra nella natura umana. Intendiamo chiamare questo quid istinto di conservazione egoismo o grettezza o corruzione o addirittura malvagità? Intendiamo identificare questo quid con qualcosa di fisiologico, con la natura umana stessa? In quest’ultimo caso, dobbiamo ipotizzare che la Natura, perfetta in tutto, abbia fallito proprio nel generare la sua creatura più nobile.

Se, invece, ci collochiamo nel cerchio delle interpretazioni metafisiche e religiose, non riusciamo a reperire la causa profonda della degenerazione umana. Le religioni si sono inventate i miti della ribellione e della caduta; le filosofie per lo più hanno attribuito il pervertimento umano ora al distacco dalla Natura ora all’influsso della società. Come è possibile che l’uomo si sia allontanato dalla Natura, se egli stesso è essere naturale? Come è possibile che sia stata la società a traviare il singolo dal momento che la società è la somma dei singoli?

Non è un caso se il Cristianesimo ha bollato gli uomini inclini al male con il termine di “captivi”, ossia “prigionieri del Maligno”: in tal modo della perfidia è incolpato qualcun altro, uno molto cattivo, il Diavolo. Sì, ma come può esistere il Diavolo, se esiste l’Essere Perfettissimo? Le spiegazioni delle fedi rinviano ad altre spiegazioni che si arenano sulla sponda dell’assurdo.

E’ evidente che qualsiasi “risposta” si infila in un cul de sac. Così, se non vogliamo appellarci a cause misteriose, perderci in elucubrazioni sottili, eppure poco persuasive, siamo costretti a constatare la miseria umana, a vederla come un albero dai rami secchi e contorti ma senza radici. Chi potrà, infatti, negare che solo nel Sapiens il male, che comunque già non è motivato nell’armonia cosmica, tocca vertici di gratuità e di orrore inimmaginabili? Si pensi alla ferocia del tutto immotivata che taluni esprimono contro gli animali e contro i bambini.

La Rete è una sonda formidabile: ha permesso a molti di noi di scoprire campioni di assoluta, irredimibile scelleratezza. Alimentata dalla possibilità dell’anonimato, essa sembra aver oltrepassato l’apice del Male medesimo. Invidia, astio, attitudine alla calunnia, abitudine alla menzogna, cupidigia… sono solo alcune spine di una corona blasfema. Oggi più che mai è facile corrompere uomini già corrotti: per il vile denaro non si vendono l’anima che non hanno, ma tutto il resto.

Chi guardi anche solo per un attimo negli occhi uno di questi figuri, vi scorge un tale abisso di vuoto e di perversità da far vacillare la più solida fede in un mondo perfetto.

Il male umano è più assenza che essenza: è assenza di empatia, incapacità di immedesimarsi negli altri. E’ inoltre attrazione, incomprensibile ma fortissima, verso il brutto, l’orrido, il morboso. Ecco che si conclama in masochismo, in tutte le sue forme, dalle più lievi, la passione per la letteratura horror alle più gravi, l' adesione convinta ad un sistema carnefice.

Sembra che il male sia diluito nell’individuo e nel consorzio umano: come tra due vasi comunicanti scorre in entrambi sino talora a riempirli. Una pellicola tedesca intitolata “L’onda” (Die Welle) è molto istruttiva: vi si narra di un esperimento compiuto da un insegnante di liceo. Egli, nell’ambito di un corso monografico sul tema dell’autocrazia, prova ad irregimentare la classe, ad inculcarle un po’ alla volta il senso della disciplina e dell’appartenenza di modo che il singolo si identifichi in toto nel gruppo, nella squadra. L’esperimento riesce e la classe presto degenera in una banda fanatica e violenta. Comprendiamo che il male si attacca all’uomo attraverso la gerarchia e l’obbedienza, nel momento in cui una fede cieca spinge a negare sé stessi per incorporare la propria debole personalità nel corpo sociale e nel capo. E’ questo il meccanismo che agisce negli stati totalitari. Lo stesso meccanismo, sebbene in forme più blande, si manifesta pure nelle tifoserie, nei partiti, nei movimenti etc.

Tuttavia sottotraccia il messaggio della produzione è un altro: se il culto dell’ordine produce un sistema tirannico, l’assenza di regole ed il permissivismo originano una società di debosciati e di immorali. Tali sono, infatti, molti studenti, prima di frequentare le lezioni monotematiche. E’ così: pare non esistere una forma di governo che riesca a contemperare le regole con la libertà. Quasi sempre si edificano stati dittatoriali (tra cui le cosiddette democrazie) che tollerano, anzi favoriscono i comportamenti più laidi e turpi, mentre qualsiasi dissenso è schiacciato con le forze di polizia, con il fisco e con la “giustizia”. [1]

Qualche critico ha notato che lo stesso celebre romanzo di Robert Louis Stevenson, “Lo strano caso del Dottor Jekyll e di Mr Hyde”, non è tanto una metafora sul lato luminoso della natura umana (Jekyll) cui si contrappone il lato oscuro (Mr Hyde), ma una denuncia della mentalità vittoriana, incarnata dal “civile” Jekyll. E’l’aberrante ed ipocrita forma mentis borghese a partorire la follia di Mr Hyde.

E’ dunque “colpa” dell’uomo e della società, della società e dell’uomo… in un ping pong infinito.

[1] Alcune tribù di nativi americani costituivano delle eccezioni, ma, anche se si esclude una certa idealizzazione, erano appunto casi straordinari.

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Wednesday, October 9, 2013

L’assurda razionalità del Tutto


http://zret.blogspot.com/2013/10/lassurda-razionalita-del-tutto.html

L’assurda razionalità del Tutto

Il reale è irrazionale e l’irrazionale è reale… purtroppo.

Gli atei ed i razionalisti affermano che il male non esiste. Hanno perfettamente ragione, se si analizza la realtà solo attraverso strumenti razionali. E’ singolare che gli spiritualisti ed i materialisti, pur agli antipodi, concordino su tale punto, adducendo diverse motivazioni: il mysterium iniquitatis non sussiste. Logici e matematici pensano che il mondo possa essere compreso per mezzo della logica. Essa dimostra che il male non è nelle cose, ma nelle interpretazioni. Peccato che l’universo non sia logico, essendo autocontraddittorio.

Certo, il bene ed il male sono categorie umane, valori che gli uomini attribuiscono agli enti. La Natura di per sé non è (o pare?) né malvagia né benevola: essa è quella che è. Siamo noi a vedere in un terremoto il male e in un tramonto dai colori rutilanti il bene. Il ghepardo che caccia e divora la gazzella non è malvagio: è nella sua natura predare degli erbivori di cui si ciba.

Tuttavia il male ed il bene non risiedono tanto in un’esegesi antropocentrica e negli influssi deleteri o benefici che gli eventi esercitano su ognuno di noi. Il male è anche nella mancanza di senso, nell’irrazionalità dell’essere. Qual è lo scopo di tutto questo? Che fine hanno il cosmo, l’esistenza, il dolore? La domanda metafisica per miscredenti e scienziati razionalisti è priva di significato. Essi si richiamano a tutti quei filosofi antichi e moderni che hanno constatato la verità effettuale, ponendo dinanzi all’uomo lo spettacolo di un universo la cui unica giustificazione è nell’assenza di ogni giustificazione.

Spesso gli irreligiosi celebrano Lucrezio che nel “De rerum natura” distrugge le illusioni umane: la chimera dell’immortalità, della Provvidenza, di un premio per i giusti e di una punizione per i reprobi... La Natura è indifferente alla condizione delle sue creature, siano piante, animali, uomini. I cicli cosmici sono una perenne aggregazione e disgregazione di atomi. Dopo la morte si sprofonda nel nulla, lo stesso nulla da cui si proviene.

Eppure Lucrezio sembra a tratti ribellarsi a questa raggelante visione o, meglio, denunciarne l’assurda razionalità. Se il poema si apre con l’inno a Venere, immagine della vita e dell’energia, si conclude con la drammatica descrizione della “pestilenza” che dilagò ad Atene durante la prima fase della Guerra del Peloponneso. La morte e la distruzione paiono abitare nel cuore dell’universo, essere il sigillo di una realtà votata all’insignificanza, al disfacimento.

E’ appunto nella gratuità, nel gioco assurdo del caso che si incarna il male. E’ veramente così? Non lo sappiamo. E’ indubbio che spesso così ci sembra. Per questo motivo il poeta e romanziere Marino Moretti può suggellare una sua accorata e bellissima lirica con il verso: “Così parve la vita, senza scopo”.

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Sunday, July 7, 2013

I negatori del male e la condizione umana

http://zret.blogspot.it/2013/07/i-negatori-del-male-e-la-condizione.html

I negatori del male e la condizione umana


L’ambiguità del reale è siffatta che il Bene stesso può generare il Male.” (F. Schelling)

E’ estenuante il dibattito con gli assertori della “verità”: estenuante ed inutile. Ora, mi chiedo come sia possibile essere sicuri di possedere verità ontologiche (non empiriche) per dispensarle ai profani. Come spesso avviene, la pietra d’inciampo è il problema del male.

I dogmatici, per avere ragione in modo definitivo, invece di ricorrere ai funambolismi dei teologi, che tentano di spiegare il mysterium iniquitatis, scivolando in conclusioni più insanabili delle già antinomiche premesse, negano il male tout court. E’ uno stratagemma molto efficace, ma pur sempre uno stratagemma.

Se si obietta che resta comunque una dose di male che pare assurdo, inesplicabile, i negatori ti rispondono, con Leibniz e Pangloss che “tutto è perfetto così com’è”. “Viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Tali asserzioni sono postulati che non abbisognano di alcuna dimostrazione. Il male è solo il frutto di una visione limitata e soggettiva. Sarà... Se si propone l’esempio di un bambino ucciso, dopo essere stato seviziato magari per anni, coloro replicano nel modo seguente: in primo luogo quel bambino ha deciso di nascere per maturare un’istruttiva esperienza che prevedeva la sua morte dopo una lunga tortura. Inoltre essi affermano che il male incarnato in tale vissuto è del tutto illusorio, più inconsistente di un’ombra.

Ora, è anche possibile, in linea teorica, che costoro abbiano ragione: la realtà è così irrazionale che il male stesso potrebbe essere giustificato con argomenti così irragionevoli. Quanto contesto in modo reciso è l’atteggiamento dogmatico, apodittico, categorico dei negatori: essi non propongono il loro pensiero come un’eventuale risposta, ma come la RISPOSTA. Questo è oltremodo irritante nonché una bestemmia nei confronti degli esseri viventi tutti che soffrono pene indicibili sia fisiche sia morali. Onestà intellettuale vorrebbe che, al cospetto delle più atroci manifestazioni del male, si sospendesse il giudizio o si ventilassero delle ipotesi. Onestà intellettuale vorrebbe si evitasse di addurre come prova di quanto bandito il Pensiero tradizionale che viene piegato (e stuprato) per sentenziare e persino per giudicare.[1]

I seguaci di Plotino, di Agostino, di Leibniz etc. sostengono che il male è non-essere, assenza di Bene, essendo privo di sostanza. Lo ripeto: potrebbe essere così, ma, mentre i filosofi citati, se non altro, inquadrano la loro interpretazione in una dottrina filosofica, chi ne ha solo orecchiato le idee manca del tutto dell’inclinazione a definire un disegno coerente, semmai impastando un po’ di pseudo-concetti della New age più becera.

Prova ne è la gigantesca incongruenza in cui si impastoiano. I negatori del male sono nel contempo propugnatori del libero arbitrio, quindi dell’etica. Se, però, tutto è armonico, tutto è solo come dev’essere, allora tutto è lecito: non intercorre alcuna differenza tra una carneficina ed il salvataggio di mille vite. Sono due azioni del tutto intercambiabili, poiché ambedue consentono di maturare esperienze e di “evolvere”. Del tutto intercambiabili sono anche un criminale ed un benefattore.[2]

Per carità, sono il primo a vedere nella morale il preludio del moralismo. Sono il primo anche a propendere per la fallacia circa il convincimento del “libero arbitrio”, simpatizzando, invece, per una concezione fatalista. Tuttavia le mie sono mere congetture o, al limite, intuizioni: so che non possono né potranno mai essere avvalorate in modo definitivo né d’altro canto confutate. Ammetto pure che non è per nulla facile dirimere certe controversie, preferendo il dubbio umano ad una “verità” sacerdotale.

Sentirei di accostarmi, come ho già scritto, a quelle concezioni, secondo cui il mysterium iniquitatis è inerente alla creazione (o emanazione stessa): questa idea, prima di essere gnostica, è in Anassimandro.[3] Riconosco che non è non il non plus ultra come chiarimento, ma è sempre meglio sia delle consolatorie delucidazioni New age sia dell’esegesi ebraico-cristiana-musulmana, secondo cui il male sarebbe dovuto ad una scelta di Adamo ed Eva. I progenitori avrebbero violato un precetto divino, quando ancora il male non era entrato nel mondo. Da dove spunta poi il Serpente tentatore? Lo creò Dio? Se è così, nell'Eterno alberga un lato oscuro? Il Signore non sapeva, nella sua onniscienza, che Eva avrebbe ceduto alle lusinghe del Serpente? Etc. Insomma lasciamo tali quesiti a chi si appoggia alla Bibbia con le stampelle di traduzioni approssimative.

Essere umani significa riconoscere che talune questioni non possono essere del tutto intese. I dogmatici sono l’antitesi dell’umanità, poiché si reputano, con immensa superbia, eguali a Dio stesso, di cui conoscono ed interpretano intenzioni, fini, persino i più reconditi pensieri. La condizione umana è, invece, insufficienza ed incompletezza: altrimenti non sarebbe una condizione propriamente umana, nel bene e... nel male.

[1] La Philosophia perennis è strumentalizzata per divulgare ed imporre storte nozioni della New age deteriore.

[2] Non è naturalmente l’unica incoerenza in cui annegano. Comunque che noia, che nausea questa “perfezione”, questa acquiescenza all’esistente… un sedativo per la coscienza, un elisir narcotizzante che dona una felicità da moribondi.

[3] Il mito cosmogonico di Purusha (RigVeda), l’Uomo primordiale che si smembra e si sacrifica nella Manifestazione, non è forse così distante. Questo mito non presuppone che fine del cosmo e delle creature sia evolvere, attraverso l’esperienza dei patimenti: infatti vede la creazione in sé come sacrificio, come disarticolazione rispetto ad un’unità originaria. Il fine non è dunque l’evoluzione, ma il ritorno ad uno stato primigenio. La sofferenza non è tanto un mezzo, quanto un aspetto necessario dell’universo. La scelta compiuta dagli esseri tutti (inclusi i minerali) di scendere nel mondo materiale è inevitabile (fatalismo?), perché è l’unico modo per risalire, per tornare alla Sorgente da dove Purusha si è allontanato. Il motivo di questo distacco non è per nulla chiaro. Il mito di Purusha, oltre a contenere un dualismo che ricorda quello cartesiano tra res cogitans e res extensa, definisce una situazione circolare, oziosa e tautologica. Per dirla con Leopardi: “Tutte le cose si muovono per tornare infine nel luogo donde si son mosse”.


Tuesday, December 29, 2009

Due

http://zret.blogspot.com/2009/12/due.html

Due

Il mondo materiale pare scisso da una dualità: in esso coesistono armonia e crudeltà, magnificenza e lordume. Giacomo Leopardi, nel celebre passo dello Zibaldone in cui descrive il "giardino delle sofferenze", osserva, con sguardo che potremmo definire gnostico, la natura in cui, di là dalle parvenze amene, si consuma una lotta per la sopravvivenza senza esclusione di colpi.

La riflessione sull'intima natura della natura ha impegnato profeti, filosofi, scienziati, artisti: alcuni vedono nel creato il sigillo divino, altri ritengono che in un mondo voluto da Dio si sia poi infiltrato un sabotatore per deturparlo [1], altri concepiscono la materia come antitesi pura dello Spirito, una "morta gora".

Nel Leopardi maturo l'immagine della natura si sdoppia: da un lato essa ostenta un'immagine gradevole, dall'altro affiora la sua essenza di forza cieca, di volontà tesa solo a perpetuare sé stessa, senza curarsi del destino delle creature, dei loro inani patimenti. Ecco allora la potente e solenne immagine della Natura: nella sua glaciale imperturbabilità, risponde alle domande sgomente dell'Islandese sul non-senso dell'esistenza.

E' quella del poeta recanatese una concezione anti-cosmica non molto distante dalle dottrine dualiste (dagli gnostici ai Catari) che vedono nella creazione ilica una caduta, benché Leopardi non creda in un principio spirituale contrapposto all'universo mosso da forze meramente meccanicistiche.

Il dualismo, con le sue forme più o meno radicali (dal dualismo platonico e neoplatonico con cui il cosmo che è letteralmente "ordine"è salvato, benché sia considerato inferiore all'Idea del Bene o all'Uno, al dualismo temperato del Cristianesimo paolino etc.) ha conosciuto un'inaspettata reviviscenza per mezzo di alcuni orientamenti all'interno dell'Ufologia, anche in forme estreme. Mi riferisco qui, in particolar modo, a Corrado Malanga che si è convinto che esistono due generi di uomini: gli uomini con anima e quelli, invece, che ne sono privi, i cosiddetti umani. Tale dicotomia ontologica ricorda la
distinzione gnostica tra uomini pneumatici (spirituali) ed ilici (materiali). Bisogna ammettere che questa visione è impopolare, ma, a mio parere, potrebbe non essere del tutto infondata. Infatti, prescindendo dal significato che intendiamo attribuire alla parola "anima", sembra che un divario incolmabile separi le persone: da un lato uomini con coscienza, dall'altro esseri simili a vuoti involucri, ad automi. Nel celebre film Matrix tale dialettica è riproposta, quantunque in modo ambiguo, nell'antitesi tra gli uomini e le macchine. Tale contrapposizione è evocata da quei ricercatori che individuano negli extraterrestri conosciuti come Grigi delle unità bioniche.

Il discorso è complesso e costellato di aporie, poiché è pressoché impossibile accordarsi sul valore del termine "anima" e sulle sue caratteristiche. Resta l'impressione che non tutti gli uomini siano uguali sicché talora si è tentati di ventilare ipotesi audaci ed eretiche, ad esempio, ammettendo che le piante possiedano una forma di coscienza e, nel contempo, negando che talune persone siano dotate di interiorità, simili a burattini eterodiretti, a robot menomati. Ancora più ardua è la riflessione sulla possibilità che una macchina possa acquisire, insieme con un'autonomia di pensiero e di azione, un'ombra di io. Il paradosso sarebbe se, in futuro, come in alcuni racconti e romanzi di fantascienza, cominciasse a nascere una progenie di automi senzienti in grado di soppiantare un'umanità meccanizzata e "dis-animata".

Già oggi la differenza tra uomini massificati e computers "intelligenti" è minima.


[1] Gli storici delle religioni e gli antropologi lo denominano demiurgo-trickster.