Scopo del Blog
Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.
Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.
Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.
Ciao e grazie della visita.
Il contenuto di questo blog non viene piu' aggiornato regolarmente. Per le ultime notizie potete andare su:
http://indipezzenti.blogspot.ch/
https://www.facebook.com/Task-Force-Butler-868476723163799/
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Sunday, March 13, 2016
Sunday, July 7, 2013
I negatori del male e la condizione umana
http://zret.blogspot.it/2013/07/i-negatori-del-male-e-la-condizione.html
I negatori del male e la condizione umana

“L’ambiguità del reale è siffatta che il Bene stesso può generare il Male.” (F. Schelling)
E’ estenuante il dibattito con gli assertori della “verità”: estenuante ed inutile. Ora, mi chiedo come sia possibile essere sicuri di possedere verità ontologiche (non empiriche) per dispensarle ai profani. Come spesso avviene, la pietra d’inciampo è il problema del male.
I dogmatici, per avere ragione in modo definitivo, invece di ricorrere ai funambolismi dei teologi, che tentano di spiegare il mysterium iniquitatis, scivolando in conclusioni più insanabili delle già antinomiche premesse, negano il male tout court. E’ uno stratagemma molto efficace, ma pur sempre uno stratagemma.
Se si obietta che resta comunque una dose di male che pare assurdo, inesplicabile, i negatori ti rispondono, con Leibniz e Pangloss che “tutto è perfetto così com’è”. “Viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Tali asserzioni sono postulati che non abbisognano di alcuna dimostrazione. Il male è solo il frutto di una visione limitata e soggettiva. Sarà... Se si propone l’esempio di un bambino ucciso, dopo essere stato seviziato magari per anni, coloro replicano nel modo seguente: in primo luogo quel bambino ha deciso di nascere per maturare un’istruttiva esperienza che prevedeva la sua morte dopo una lunga tortura. Inoltre essi affermano che il male incarnato in tale vissuto è del tutto illusorio, più inconsistente di un’ombra.
Ora, è anche possibile, in linea teorica, che costoro abbiano ragione: la realtà è così irrazionale che il male stesso potrebbe essere giustificato con argomenti così irragionevoli. Quanto contesto in modo reciso è l’atteggiamento dogmatico, apodittico, categorico dei negatori: essi non propongono il loro pensiero come un’eventuale risposta, ma come la RISPOSTA. Questo è oltremodo irritante nonché una bestemmia nei confronti degli esseri viventi tutti che soffrono pene indicibili sia fisiche sia morali. Onestà intellettuale vorrebbe che, al cospetto delle più atroci manifestazioni del male, si sospendesse il giudizio o si ventilassero delle ipotesi. Onestà intellettuale vorrebbe si evitasse di addurre come prova di quanto bandito il Pensiero tradizionale che viene piegato (e stuprato) per sentenziare e persino per giudicare.[1]
I seguaci di Plotino, di Agostino, di Leibniz etc. sostengono che il male è non-essere, assenza di Bene, essendo privo di sostanza. Lo ripeto: potrebbe essere così, ma, mentre i filosofi citati, se non altro, inquadrano la loro interpretazione in una dottrina filosofica, chi ne ha solo orecchiato le idee manca del tutto dell’inclinazione a definire un disegno coerente, semmai impastando un po’ di pseudo-concetti della New age più becera.
Prova ne è la gigantesca incongruenza in cui si impastoiano. I negatori del male sono nel contempo propugnatori del libero arbitrio, quindi dell’etica. Se, però, tutto è armonico, tutto è solo come dev’essere, allora tutto è lecito: non intercorre alcuna differenza tra una carneficina ed il salvataggio di mille vite. Sono due azioni del tutto intercambiabili, poiché ambedue consentono di maturare esperienze e di “evolvere”. Del tutto intercambiabili sono anche un criminale ed un benefattore.[2]
Per carità, sono il primo a vedere nella morale il preludio del moralismo. Sono il primo anche a propendere per la fallacia circa il convincimento del “libero arbitrio”, simpatizzando, invece, per una concezione fatalista. Tuttavia le mie sono mere congetture o, al limite, intuizioni: so che non possono né potranno mai essere avvalorate in modo definitivo né d’altro canto confutate. Ammetto pure che non è per nulla facile dirimere certe controversie, preferendo il dubbio umano ad una “verità” sacerdotale.
Sentirei di accostarmi, come ho già scritto, a quelle concezioni, secondo cui il mysterium iniquitatis è inerente alla creazione (o emanazione stessa): questa idea, prima di essere gnostica, è in Anassimandro.[3] Riconosco che non è non il non plus ultra come chiarimento, ma è sempre meglio sia delle consolatorie delucidazioni New age sia dell’esegesi ebraico-cristiana-musulmana, secondo cui il male sarebbe dovuto ad una scelta di Adamo ed Eva. I progenitori avrebbero violato un precetto divino, quando ancora il male non era entrato nel mondo. Da dove spunta poi il Serpente tentatore? Lo creò Dio? Se è così, nell'Eterno alberga un lato oscuro? Il Signore non sapeva, nella sua onniscienza, che Eva avrebbe ceduto alle lusinghe del Serpente? Etc. Insomma lasciamo tali quesiti a chi si appoggia alla Bibbia con le stampelle di traduzioni approssimative.
Essere umani significa riconoscere che talune questioni non possono essere del tutto intese. I dogmatici sono l’antitesi dell’umanità, poiché si reputano, con immensa superbia, eguali a Dio stesso, di cui conoscono ed interpretano intenzioni, fini, persino i più reconditi pensieri. La condizione umana è, invece, insufficienza ed incompletezza: altrimenti non sarebbe una condizione propriamente umana, nel bene e... nel male.
[1] La Philosophia perennis è strumentalizzata per divulgare ed imporre storte nozioni della New age deteriore.
[2] Non è naturalmente l’unica incoerenza in cui annegano. Comunque che noia, che nausea questa “perfezione”, questa acquiescenza all’esistente… un sedativo per la coscienza, un elisir narcotizzante che dona una felicità da moribondi.
[3] Il mito cosmogonico di Purusha (RigVeda), l’Uomo primordiale che si smembra e si sacrifica nella Manifestazione, non è forse così distante. Questo mito non presuppone che fine del cosmo e delle creature sia evolvere, attraverso l’esperienza dei patimenti: infatti vede la creazione in sé come sacrificio, come disarticolazione rispetto ad un’unità originaria. Il fine non è dunque l’evoluzione, ma il ritorno ad uno stato primigenio. La sofferenza non è tanto un mezzo, quanto un aspetto necessario dell’universo. La scelta compiuta dagli esseri tutti (inclusi i minerali) di scendere nel mondo materiale è inevitabile (fatalismo?), perché è l’unico modo per risalire, per tornare alla Sorgente da dove Purusha si è allontanato. Il motivo di questo distacco non è per nulla chiaro. Il mito di Purusha, oltre a contenere un dualismo che ricorda quello cartesiano tra res cogitans e res extensa, definisce una situazione circolare, oziosa e tautologica. Per dirla con Leopardi: “Tutte le cose si muovono per tornare infine nel luogo donde si son mosse”.
E’ estenuante il dibattito con gli assertori della “verità”: estenuante ed inutile. Ora, mi chiedo come sia possibile essere sicuri di possedere verità ontologiche (non empiriche) per dispensarle ai profani. Come spesso avviene, la pietra d’inciampo è il problema del male.
I dogmatici, per avere ragione in modo definitivo, invece di ricorrere ai funambolismi dei teologi, che tentano di spiegare il mysterium iniquitatis, scivolando in conclusioni più insanabili delle già antinomiche premesse, negano il male tout court. E’ uno stratagemma molto efficace, ma pur sempre uno stratagemma.
Se si obietta che resta comunque una dose di male che pare assurdo, inesplicabile, i negatori ti rispondono, con Leibniz e Pangloss che “tutto è perfetto così com’è”. “Viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Tali asserzioni sono postulati che non abbisognano di alcuna dimostrazione. Il male è solo il frutto di una visione limitata e soggettiva. Sarà... Se si propone l’esempio di un bambino ucciso, dopo essere stato seviziato magari per anni, coloro replicano nel modo seguente: in primo luogo quel bambino ha deciso di nascere per maturare un’istruttiva esperienza che prevedeva la sua morte dopo una lunga tortura. Inoltre essi affermano che il male incarnato in tale vissuto è del tutto illusorio, più inconsistente di un’ombra.
Ora, è anche possibile, in linea teorica, che costoro abbiano ragione: la realtà è così irrazionale che il male stesso potrebbe essere giustificato con argomenti così irragionevoli. Quanto contesto in modo reciso è l’atteggiamento dogmatico, apodittico, categorico dei negatori: essi non propongono il loro pensiero come un’eventuale risposta, ma come la RISPOSTA. Questo è oltremodo irritante nonché una bestemmia nei confronti degli esseri viventi tutti che soffrono pene indicibili sia fisiche sia morali. Onestà intellettuale vorrebbe che, al cospetto delle più atroci manifestazioni del male, si sospendesse il giudizio o si ventilassero delle ipotesi. Onestà intellettuale vorrebbe si evitasse di addurre come prova di quanto bandito il Pensiero tradizionale che viene piegato (e stuprato) per sentenziare e persino per giudicare.[1]
I seguaci di Plotino, di Agostino, di Leibniz etc. sostengono che il male è non-essere, assenza di Bene, essendo privo di sostanza. Lo ripeto: potrebbe essere così, ma, mentre i filosofi citati, se non altro, inquadrano la loro interpretazione in una dottrina filosofica, chi ne ha solo orecchiato le idee manca del tutto dell’inclinazione a definire un disegno coerente, semmai impastando un po’ di pseudo-concetti della New age più becera.
Prova ne è la gigantesca incongruenza in cui si impastoiano. I negatori del male sono nel contempo propugnatori del libero arbitrio, quindi dell’etica. Se, però, tutto è armonico, tutto è solo come dev’essere, allora tutto è lecito: non intercorre alcuna differenza tra una carneficina ed il salvataggio di mille vite. Sono due azioni del tutto intercambiabili, poiché ambedue consentono di maturare esperienze e di “evolvere”. Del tutto intercambiabili sono anche un criminale ed un benefattore.[2]
Per carità, sono il primo a vedere nella morale il preludio del moralismo. Sono il primo anche a propendere per la fallacia circa il convincimento del “libero arbitrio”, simpatizzando, invece, per una concezione fatalista. Tuttavia le mie sono mere congetture o, al limite, intuizioni: so che non possono né potranno mai essere avvalorate in modo definitivo né d’altro canto confutate. Ammetto pure che non è per nulla facile dirimere certe controversie, preferendo il dubbio umano ad una “verità” sacerdotale.
Sentirei di accostarmi, come ho già scritto, a quelle concezioni, secondo cui il mysterium iniquitatis è inerente alla creazione (o emanazione stessa): questa idea, prima di essere gnostica, è in Anassimandro.[3] Riconosco che non è non il non plus ultra come chiarimento, ma è sempre meglio sia delle consolatorie delucidazioni New age sia dell’esegesi ebraico-cristiana-musulmana, secondo cui il male sarebbe dovuto ad una scelta di Adamo ed Eva. I progenitori avrebbero violato un precetto divino, quando ancora il male non era entrato nel mondo. Da dove spunta poi il Serpente tentatore? Lo creò Dio? Se è così, nell'Eterno alberga un lato oscuro? Il Signore non sapeva, nella sua onniscienza, che Eva avrebbe ceduto alle lusinghe del Serpente? Etc. Insomma lasciamo tali quesiti a chi si appoggia alla Bibbia con le stampelle di traduzioni approssimative.
Essere umani significa riconoscere che talune questioni non possono essere del tutto intese. I dogmatici sono l’antitesi dell’umanità, poiché si reputano, con immensa superbia, eguali a Dio stesso, di cui conoscono ed interpretano intenzioni, fini, persino i più reconditi pensieri. La condizione umana è, invece, insufficienza ed incompletezza: altrimenti non sarebbe una condizione propriamente umana, nel bene e... nel male.
[1] La Philosophia perennis è strumentalizzata per divulgare ed imporre storte nozioni della New age deteriore.
[2] Non è naturalmente l’unica incoerenza in cui annegano. Comunque che noia, che nausea questa “perfezione”, questa acquiescenza all’esistente… un sedativo per la coscienza, un elisir narcotizzante che dona una felicità da moribondi.
[3] Il mito cosmogonico di Purusha (RigVeda), l’Uomo primordiale che si smembra e si sacrifica nella Manifestazione, non è forse così distante. Questo mito non presuppone che fine del cosmo e delle creature sia evolvere, attraverso l’esperienza dei patimenti: infatti vede la creazione in sé come sacrificio, come disarticolazione rispetto ad un’unità originaria. Il fine non è dunque l’evoluzione, ma il ritorno ad uno stato primigenio. La sofferenza non è tanto un mezzo, quanto un aspetto necessario dell’universo. La scelta compiuta dagli esseri tutti (inclusi i minerali) di scendere nel mondo materiale è inevitabile (fatalismo?), perché è l’unico modo per risalire, per tornare alla Sorgente da dove Purusha si è allontanato. Il motivo di questo distacco non è per nulla chiaro. Il mito di Purusha, oltre a contenere un dualismo che ricorda quello cartesiano tra res cogitans e res extensa, definisce una situazione circolare, oziosa e tautologica. Per dirla con Leopardi: “Tutte le cose si muovono per tornare infine nel luogo donde si son mosse”.
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Zret
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Tuesday, May 14, 2013
Una Coscienza incosciente
http://zret.blogspot.it/2013/05/una-coscienza-incosciente.html
Una Coscienza incosciente

Soltanto chi non ha approfondito nulla può avere delle convinzioni. (E. Cioran)
La Coscienza che desidera essere infelice
Non di rado mi si chiede quale sia la mia opinione a proposito delle teorie elaborate dal professor Corrado Malanga. Come rispondere? Sarei propenso a distinguere tra le sue ricerche in campo xenologico ed il sistema che si è via via sviluppato per successive aggregazioni dalle indagini iniziali. Mentre le conclusioni cui il chimico toscano è giunto nell’ambito politico ed ufologico, mi trovano nel complesso concorde, il resto, invece, suscita in me qualche perplessità.[1]
In primo luogo mi sembra che egli metta troppo carne al fuoco, cercando di costruire un modello interpretativo del mondo dove numerose ed eterogenee discipline si sovrappongono, talora si contraddicono. L’intento di trovare la quadratura del cerchio è lodevole; il risultato forse inferiore all’impegno profuso. Bisogna, però, sottolineare che la contraddizione è segno di adesione al reale che è di per sé antinomico: nessun sistema può essere del tutto privo di incongruenze, pena la sua totale astrattezza. Va anche rilevato che il pensiero del chimico toscano è in fieri: presto uscirà un suo nuovo libro. Dunque le presenti riflessioni potranno essere in parte obsolete.
In estrema sintesi, Malanga distingue tra una realtà virtuale (olografica) ed una realtà reale, il mondo della Coscienza, avulso dallo spazio-tempo e dalle leggi fisiche. Questa idea dicotomica mi pare plausibile: si allinea, ad esempio, a quanto scrivevo in “Oltre i codici”, articolo cui rimando per una trattazione del tema. Ho anche spesso sostenuto che è inevitabile una forma di dualismo per quanto debole, dunque la distinzione malanghiana tra le due sfere del Tutto mi pare condivisibile.
Nel momento in cui si tenta di spiegare le ragioni che spingono la Coscienza a proiettarsi, a determinarsi nell’universo virtuale, sorgono, a mio avviso, alcune questioni. Non si comprende per quale ragione la Coscienza, che alla fine coincide con Dio, decida di maturare talune esperienze estreme. Che voglia conoscersi attraverso la morte, è concetto che si può ammettere, se accettiamo il dogma ossimorico di una Coscienza imperfetta, pur nella sua divinità. Tale bisogno di conoscersi implica anche l’immersione nella sofferenza: qui cominciano le note dolenti. Mi pare che si dipinga un Ente non solo di scarso acume (una sorta di dio avventato ed insipiente... un dio bambino?), ma pure un po’ masochista. Davvero era ed è necessario sprofondare nella voragine del tormento più atroce e disperato per acquisire consapevolezza? Di quanti vissuti, attraverso squartamenti, piaghe, mutilazioni, accecamenti, torture di ogni genere sia fisiche sia morali ha necessità Anima per conoscersi e per concludere che lo strazio non è poi una gran cosa? Non sarà un po’ ottusa? Per quante volte Anima dovrà immergere la mano nell’acqua bollente per inferirne che ci si ustiona? Quousque tandem? Intendiamoci: la vita nasce dal contrasto e senza le tenebre la luce non può risplendere. Una dose di male è necessaria e persino auspicabile: è la sua superfetazione sia pure “solo” nel livello del manifesto a lasciare impietriti.
Ora, di fronte al problema del male, sostanzialmente le posizioni sono due: o si nega che esso esista, anzi sia - il male come accidente o come privazione di bene (si pensi ad Agostino) - o ci si affanna per provare a giustificare il mysterium iniquitatis. Ecco allora che lo si considera connaturato all’Assoluto (Schelling) o agli uomini (Sartre) o a tutt’e due, in percentuali variabili, oppure lo si attribuisce ad un delirio di Sophia (Gnosi). Malanga aderisce alla prima versione: il male in sé è poco più che un’illusione ottica, anzi cerebrale, poiché dovuta alla contrapposizione tra emisfero destro e sinistro dell’encefalo.
La realtà è un ossimoro
Per quanto mi riguarda, credo che il male dipenda da un cedimento, da uno strappo, da un errore forse, se non ab origine, conseguente ad una delle manifestazioni o emanazioni del Principio. Potrei, però, sbagliarmi: d’altronde nessuno può dispensare la Verità a tale proposito, tanto meno chi si appella a motivazioni tradizionali, ricavate nella Bibbia.
In questo groviglio inestricabile di elucubrazioni ed ipotesi, vorrei rivalutare i “maestri del disincanto”, da Leopardi a Cioran, passando per Schopenauer e Nietzsche, solo per citare alcuni insigni pensatori. Questi filosofi, riluttanti ad offrire spiegazioni consolatorie ed a costruire sdolcinate teodicee, hanno il coraggio di guardare in faccia l’esistenza e la realtà, con tutto il suo pesante fardello di mali: la malattia, la decadenza, la scelleratezza, la noia, la disperazione… La filosofia “ottimista”, confrontata con l’impietosa sonda dei “pessimisti”, è simile all’arte di quei pittori della domenica che ritraggono cieli azzurri e tersi, campagne verdeggianti ed ameni villaggi, con il cavalletto piazzato di fronte ad una discarica.
Il problema conflagra quando ci si azzarda a dirimere ed a sublimare l'intrinseca contraddizione dell’esistenza e dell’universo. Allora preferisco i “sovrumani silenzi” del genio recanatese alle verbose ed astruse chiarificazioni di certuni. Preferisco l’assenza di qualsiasi risposta alla bolsa rivisitazione dell’Idealismo e ad un’etica che è, alla fine, quasi deamicisiana, con il suo richiamo alla volontà che tutto risolve. Se, invece, si fossero accostati maggiormente al vero quegli intellettuali che negano in toto o in parte l’assunto del libero arbitrio?[2]
Alla fine, quando ci si è infilati nel cul de sac, quasi sempre si ricorre alla fisica dei quanti che, a ben vedere, con la sua natura controintuitiva e paradossale, semmai conferma la profonda incongruità del cosmo. Fu dunque lungimirante Einstein, pur con tutti i suoi limiti, quando intuì che la meccanica quantistica rischiava di minare una visione coerente del Tutto. “Dio non gioca a dadi con l’universo”, dichiarò Einstein. Hawking decenni dopo replicò: “Non solo Dio gioca a dadi con l’universo, ma spesso li lancia dove non riesce più a vederli”. Credo che uno di questi dadi sia stato grosso come un macigno e che abbia colpito la zucca degli uomini, tramortendoli e soprattutto compromettendo gravemente le loro capacità intellettive.
[1] Merito indiscusso del professor Malanga è quello di aver denunciato le illusioni e gli inganni dell’ufologia fiduciosa, purtroppo preponderante, popolata di civiltà evolute e benevole, di Guardiani cosmici che ci proteggerebbero da un paio meteoriti, ma che ignorano la Geoingegneria assassina.
[2] So bene che la rivalutazione dei filosofi “pessimisti” sarà considerata segno di incoerenza, ma come si può evitare sempre e comunque un ondeggiamento tra ipotesi differenti, dacché la realtà è antinomia vivente e palese, violazione del principio del terzo escluso? Inoltre rileggere le pagine di certi autori non significa aderire in modo acritico alle loro concezioni, ma estrarre quanto di buono le loro opere possono trasmettere.
La Coscienza che desidera essere infelice
Non di rado mi si chiede quale sia la mia opinione a proposito delle teorie elaborate dal professor Corrado Malanga. Come rispondere? Sarei propenso a distinguere tra le sue ricerche in campo xenologico ed il sistema che si è via via sviluppato per successive aggregazioni dalle indagini iniziali. Mentre le conclusioni cui il chimico toscano è giunto nell’ambito politico ed ufologico, mi trovano nel complesso concorde, il resto, invece, suscita in me qualche perplessità.[1]
In primo luogo mi sembra che egli metta troppo carne al fuoco, cercando di costruire un modello interpretativo del mondo dove numerose ed eterogenee discipline si sovrappongono, talora si contraddicono. L’intento di trovare la quadratura del cerchio è lodevole; il risultato forse inferiore all’impegno profuso. Bisogna, però, sottolineare che la contraddizione è segno di adesione al reale che è di per sé antinomico: nessun sistema può essere del tutto privo di incongruenze, pena la sua totale astrattezza. Va anche rilevato che il pensiero del chimico toscano è in fieri: presto uscirà un suo nuovo libro. Dunque le presenti riflessioni potranno essere in parte obsolete.
In estrema sintesi, Malanga distingue tra una realtà virtuale (olografica) ed una realtà reale, il mondo della Coscienza, avulso dallo spazio-tempo e dalle leggi fisiche. Questa idea dicotomica mi pare plausibile: si allinea, ad esempio, a quanto scrivevo in “Oltre i codici”, articolo cui rimando per una trattazione del tema. Ho anche spesso sostenuto che è inevitabile una forma di dualismo per quanto debole, dunque la distinzione malanghiana tra le due sfere del Tutto mi pare condivisibile.
Nel momento in cui si tenta di spiegare le ragioni che spingono la Coscienza a proiettarsi, a determinarsi nell’universo virtuale, sorgono, a mio avviso, alcune questioni. Non si comprende per quale ragione la Coscienza, che alla fine coincide con Dio, decida di maturare talune esperienze estreme. Che voglia conoscersi attraverso la morte, è concetto che si può ammettere, se accettiamo il dogma ossimorico di una Coscienza imperfetta, pur nella sua divinità. Tale bisogno di conoscersi implica anche l’immersione nella sofferenza: qui cominciano le note dolenti. Mi pare che si dipinga un Ente non solo di scarso acume (una sorta di dio avventato ed insipiente... un dio bambino?), ma pure un po’ masochista. Davvero era ed è necessario sprofondare nella voragine del tormento più atroce e disperato per acquisire consapevolezza? Di quanti vissuti, attraverso squartamenti, piaghe, mutilazioni, accecamenti, torture di ogni genere sia fisiche sia morali ha necessità Anima per conoscersi e per concludere che lo strazio non è poi una gran cosa? Non sarà un po’ ottusa? Per quante volte Anima dovrà immergere la mano nell’acqua bollente per inferirne che ci si ustiona? Quousque tandem? Intendiamoci: la vita nasce dal contrasto e senza le tenebre la luce non può risplendere. Una dose di male è necessaria e persino auspicabile: è la sua superfetazione sia pure “solo” nel livello del manifesto a lasciare impietriti.
Ora, di fronte al problema del male, sostanzialmente le posizioni sono due: o si nega che esso esista, anzi sia - il male come accidente o come privazione di bene (si pensi ad Agostino) - o ci si affanna per provare a giustificare il mysterium iniquitatis. Ecco allora che lo si considera connaturato all’Assoluto (Schelling) o agli uomini (Sartre) o a tutt’e due, in percentuali variabili, oppure lo si attribuisce ad un delirio di Sophia (Gnosi). Malanga aderisce alla prima versione: il male in sé è poco più che un’illusione ottica, anzi cerebrale, poiché dovuta alla contrapposizione tra emisfero destro e sinistro dell’encefalo.
La realtà è un ossimoro
Per quanto mi riguarda, credo che il male dipenda da un cedimento, da uno strappo, da un errore forse, se non ab origine, conseguente ad una delle manifestazioni o emanazioni del Principio. Potrei, però, sbagliarmi: d’altronde nessuno può dispensare la Verità a tale proposito, tanto meno chi si appella a motivazioni tradizionali, ricavate nella Bibbia.
In questo groviglio inestricabile di elucubrazioni ed ipotesi, vorrei rivalutare i “maestri del disincanto”, da Leopardi a Cioran, passando per Schopenauer e Nietzsche, solo per citare alcuni insigni pensatori. Questi filosofi, riluttanti ad offrire spiegazioni consolatorie ed a costruire sdolcinate teodicee, hanno il coraggio di guardare in faccia l’esistenza e la realtà, con tutto il suo pesante fardello di mali: la malattia, la decadenza, la scelleratezza, la noia, la disperazione… La filosofia “ottimista”, confrontata con l’impietosa sonda dei “pessimisti”, è simile all’arte di quei pittori della domenica che ritraggono cieli azzurri e tersi, campagne verdeggianti ed ameni villaggi, con il cavalletto piazzato di fronte ad una discarica.
Il problema conflagra quando ci si azzarda a dirimere ed a sublimare l'intrinseca contraddizione dell’esistenza e dell’universo. Allora preferisco i “sovrumani silenzi” del genio recanatese alle verbose ed astruse chiarificazioni di certuni. Preferisco l’assenza di qualsiasi risposta alla bolsa rivisitazione dell’Idealismo e ad un’etica che è, alla fine, quasi deamicisiana, con il suo richiamo alla volontà che tutto risolve. Se, invece, si fossero accostati maggiormente al vero quegli intellettuali che negano in toto o in parte l’assunto del libero arbitrio?[2]
Alla fine, quando ci si è infilati nel cul de sac, quasi sempre si ricorre alla fisica dei quanti che, a ben vedere, con la sua natura controintuitiva e paradossale, semmai conferma la profonda incongruità del cosmo. Fu dunque lungimirante Einstein, pur con tutti i suoi limiti, quando intuì che la meccanica quantistica rischiava di minare una visione coerente del Tutto. “Dio non gioca a dadi con l’universo”, dichiarò Einstein. Hawking decenni dopo replicò: “Non solo Dio gioca a dadi con l’universo, ma spesso li lancia dove non riesce più a vederli”. Credo che uno di questi dadi sia stato grosso come un macigno e che abbia colpito la zucca degli uomini, tramortendoli e soprattutto compromettendo gravemente le loro capacità intellettive.
[1] Merito indiscusso del professor Malanga è quello di aver denunciato le illusioni e gli inganni dell’ufologia fiduciosa, purtroppo preponderante, popolata di civiltà evolute e benevole, di Guardiani cosmici che ci proteggerebbero da un paio meteoriti, ma che ignorano la Geoingegneria assassina.
[2] So bene che la rivalutazione dei filosofi “pessimisti” sarà considerata segno di incoerenza, ma come si può evitare sempre e comunque un ondeggiamento tra ipotesi differenti, dacché la realtà è antinomia vivente e palese, violazione del principio del terzo escluso? Inoltre rileggere le pagine di certi autori non significa aderire in modo acritico alle loro concezioni, ma estrarre quanto di buono le loro opere possono trasmettere.
Pubblicato da
Zret
Saturday, December 22, 2012
Arte e potere: è auspicabile che l’analisi di un’opera di soggetto “cristiano” evidenzi lo sfondo ideologico?
Risposta: piantala con le domande/coglionate idiote, infimo iettatore. Hai tanta autorevolezza, cultura, intelligenza quanto tuo fratello maggiore è capellone o il tuo amichetto corrado conosce le quattro operazioni.
tdm
http://zret.blogspot.it/2012/12/arte-e-potere-e-auspicabile-che.html
Arte e potere: è auspicabile che l’analisi di un’opera di soggetto “cristiano” evidenzi lo sfondo ideologico?
Giorgio Manganelli scrisse che “la letteratura è menzogna”. Il provocatorio asserto ci mette in guardia dall’ingenua immedesimazione nelle storie, nelle descrizioni, negli immaginari, ricordandoci che l’universo letterario si sottrae al rispecchiamento, poiché vive di una vita propria, la cui verità è finzione.Se la bellezza, valore per eccellenza dell’arte, trova in sé la sua verità, l’ideologia è l’ipoteca che grava su certe opere. Vediamo una situazione emblematica. Il genio rinascimentale esprime la sua poetica irripetibile, ma si richiama pure alla committenza, ai maestri che l’hanno preceduto ed a lui coevi, ai codici linguistici e via discorrendo. Le sue creazioni sono avulse del tutto da condizionamenti esterni?
Ci troviamo al cospetto di una delle più imbarazzanti contraddizioni della storia: in che misura un’arte di soggetto “cristiano” è genuina, sincera, dal momento che l’iconografia è falsa?
Pensiamo poi alle “Confessioni” di Agostino dove alcune pagine sublimi convivono con l’equivoco teologico e filosofico. La “Commedia”, le cattedrali gotiche, i dipinti di Leonardo da Vinci non incorrono in tale antinomia, poiché l’ortodossia “cristiana” è solo un simulacro dietro cui sono codificati valori esoterici di sapore “eretico”. [1]
Incaricato da papa Giulio II, Raffaello nel 1511 affrescò sulle pareti della seconda Stanza vaticana (detta di Eliodoro), quattro “istorie” derivate dalla Bibbia o ispirate ad eventi della vite dei papi e della Chiesa, ma simbolicamente in stretta relazione con i programmi politici del pontefice regnante e con i drammatici avvenimenti contemporanei. Di fronte al mutare delle funzioni e del significato delle immagini, Raffaello abbandonò la classica misura degli affreschi della prima Stanza, elaborando un linguaggio di notevole energia, ora negli effetti scenografici ora nei contrasti luministici ora nella veemenza dell’azione ora nella ricchezza delle soluzioni cromatiche.
Un capolavoro è “La liberazione di san Pietro dal carcere” per la sapiente composizione drammatico-narrativa, per i contrasti chiaroscurali, il magnifico notturno con la luna su cui scorre un velo di nubi, i riflessi sulle armature dei soldati… La luce calda che circonfonde l’angelo crea un armonico contrasto con i freddi scintillii selenici.
Un’opera così pregevole inscena un episodio del tutto fantasioso: nessun angelo liberò dalla prigione l’apostolo che, probabilmente, morì in Palestina, come testimoniato da Giuseppe Flavio che annota: “Sotto l’amministrazione del procuratore Tiberio Alessandro (46-48 d.C.) si verificarono disordini che portarono alla cattura di due figli di Giuda il Galileo. Si chiamavano Giacomo e Simone e furono entrambi crocifissi; colui era il Giuda che aveva aizzato il popolo alla rivolta contro i Romani, mentre Quirino eseguiva il censimento in Giudea”. (Antichità giudaiche, XX)
Ora, i figli di Giuda il Galileo corrispondono a Giacomo e Simon Pietro dei Vangeli canonici. Ciò è difficilmente oppugnabile. Quando il Maestro illustrò lo pseudo-accadimento finì con l’avallare un’interpretazione spuria della storia appartenente al Cristianesimo primitivo, in linea con la tradizione anch’essa spuria che vede in Pietro il primo papa (sic) con annessi e connessi. L’arte non è certo risolta nell’ideologia, a differenza di quanto avviene, ad esempio nel caso di correnti quali il “realismo socialista”.
Tuttavia un’analisi spassionata ed esaustiva dell’opera, a parere di chi scrive, dovrebbe evidenziare tale sfondo ideologico, ossia lo storico dell’arte andrebbe affiancato dallo storico affinché questi, di volta in volta, discerna i contenuti veridici o plausibili da quelli fittizi e leggendari. Altrimenti si resta confinati un’interpretazione edificante, catechistica, quantunque la riflessione sugli aspetti formali ed iconografici sia apprezzabile. Un critico come Antonio Paolucci, verbigrazia, incarna un orientamento ermeneutico del genere. L’amore per la verità rivendica un’esegesi compiuta ed eterodossa: lo splendore dell’arte non ne è offuscato, mentre le contraffazioni ecclesiastiche, volte all’instaurazione di un potere eretto su un basamento di falsi storici, sono mostrate in tutta la loro spudoratezza.
[1] Tale lacerante domanda si può ampliare a tutta la cultura “cristiana” in cui sovente lo stile coesiste con l’infondatezza. Dovremo pure interrogarci sul ruolo di Chiese come l’ortodossa, la copta e la cattolica, in parte depositarie (di più le prime due) di una Tradizione veneranda, eppure collocata fuori contesto e, in tal modo, snaturata e sovvertita nei fini e nei valori.
Pubblicato da Zret hai lacerato 'sta minchia buffone iettatore
Friday, November 2, 2012
Il disertore
http://zret.blogspot.com/2012/11/il-disertore.html
Il disertore
Sit ei terra levis.Ha suscitato cordoglio la morte di un altro soldato italiano, Tiziano Chierotto. L’alpino è stato ucciso in Afghanistan ed è la cinquantesima e seconda [pareva brutto dire 'cinquantaduesima'?] vittima della missione di “pace”. La lacerante disperazione di parenti ed amici è l’ennesima prova di un fallimento culturale. Se, infatti, i giovani continuano ad essere carne da cannone, si deve, in primo luogo, all’indottrinamento cui sono sottoposte le nuove generazioni. La scuola, lungi dall’educare, plagia. [parola dell'esperto di fama mondiale] I media poi concorrono a deformare le menti. La Chiesa, colpevole in primo luogo il vescovo di Ippona, benedice armi e massacri.
Un adolescente che abbia letto le pagine più celebri dei “Promessi sposi” non può decidere di arruolarsi. Il romanzo è una condanna inappellabile non solo della guerra, ma dell’untuosa retorica con cui essa è ammantata. L’ironia dell’autore milanese punge il potere e le sue menzogne, denuncia e demistifica il cinismo e la doppiezza delle classi dirigenti. Quelle attuali sono di gran lunga peggiori che le élites di un tempo. Oggi lo “stato democratico” - supremo ossimoro –colpisce alle spalle i cittadini, mentre finge di adoperarsi per loro.
Chi abbia inteso certi capitoli del capolavoro manzoniano [tu sei escluso, quindi] può solo concepire un totale ripudio della guerra in ogni sua forma. Gli snodi della storia ed altre letture dovrebbero portare a concludere che i militari muoiono per i banchieri, anzi per carnefici spregiudicati che vedono nei conflitti la fonte di un lucro immondo e specialmente lo strumento per perpetuare il loro sanguinario dominio.
Non si “cade” per la patria, che non esiste, ma affinché si avverino gli incubi dei tagliagole.
In un intenso racconto, “Il disertore”, lo scrittore ucraino Ivan Babel(1894-1941) narra di un coscritto francese, Beaugy, che, stanco della guerra, delle granate il cui scoppio assordante gli impedisce di chiudere occhio per sei notti consecutive, decide di disertare. Mentre si trova tra le linee francesi e quelle nemiche, viene, però, scorto da alcuni commilitoni, arrestato e condotto dal capitano Gémier. Gémier è il prototipo del borghese benpensante, sciovinista ed orgoglioso. Egli vuole salvare l’onore del soldato e gli promette che non sarà giudicato come traditore dalla corte marziale, perché ai familiari sarà comunicato che è morto combattendo come un eroe contro i “barbari”. Deve, però, uccidersi: l'ufficiale inferiore porta il soldato in un bosco. Consegnatagli una rivoltella, gli ingiunge di togliersi la vita. Giacché Beaugy non ha il coraggio di spararsi, Gémier strappa la pistola dalle mani tremanti del giovane e gli trapassa il cranio con una pallottola.
Il sarcasmo che corrode la figura di Gémier e la propaganda bellicista fa da contrappunto alla contenuta ma umanissima pietas con cui è ritratto lo sventurato Beaugy, il suo tenero mondo di affetti e di sogni destinati a naufragare contro gli scogli della storia.
Mediante la prospettiva variabile, il narratore onnisciente ora si immedesima nel capitano per prendere le distanze, ora si incarna nel fante per condividerne la disgrazia. I dialoghi amputati, l’analessi che precipita il lettore nell’abominio della violenza, “il profondo silenzio del bosco” dove si consuma il dramma, il sapiente dosaggio degli accorgimenti narrativi rendono “Il disertore” un piccolo capolavoro antimilitarista.
Indimenticabile, infine, è il quadretto dove Babel dipinge “un roseo, splendente mattino di primavera”. Ogni tragedia è preannunziata da una luce vivida, da una olimpica, eterea serenità.
Pubblicato da Zret diseducatore plagiatore cornigero
2 commenti ulteriori vaccate:
- Commento lucidissimo, Wlady. Aggiungere qualcosa significherrebbe offuscarne la cristallina chiarezza.Rispondi
Ciao
Tuesday, May 1, 2012
Il colore dei suoni
http://zret.blogspot.it/2012/04/il-colore-dei-suoni.html
Il colore dei suoni

Fu
Agostino ad introdurre la lettura silenziosa: tale novità fu non meno
radicale dell’invenzione della scrittura, attribuita al dio egizio Thot e
deplorata da Platone. Se, da un lato, la lettura acquisì una dimensione
introspettiva e personale, dall’altro si smarrì il suono della voce
propria o altrui – gli antichi solevano ascoltare, traendone diletto,
durante i simposi ed in altre occasioni, dalla viva voce dell’anagnostes passi di opere.
Con un enorme sforzo di immaginazione, riusciamo a figurarci il mégaron del palazzo miceneo, dove al chiarore caldo del focolare, gli astanti si beavano delle saghe declamate da un rapsodo.
Si può immaginare quale fu la perdita: il timbro di una voce si imprime nell’animo, simile ad un calamo con cui si incide la cera. Il suono è già, almeno in parte, senso.
Siamo immersi in un mondo di vibrazioni: il celebre incipit del Quarto vangelo, “In principio era il Logos,” potrebbe valere “In principio era il suono”. Gli stessi rumori sono scanditi da ritmi o venati talora da labili linee melodiche. I suoni della natura creano una sinfonia mirabile, non solo per varietà di toni, di accenti e di modulazioni, ma anche per la profondità degli echi emotivi che essi suscitano.
Si legga un testo ad alta voce o lo si ascolti, mentre qualcun altro lo legge: più facilmente resterà impresso. Se ci si riferisce ad una memoria visiva, esiste pure una reminiscenza fonica.
Fu merito dei poeti simbolisti - in Italia spicca l’esperienza di Pascoli - rivendicare l’autonomia del significante, rispetto al significato. Il suono, essenza e riflesso delle cose, fu valorizzato nella sua potenza espressiva: quando si compenetra al concetto, in una sintesi inscindibile ed armonica, rivela la sua natura primigenia.
E’ palese che la nostra società ha i sensi ottusi: incapace di ascoltare ed auscultare, ci si limita ad udire distrattamente. I suoni sono privi di colore, di sfumature: tutto è livellato nel grigio più tetro o scavato nel frastuono. Le necessità comunicative mantengono in vita le voci, con qualche rimasuglio di inflessione, ma già nelle stazioni e negli aeroporti impera una rigida voce digitale. Anonima e fredda si staglia su un panorama piatto.
Con un enorme sforzo di immaginazione, riusciamo a figurarci il mégaron del palazzo miceneo, dove al chiarore caldo del focolare, gli astanti si beavano delle saghe declamate da un rapsodo.
Si può immaginare quale fu la perdita: il timbro di una voce si imprime nell’animo, simile ad un calamo con cui si incide la cera. Il suono è già, almeno in parte, senso.
Siamo immersi in un mondo di vibrazioni: il celebre incipit del Quarto vangelo, “In principio era il Logos,” potrebbe valere “In principio era il suono”. Gli stessi rumori sono scanditi da ritmi o venati talora da labili linee melodiche. I suoni della natura creano una sinfonia mirabile, non solo per varietà di toni, di accenti e di modulazioni, ma anche per la profondità degli echi emotivi che essi suscitano.
Si legga un testo ad alta voce o lo si ascolti, mentre qualcun altro lo legge: più facilmente resterà impresso. Se ci si riferisce ad una memoria visiva, esiste pure una reminiscenza fonica.
Fu merito dei poeti simbolisti - in Italia spicca l’esperienza di Pascoli - rivendicare l’autonomia del significante, rispetto al significato. Il suono, essenza e riflesso delle cose, fu valorizzato nella sua potenza espressiva: quando si compenetra al concetto, in una sintesi inscindibile ed armonica, rivela la sua natura primigenia.
E’ palese che la nostra società ha i sensi ottusi: incapace di ascoltare ed auscultare, ci si limita ad udire distrattamente. I suoni sono privi di colore, di sfumature: tutto è livellato nel grigio più tetro o scavato nel frastuono. Le necessità comunicative mantengono in vita le voci, con qualche rimasuglio di inflessione, ma già nelle stazioni e negli aeroporti impera una rigida voce digitale. Anonima e fredda si staglia su un panorama piatto.
Pubblicato da
Zret
Sunday, July 17, 2011
Adesso
http://zret.blogspot.com/2011/07/adesso.html
Adesso

La nostra mente è sempre presa tra due fuochi, il passato con il suo strascico di ricordi e recriminazioni, ed il futuro, gremito di timori e di inani speranze. I pensieri brulicano: è un moto incontrollabile ed estenuante. Il pensiero pesa. Esso è radice di ogni infelicità. Dunque hanno ragione coloro che esortano a spegnere la mente, ad archiviare il passato che tanto, qualcuno sostiene, non esiste più, e ad annullare l’avvenire. E’ necessario concentrarsi sul presente e cogliere il potere dell’adesso, come recita il titolo di un celebre libro, sebbene io non sappia fino a che punto l'adesso sia tanto gradevole: sovente ha un sapore molto amaro.
Agostino aveva esaminato il tema con maggiore lucidità: se possiamo concludere, secondo una certa ottica, che il tempo trascorso e quello futuro sono mere astrazioni, nebulose propaggini di una mente mai paga di sé stessa, dobbiamo anche constatare che il tanto decantato “ora” è altrettanto inconsistente, essendo un attimo inafferrabile. Valorizzare l’ora è quindi eternare il nulla, trasferire il pensiero in una dimensione in cui si acquietano le idee, non perché trasmutate, ma in quanto annichilite.
Una vena di nichilismo percorre dunque gli insegnamenti che si prefiggono un’elevazione individuale, tramite il conseguimento del silenzio interiore. E’ così: al caos dell’esistenza si può fuggire solo negandola. Il movimento tautologico del destino umano ci spinge a riconquistare il nulla da cui proveniamo.
Pure le vie non basate sull’ascetismo sottendono un assottigliamento del pensiero, sorgente di inquietudine e di affanno. Infatti, se la vita non fosse tormentosa, non si avvertirebbe l’esigenza di ricondurla in qualche modo a quel non essere donde essa promana. Si riconosce quindi, sebbene in modo implicito, che la vita così com’è, è imperfetta ed innaturale. Solo chi è stato sconfitto desidera una rivincita.
“Tanto rumore per nulla”, ossia l’esperienza umana è così tumultuosa e travagliata che il fine ultimo del saggio deve essere il nulla. E’ l’unico obiettivo di un cammino disseminato di ostacoli, di un uomo sempre oscillante tra la grigia noia ed il corrosivo dolore. Di fronte un solo stretto passaggio: l’adesso con il suo potere. Peccato (o per fortuna?) che l’adesso non esista. E’ solo una metafora per indicare quella singolarità esistenziale in cui tutto (desideri, nostalgie, illusioni, aneliti… ) è risucchiato nel non essere, come un buco nero, secondo molti astrofisici, fagocita la luce.
Senza dubbio liberarsi dalla schiavitù della memoria e dalle catene delle aspettative è un obiettivo da perseguire per ottenere un po’ di calma interiore, ma bisogna essere consapevoli che svellere le radici significa rinunciare ad una ricca parte di noi, per quanto contraddittoria. Così al niente, inteso come non-senso ed assurdo dei giorni, si sostituisce il dono dell’adesso, il niente.
Solo il nulla può cancellare il nulla, anche se esso potrebbe essere, se mai troveremo la chiave, la porta per il tutto.
Agostino aveva esaminato il tema con maggiore lucidità: se possiamo concludere, secondo una certa ottica, che il tempo trascorso e quello futuro sono mere astrazioni, nebulose propaggini di una mente mai paga di sé stessa, dobbiamo anche constatare che il tanto decantato “ora” è altrettanto inconsistente, essendo un attimo inafferrabile. Valorizzare l’ora è quindi eternare il nulla, trasferire il pensiero in una dimensione in cui si acquietano le idee, non perché trasmutate, ma in quanto annichilite.
Una vena di nichilismo percorre dunque gli insegnamenti che si prefiggono un’elevazione individuale, tramite il conseguimento del silenzio interiore. E’ così: al caos dell’esistenza si può fuggire solo negandola. Il movimento tautologico del destino umano ci spinge a riconquistare il nulla da cui proveniamo.
Pure le vie non basate sull’ascetismo sottendono un assottigliamento del pensiero, sorgente di inquietudine e di affanno. Infatti, se la vita non fosse tormentosa, non si avvertirebbe l’esigenza di ricondurla in qualche modo a quel non essere donde essa promana. Si riconosce quindi, sebbene in modo implicito, che la vita così com’è, è imperfetta ed innaturale. Solo chi è stato sconfitto desidera una rivincita.
“Tanto rumore per nulla”, ossia l’esperienza umana è così tumultuosa e travagliata che il fine ultimo del saggio deve essere il nulla. E’ l’unico obiettivo di un cammino disseminato di ostacoli, di un uomo sempre oscillante tra la grigia noia ed il corrosivo dolore. Di fronte un solo stretto passaggio: l’adesso con il suo potere. Peccato (o per fortuna?) che l’adesso non esista. E’ solo una metafora per indicare quella singolarità esistenziale in cui tutto (desideri, nostalgie, illusioni, aneliti… ) è risucchiato nel non essere, come un buco nero, secondo molti astrofisici, fagocita la luce.
Senza dubbio liberarsi dalla schiavitù della memoria e dalle catene delle aspettative è un obiettivo da perseguire per ottenere un po’ di calma interiore, ma bisogna essere consapevoli che svellere le radici significa rinunciare ad una ricca parte di noi, per quanto contraddittoria. Così al niente, inteso come non-senso ed assurdo dei giorni, si sostituisce il dono dell’adesso, il niente.
Solo il nulla può cancellare il nulla, anche se esso potrebbe essere, se mai troveremo la chiave, la porta per il tutto.
Pubblicato da Zret allegro per via del week-end
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Thursday, May 19, 2011
Vesica piscis
http://zret.blogspot.com/2011/05/vesica-piscis.html
Vesica piscis

Nel libro X (capitolo XII) dell'opera intitolata "Le confessioni", Agostino scrive: "La memoria contiene altresì i rapporti e le numerosissime leggi dell'aritmetica e della geometria, nessuna delle quali è stata impressa dai sensi esterni, non essendo affatto colorate o sonore o odorose, non sapide, non tangibili. Quando se ne discute, percepisco il suono delle parole che le esprimono, ma il suono è una cosa, il concetto che è espresso un'altra. Il suono differisce se parlo in greco o in latino, ma i concetti non sono greci né latini né di qualsiasi altra lingua. Vidi linee sottilissime come fili di ragnatele tracciate da artefici, ma le linee geometriche sono ben diverse dalle immagine di quelle che l'occhio corporale mi ha fatto conoscere: uno le conosce dentro di sé, senza bisogno di pensare ad un oggetto qualsiasi".
Il passaggio riportato darebbe adito a tante e tali riflessioni che occorrerebbero interi volumi per svilupparle. Pertanto circoscrivo l'indagine a qualche aspetto di valenza linguistica ed epistemologica. Noto in primis che l'autore risente del dualismo peculiare della religione manichea cui aveva aderito in giovinezza e che, dopo l'incontro con Ambrogio, abbandonò sino a combatterlo strenuamente. Siamo in ambito diverso, non più etico, ma pur sempre di fronte ad una serie di dicotomie: la separazione tra significante (struttura del segno) e significato; la differenza tra esterno ed interno; la distinzione tra concreto ed astratto. Sono concetti filosofici sussunti nel senso comune [1], ma poiché per il pensiero non ci vuole l'accetta, si è costretti a concludere che nulla dimostra che fuori e dentro, concretezza ed astrazione sono entità divise.
La divaricazione agostiniana tra forma e contenuto è discutibile: "Percepisco il suono delle parole che le esprimono, ma il suono è una cosa, il concetto che è espresso un'altra. Il suono differisce se parlo in greco o in latino, ma i concetti non sono greci né latini né di qualsiasi altra lingua". Sappiamo che il significante è, in alcuni casi, agganciato al senso: non mi riferisco solo ai vocaboli onomatopeici (icone), piuttosto all'arcano potere delle vibrazioni di codificare modelli, immagini, archetipi sicché l'idea è almeno in parte impastata di suoni, di odori, di sapori... Non è forse il Logos ("verbo" che ha la stessa radice di vibrazione) a condensarsi in oggetti e ad adombrare significati? Non è del tutto vero che i concetti non sono né greci né latini: ogni idioma possiede un quid che struttura i contenuti, secondo schemi a priori. Queste categorie si riflettono sulle forme e sono riflessi da esse, essendo i fenomeni linguistici biunivoci.
La distinzione tra gli enti della matematica e gli oggetti della cosiddetta realtà è, in fondo, una petizione di principio: siamo certi che esistono idee geometriche ed aritmetiche innate? Se sì, chi le ha introdotte nella mente? Conoscere i numeri ed i loro rapporti può prescindere da un pensiero diretto verso un referente? Sono domande cui è arduo rispondere, poiché implicano la risoluzione di problemi quali la ricezione, la percezione, l'appercezione (percezione consapevole), la memoria, il pensiero... Chi pensa che cosa? Chi o che cos'è questo qui che pensa? Un'anima? Una sostanza? Un fascio di sensazioni, un sofisticato computer o che cos'altro?
La questione è molto più complessa di come la prospetta Agostino che esprime delle concezioni ancora oggi ben radicate (si pensi ai matematici platonici ed ai glottologi convenzionalisti), ma non per questo del tutto condivisibili. Così il vescovo di Ippona, al culmine di un lungo processo speculativo, si ferma ad un'esegesi del mondo che, pur non priva di qualche spunto originale, è per lo più una rielaborazione di teorie classiche, soprattutto platoniche e neo-platoniche.
Oggi, digiuni di qualsiasi cognizione epistemologica, certi individui, con sicumera tutta "scientifica" ed altrettanto dogmatica, riescono a distinguere tra reale ed irreale, tra esterno ed interno, tra output ed input, tra fatto e teoria etc. Difendono la loro misera, ingenua visione del mondo, con una corazza... di paglia.
[1] Si può reputare il senso comune una sorta di filosofia semplificata, pret-à-porter, pratica, utile, ma mediocre.
Il passaggio riportato darebbe adito a tante e tali riflessioni che occorrerebbero interi volumi per svilupparle. Pertanto circoscrivo l'indagine a qualche aspetto di valenza linguistica ed epistemologica. Noto in primis che l'autore risente del dualismo peculiare della religione manichea cui aveva aderito in giovinezza e che, dopo l'incontro con Ambrogio, abbandonò sino a combatterlo strenuamente. Siamo in ambito diverso, non più etico, ma pur sempre di fronte ad una serie di dicotomie: la separazione tra significante (struttura del segno) e significato; la differenza tra esterno ed interno; la distinzione tra concreto ed astratto. Sono concetti filosofici sussunti nel senso comune [1], ma poiché per il pensiero non ci vuole l'accetta, si è costretti a concludere che nulla dimostra che fuori e dentro, concretezza ed astrazione sono entità divise.
La divaricazione agostiniana tra forma e contenuto è discutibile: "Percepisco il suono delle parole che le esprimono, ma il suono è una cosa, il concetto che è espresso un'altra. Il suono differisce se parlo in greco o in latino, ma i concetti non sono greci né latini né di qualsiasi altra lingua". Sappiamo che il significante è, in alcuni casi, agganciato al senso: non mi riferisco solo ai vocaboli onomatopeici (icone), piuttosto all'arcano potere delle vibrazioni di codificare modelli, immagini, archetipi sicché l'idea è almeno in parte impastata di suoni, di odori, di sapori... Non è forse il Logos ("verbo" che ha la stessa radice di vibrazione) a condensarsi in oggetti e ad adombrare significati? Non è del tutto vero che i concetti non sono né greci né latini: ogni idioma possiede un quid che struttura i contenuti, secondo schemi a priori. Queste categorie si riflettono sulle forme e sono riflessi da esse, essendo i fenomeni linguistici biunivoci.
La distinzione tra gli enti della matematica e gli oggetti della cosiddetta realtà è, in fondo, una petizione di principio: siamo certi che esistono idee geometriche ed aritmetiche innate? Se sì, chi le ha introdotte nella mente? Conoscere i numeri ed i loro rapporti può prescindere da un pensiero diretto verso un referente? Sono domande cui è arduo rispondere, poiché implicano la risoluzione di problemi quali la ricezione, la percezione, l'appercezione (percezione consapevole), la memoria, il pensiero... Chi pensa che cosa? Chi o che cos'è questo qui che pensa? Un'anima? Una sostanza? Un fascio di sensazioni, un sofisticato computer o che cos'altro?
La questione è molto più complessa di come la prospetta Agostino che esprime delle concezioni ancora oggi ben radicate (si pensi ai matematici platonici ed ai glottologi convenzionalisti), ma non per questo del tutto condivisibili. Così il vescovo di Ippona, al culmine di un lungo processo speculativo, si ferma ad un'esegesi del mondo che, pur non priva di qualche spunto originale, è per lo più una rielaborazione di teorie classiche, soprattutto platoniche e neo-platoniche.
Oggi, digiuni di qualsiasi cognizione epistemologica, certi individui, con sicumera tutta "scientifica" ed altrettanto dogmatica, riescono a distinguere tra reale ed irreale, tra esterno ed interno, tra output ed input, tra fatto e teoria etc. Difendono la loro misera, ingenua visione del mondo, con una corazza... di paglia.
[1] Si può reputare il senso comune una sorta di filosofia semplificata, pret-à-porter, pratica, utile, ma mediocre.
Pubblicato da Zret
Saturday, May 14, 2011
Il mistero dell'iniquità
http://zret.blogspot.com/2011/05/il-mistero-delliniquita.html
Il mistero dell'iniquità
Né le stelle né il sole
si risveglieranno,
non vi sarà mutamento di stagione,
né suoni melodiosi
o estatiche visioni.
Solo il sonno eterno
in una eterna notte.
(M. P., Proserpina)
Chi può negare che il mondo è dominato da una profonda ingiustizia? Vediamo il destino accanirsi contro i giusti, i deboli, gli inermi, mentre i reprobi trionfano e le loro malefatte non solo sono impunite, ma anche glorificate. Gli uomini talentuosi sono spesso misconosciuti, mentre i mestieranti occupano le cattedre universitarie. I benefattori ricevono come guiderdone ingratitudine, calunnie e sventure.
E' come se tale iniquità non fosse casuale.
Seneca scrive che Dio mette alla prova i probi, vagliando la loro capacità di sopportazione. Potrebbe essere. Sempre a proposito del Creatore, Nigel Kerner afferma che Dio (l’autore lo definisce Godverse) non interviene, poiché non può: è una prospettiva raggelante, ma forse non del tutto lontana dal vero. Quante invocazioni disperate e non di persone avvezze a pettinare le bambole, si perdono nel silenzio più nero! Il segreto dell’iniquità si sposa con il mistero del silenzio di Dio.
Sembra che l’unico miracolo elargito a chi è dilaniato da patimenti indicibili sia la morte, considerata la cessazione di ogni dolore, sempre che…
E’ naturale: il nodo si intreccia anche con l’enigma del male che sembra qualcosa di più di un semplice defectus boni, come sostiene Agostino.
Come compensazione gli uomini hanno ideato il futuro: è nel futuro, infatti, che sarà finalmente stabilita la giustizia. La giustizia è post mortem, l’equo riconoscimento è postumo, ai posteri spetta di pronunciare l’ardua e cristallina sentenza. Non sarà dunque così per sempre: i gaglioffi pagheranno il fio, ma per ora imperversano.
Le religioni rivestono un ruolo fondamentale, quali visioni prospettiche di un mondo rigenerato e redento. Anche quei filosofi che valorizzano l ’hic et nunc sono costretti a collocare in un avvenire incerto l’avvento di una nuova era: si pensi all’Ubermensch (Oltreuomo) di Nietzsche che è appunto oltre il suo stesso, trionfale annuncio. Le religioni e certe filosofie sono verbi che si coniugano solo al futuro.
L’ontogenesi palesa una situazione parallela: l’adolescente vagheggia gli anni in cui sarà felice, ignorando che cosa lo attenda. Sarebbe meglio se leggesse ed assimilasse l’insegnamento contenuto nella poesia “Il sabato del villaggio”: non solo prima o poi verrà “il dì di festa”, ma forse qualcuno gli farà la festa.
A volte si ha l’impressione che all’universo non soggiaccia l’irrazionalità, poiché una struttura siffatta sarebbe probabilistica e distribuirebbe rose e spine in modo più o meno equivalente, ma una razionalità al contrario.
Un dubbio più che cartesiano ci impone di dubitare delle promised lands, ci costringe non a credere, ma a cercare varchi eventuali, cardini che potrebbero cedere, brecce suscettibili di allargarsi.
Forse non risusciteremo, non continueremo a vivere in un altro “luogo”: spezzatosi il breve arco della vita, si sprofonda nel nulla. Lo stesso Dio potrebbe essere veramente, come opina Kerner, per la sua stessa natura, estraneo, volente o nolente, alle miserevoli vicende umane e non solo umane. Perché mai le nostre piccole vite dovrebbero essere tanto importanti in questo cosmo sconfinato e muto?
Un giorno il sole affonderà nel glaciale oceano di una notte infinita per non risorgere più.
si risveglieranno,
non vi sarà mutamento di stagione,
né suoni melodiosi
o estatiche visioni.
Solo il sonno eterno
in una eterna notte.
(M. P., Proserpina)

E' come se tale iniquità non fosse casuale.
Seneca scrive che Dio mette alla prova i probi, vagliando la loro capacità di sopportazione. Potrebbe essere. Sempre a proposito del Creatore, Nigel Kerner afferma che Dio (l’autore lo definisce Godverse) non interviene, poiché non può: è una prospettiva raggelante, ma forse non del tutto lontana dal vero. Quante invocazioni disperate e non di persone avvezze a pettinare le bambole, si perdono nel silenzio più nero! Il segreto dell’iniquità si sposa con il mistero del silenzio di Dio.
Sembra che l’unico miracolo elargito a chi è dilaniato da patimenti indicibili sia la morte, considerata la cessazione di ogni dolore, sempre che…
E’ naturale: il nodo si intreccia anche con l’enigma del male che sembra qualcosa di più di un semplice defectus boni, come sostiene Agostino.
Come compensazione gli uomini hanno ideato il futuro: è nel futuro, infatti, che sarà finalmente stabilita la giustizia. La giustizia è post mortem, l’equo riconoscimento è postumo, ai posteri spetta di pronunciare l’ardua e cristallina sentenza. Non sarà dunque così per sempre: i gaglioffi pagheranno il fio, ma per ora imperversano.
Le religioni rivestono un ruolo fondamentale, quali visioni prospettiche di un mondo rigenerato e redento. Anche quei filosofi che valorizzano l ’hic et nunc sono costretti a collocare in un avvenire incerto l’avvento di una nuova era: si pensi all’Ubermensch (Oltreuomo) di Nietzsche che è appunto oltre il suo stesso, trionfale annuncio. Le religioni e certe filosofie sono verbi che si coniugano solo al futuro.
L’ontogenesi palesa una situazione parallela: l’adolescente vagheggia gli anni in cui sarà felice, ignorando che cosa lo attenda. Sarebbe meglio se leggesse ed assimilasse l’insegnamento contenuto nella poesia “Il sabato del villaggio”: non solo prima o poi verrà “il dì di festa”, ma forse qualcuno gli farà la festa.
A volte si ha l’impressione che all’universo non soggiaccia l’irrazionalità, poiché una struttura siffatta sarebbe probabilistica e distribuirebbe rose e spine in modo più o meno equivalente, ma una razionalità al contrario.
Un dubbio più che cartesiano ci impone di dubitare delle promised lands, ci costringe non a credere, ma a cercare varchi eventuali, cardini che potrebbero cedere, brecce suscettibili di allargarsi.
Forse non risusciteremo, non continueremo a vivere in un altro “luogo”: spezzatosi il breve arco della vita, si sprofonda nel nulla. Lo stesso Dio potrebbe essere veramente, come opina Kerner, per la sua stessa natura, estraneo, volente o nolente, alle miserevoli vicende umane e non solo umane. Perché mai le nostre piccole vite dovrebbero essere tanto importanti in questo cosmo sconfinato e muto?
Un giorno il sole affonderà nel glaciale oceano di una notte infinita per non risorgere più.
Pubblicato da Zret
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Sunday, December 27, 2009
War flames
http://zret.blogspot.com/2009/12/war-flames.html
War flames

In Afghanistan abbiamo compiuto dei sacrifici umani.(?) (S. Berlusconi)
Gli analisti oggi discutono di guerra "asimmetrica", un conflitto contro un nemico inafferrabile, subdolo: ma la definizione di "guerra asimmetrica" è solo un'altra ipocrita menzogna dei burattini che hanno appreso perfettamente la retorica orwelliana della "guerra è pace" giù giù fino alla "guerra giusta" propugnata dal lussurioso ladro di pere.
Com' è possibile confidare anche solo per un istante in queste classi dirigenti composte, nel migliore dei casi da ignavi e, quasi sempre, da satrapi sanguinari? In verità, i mercanti di morte, tutti uniti ed affiatati, hanno inventato i nemici per trascinare il pianeta nell'abisso della distruzione. Nessuno studente islamico in Afghanistan combatte le forze della coalizione: sterminata da tempo la resistenza ora, soldati innocentemente feroci, massacrano i loro commilitoni, senza saperlo. Oggi non si combattono guerre civili, ma guerre contro i civili: i loro corpi dilaniati da bombe "intelligenti", da ordigni di candidati manciuriani, giacciono nelle strade tra nugoli di mosche, in stagni di putridume. Il grido muto delle madri si schianta contro un cielo di piombo.
Chi arma i belligeranti? Banchieri in doppio petto, pingui porporati, presidenti "patrioti"... Nel mondo si dilapida un milione di dollari al minuto in spese militari: ecco perché tutti quelli che (politici, economisti, papi...) ciarlano di pace non sono credibili e suscitano solo infinito disgusto per la loro zuccherosa affettazione.
Guerra elettronica, guerra codarda combattuta da vigliacchi con i loro aerei radar e strumentazioni sofisticate per trucidare bambini inermi.
Ogni conflitto ne genera altri in una sequela infinita. Le superpotenze non mirano a vincere le guerre (come si potrebbe poi vincere, se l'avversario non esiste?), ma a straziare intere nazioni, a distruggere, ad atterrire le popolazioni. "Hanno fatto un deserto e lo chiamano pace".
La retorica bellicista esercita sempre il suo fascino sinistro sul filisteo geloso del suo unto benessere. Questa retorica martellante, ammantata di orpelli, ritmata da marce marziali, è il basso fondamentale del nostro mondo, l'unica tragica certezza in una selva di dubbi.
Alessandro Magno mise a repentaglio la sua stessa vita, pugnando in prima fila, con eroismo ed intrepidezza. Oggi i guerrafondai mandano al fronte giovani disoccupati: tornano storpi e pazzi, se tornano...
Quando l'ultimo taliban sarà snidato dalla sua grotta tra gli aridi monti afghani, allora i missili saranno puntati contro le stelle.
Fino a quando non sarà annientata questa genia di guerrafondai, avidi e crudeli, sulla Terra non si potrà costruire una società fondata sulla libertà e sulla rettitudine.
Intanto, si insegni a scuola, la fucina dei valori, il patriottismo: "Il libro in una mano, la bomba nell'altra".
Gli analisti oggi discutono di guerra "asimmetrica", un conflitto contro un nemico inafferrabile, subdolo: ma la definizione di "guerra asimmetrica" è solo un'altra ipocrita menzogna dei burattini che hanno appreso perfettamente la retorica orwelliana della "guerra è pace" giù giù fino alla "guerra giusta" propugnata dal lussurioso ladro di pere.
Com' è possibile confidare anche solo per un istante in queste classi dirigenti composte, nel migliore dei casi da ignavi e, quasi sempre, da satrapi sanguinari? In verità, i mercanti di morte, tutti uniti ed affiatati, hanno inventato i nemici per trascinare il pianeta nell'abisso della distruzione. Nessuno studente islamico in Afghanistan combatte le forze della coalizione: sterminata da tempo la resistenza ora, soldati innocentemente feroci, massacrano i loro commilitoni, senza saperlo. Oggi non si combattono guerre civili, ma guerre contro i civili: i loro corpi dilaniati da bombe "intelligenti", da ordigni di candidati manciuriani, giacciono nelle strade tra nugoli di mosche, in stagni di putridume. Il grido muto delle madri si schianta contro un cielo di piombo.
Chi arma i belligeranti? Banchieri in doppio petto, pingui porporati, presidenti "patrioti"... Nel mondo si dilapida un milione di dollari al minuto in spese militari: ecco perché tutti quelli che (politici, economisti, papi...) ciarlano di pace non sono credibili e suscitano solo infinito disgusto per la loro zuccherosa affettazione.
Guerra elettronica, guerra codarda combattuta da vigliacchi con i loro aerei radar e strumentazioni sofisticate per trucidare bambini inermi.
Ogni conflitto ne genera altri in una sequela infinita. Le superpotenze non mirano a vincere le guerre (come si potrebbe poi vincere, se l'avversario non esiste?), ma a straziare intere nazioni, a distruggere, ad atterrire le popolazioni. "Hanno fatto un deserto e lo chiamano pace".
La retorica bellicista esercita sempre il suo fascino sinistro sul filisteo geloso del suo unto benessere. Questa retorica martellante, ammantata di orpelli, ritmata da marce marziali, è il basso fondamentale del nostro mondo, l'unica tragica certezza in una selva di dubbi.
Alessandro Magno mise a repentaglio la sua stessa vita, pugnando in prima fila, con eroismo ed intrepidezza. Oggi i guerrafondai mandano al fronte giovani disoccupati: tornano storpi e pazzi, se tornano...
Quando l'ultimo taliban sarà snidato dalla sua grotta tra gli aridi monti afghani, allora i missili saranno puntati contro le stelle.
Fino a quando non sarà annientata questa genia di guerrafondai, avidi e crudeli, sulla Terra non si potrà costruire una società fondata sulla libertà e sulla rettitudine.
Intanto, si insegni a scuola, la fucina dei valori, il patriottismo: "Il libro in una mano, la bomba nell'altra".
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In tutto questo dolore che continua a perpetrarsi va giustamente ricercato nella scuola e nell'istruzione ai veri valori che vengono soffocati dalle false mire economiche a cui i ragazzi sono sottoposti.
Il romanzo manzoniano, è stato l'antologia scolastica [l'antologia era un'altra cosa]di mio figlio negli anni 80 e ancora prima l'Iliade e l'Odissea di Omero lo è stata per me negli anni 60. [vedi sopra, ignorante]
Oggi siamo privi di riferimenti, una scuola in decadenza che non porta a nulla se non all'edonismo che lascia ben poco della storia filosofica del passato, ammantandola di una coperta vetusta atta a coprire per non far risvegliare le menti sempre più ottunde e obnubilate [altro esperto] da riti e miti che non ci appartengono come l'appena tragica festa Halloween, una festa celtica, festa dell'occulto che non ci appartiene, che più o meno si riferisce a "Offri o soffri?", [più o meno una fava, non era 'dolcetto o scherzetto'? E che cazzo c'entra Halloween, innanzitutto?] beh la sofferenza c'è di sicuro e qualche vita è stata immolata per questa festa priva di ogni senso logico.
Il vero senso di questa festa va ricercato nei culti romani dei morti e nella raccolta dei semi, che nulla hanno a che vedere con il macabro e satanico rito che è stato importato da oltreoceano.