L'immensa sputtanata a Zelig

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Scopo del Blog

Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.

Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.

Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.

Ciao e grazie della visita.

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Thursday, July 10, 2014

La morte di Dio

http://zret.blogspot.it/2014/07/la-morte-di-dio.html

La morte di Dio

Monday, January 13, 2014

E’ possibile uscire da un sistema socio-economico infernale?


http://zret.blogspot.com/2014/01/e-possibile-uscire-da-un-sistema-socio.html

E’ possibile uscire da un sistema socio-economico infernale?

La corruzione più grave non è forse quella che affligge il consorzio umano e l’individuo, ma quella che snatura la lingua. Nel nostro tempo quasi sempre le parole sono usate a vanvera: imperversa il termine “teoria” impiegato a sproposito, ma le cose non vanno meglio con l’aggettivo “politico”, considerato addirittura un insulto, laddove la politica vera, ossia l’amministrazione della pòlis nell’interesse della collettività è dottrina nobilissima. Che pensare poi del vocabolo “comunista” oggidì sinonimo di “appestato” o di “cannibale” con particolare predilezione per i bambini o di “carnefice”?

Lungi da me impegnarmi in una difesa dell’ideologia socialista (tra l’altro socialismo e comunismo non sono voci intercambiabili), ma credo che, se mai sorgerà una società migliore di questa (non perfetta), essa sarà la negazione del vigente sistema fondato sullo sfruttamento sistematico ed indiscriminato degli uomini, degli animali, delle piante. Essa sarà il superamento di un modello incrostato sul profitto, l’usura, la speculazione, l’accumulo, il mercimonio…

Il lavoro stesso non sarà più lavoro (dal latino labor), ossia fatica, sforzo, ma qualcosa di profondamente diverso. Karl Marx – qui sia chiaro che non intendiamo propugnare in toto la sua Ideenkleid, ma anche in un campo di “erbacce” troveremo delle piante medicinali – descrive il lavoro nel mondo da lui vagheggiato come un’attività creativa, appagante con cui l’individuo plasma la materia o elabora idee, sviluppando la manualità e l’inventiva. E’ un’occupazione gratificante, artigianale o intellettuale, emancipata dalla ripetizione meccanica, dall’obbligo di produrre per il capitalista ed il mercato, dalla necessità di racimolare un po’ di soldi utili solo per sopravvivere all’interno della spirale perversa “produci, consuma, crepa”. Dimenticavo: “Paga le tasse ad uno stato esoso, insaziabile, iniquo e guerrafondaio”. Il lavoratore inoltre non è più defraudato dell’oggetto che ha costruito. Il prodotto, recuperando così il valore d’uso, diventa valore.

Non solo, nella società comunitaria ciascuno può decidere di cambiare mestiere o professione ogni qual volta gli aggrada. Oggi è agricoltore, domani vasaio, dopodomani scultore, posdomani regista. E’ naturale che siamo al cospetto di un’utopia, ma non sarebbe auspicabile provare a compiere almeno in parte tale progetto? Preferiamo forse l’attuale struttura socio-economica? Teniamocela, ma non lamentiamoci più.

Si dovrebbe tentare di promuovere una pòlis ispirata ai valori del sostegno reciproco, della condivisione, dello scambio di idee, di beni e risorse (NON merci!) dove il denaro o non è più adoperato oppure è un mero strumento per le transazioni e NON una merce. Erano questi gli ideali di talune comunità antiche e medievali: si pensi ai Nazirei, alle chiese paoline ed ai cenobi medievali. Che siano principi difficili da realizzare e da mantenere è vero: si corre sempre il rischio che si manifestino discordie tra gli appartenenti alla collettività. Incombe poi il pericolo che serpeggi la tentazione di ripristinare un organismo di tipo statale, ossia oppressivo. Lo Stato, espulso dalla porta, rientrerebbe dalla finestra. Questo è una minaccia immane, spaventosa: Nietzsche ci insegna che lo Stato è un mostro e Gramsci ci ammonisce che “ogni Stato è dittatura”.[1]

L’essere umano è sempre essere umano, con i tutti i suoi pregi ed i suoi limiti. Alcuni autori – penso, ad esempio, a Wilhelm Reich - hanno additato dei modelli decorosi. Reich, che fu fiero detrattore dello statalismo sia nelle sembianze del “social-comunismo” sia in quelle del “liberalismo”, auspica una rigenerazione del singolo come presupposto per il miglioramento del corpus sociale.

Possiamo ostinarci ad aggredire la classe di burattini ventriloqui, possiamo continuare con le giaculatorie o cercare, nel nostro piccolo, qualche possibile rimedio, se non è troppo tardi…

Gli schiavi agognano una schiavitù sempre più coercitiva: così, invece di concepire e provare a delineare un prototipo sociale nuovo, impetrano spiccioli da uno Stato-Leviatano che elemosina ai disperati qualche baiocco, purché si stringano viepiù i ceppi agli Iloti.

La palingenesi, sempre che essa sia possibile, comincia dalla depurazione del linguaggio, quindi dalla cultura e non può prescindere da un totale azzeramento della classe “politica” pullulante di buffoni e di parassiti. Rifiutiamoci di votarli e pure di definire “comunisti” Matteo Renzi e la sua claque: ammesso e non concesso che si possa attribuire un aggettivo qualsiasi al “nulla costellato di nei” e agli altri inutili idioti di “centro”, di “destra” e di “sinistra”, potremo affibbiare loro l’epiteto di plutocrati, imbroglioni, maggiordomi dei banchieri, ciarlatani, impostori, sfruttatori, predoni, tagliagole… ma essi non sono “comunisti”, anche perché semplicemente non capiscono un’acca di politica e di economia, non sono, non esistono.

Ancora un paio di considerazioni.

Negli Stati Uniti d’America alcuni intellettuali e movimenti politici accusano Barack Obama - Barry Soetoro di essere “comunista” e di voler instaurare una compagine “comunista”. Siamo precisi: quel pu-pazzo lì è appunto un pu-pazzo incapace di intendere e di volere. E’ vero, però, che le élites che controllano gli Stati Uniti mirano a trasformarli in una tirannide di tipo socialisteggiante, dove del socialismo si estremizza il ruolo opprimente dello Stato teso a controllare tutto e tutti. Allora si potrebbe concludere che Obama è un fantoccio cui gli apparati hanno assegnato il compito di portare la Federazione verso una tirannia ammantata di simboli e di slogan socialisteggianti.

Di recente un amico si è trasferito in Venezuela: dal suo resoconto credo di arguire che il governo di Caracas, con Chavez ed il suo successore, abbia favorito grosso modo una commistione tra social-comunismo (ad esempio, calmiere del potere centrale sui prezzi dei beni primari, gratuità dei servizi) e sistema rappresentativo. Non esprimo un giudizio sul merito: mi limito ad osservare che qualcosa del quadro venezuelano è apprezzabile, mentre altri aspetti non lo sono. L’osceno connubio tra autocrazia ed ultracapitalismo, connubio che connota l’Occidente, non ha ancora devastato alcuni paesi sud-americani. Non sono il paradiso in terra, ma neppure l’inferno statunitense, italiano, greco, portoghese etc., un inferno tanto più demoniaco, quanto più è dipinto come il “migliore dei mondi possibili”.

[1] Dunque si potrebbe desumere qualche suggerimento dalla teoria politica di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, in primis l’antimilitarismo, non certo dai fautori della dittatura del proletariato né dai propugnatori dello statalismo invadente tipico dei paesi scandinavi. I leader della Spartakusbund non a caso furono fortemente critici nei confronti di Lenin, della cui ideologia e prassi sùbito compresero la deriva liberticida, prodromo del totalitarismo stalinista.

Articolo Letamaio correlato: C. Penna, I soldi non crescono sugli alberi, 2014

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Monday, September 30, 2013

Stato, leggi, cittadini

http://zret.blogspot.co.uk/2013/09/stato-leggi-cittadini.htm

 Stato, leggi, cittadini

"Ogni stato è una dittatura". (A. Gramsci)

"Si chiama Stato il più gelido di tutti i gelidi mostri. Esso è gelido anche quando mente; e questa menzogna gli striscia fuori di bocca: “Io, lo Stato, sono il popolo”. (F. Nietzsche)

Gli uomini e le donne degni di tale nome ammettono non lo Stato, ma la società. “Società” proviene dal latino societas che vale letteralmente “alleanza”. Essa è dunque una lega tra persone che si riconoscono in un complesso di valori e che perseguono fini condivisi. Simile è il concetto aristotelico di polis che non è Stato, ma comunità di cittadini (politai).

Lo Stato, in quanto strumento di oppressione di una classe su un’altra, non può ottenere il consenso dei cittadini onesti che apprezzano le regole, ma esecrano le norme.

Nel momento in cui l’apparato statale vilipende le leggi che esso stesso ha promulgato, nel momento in cui calpesta la Costituzione di cui ipocritamente ama fregiarsi, gli uomini probi devono denunciare l’indole perversa della dittatura. E’ nel loro diritto contestare il governo che, da struttura amministrativa, sia degenerato nell’illegittimità e nella tirannide. D’altronde i ministri (dal latino minister, servo, connesso a minus, meno) sono letteralmente i “servitori del popolo”: essi dipendono dalla nazione e non viceversa.

Il celebre processo di Socrate, conclusosi con la condanna a morte del filosofo nel 399 a.C., ci è d’insegnamento. Socrate, conscio della sua rettitudine, non implora la clemenza dai giudici che si accingono a pronunciare il verdetto, ma rivendica, dichiarata senz’altro la sua innocenza, di essere mantenuto a spese della polis.

Gli uomini liberi ed intemerati, infatti, danno lustro alla collettività e la cementano. Allo stesso regime, sotto parvenze di democrazia, corre l’obbligo di proteggere e sostenere economicamente i cives esemplari. Infatti, poiché il regime perpetra, dietro il paravento della “giustizia” delitti innominabili, è destinato, prima o poi, ad essere rovesciato. Quando la tirannide sarà sovvertita, solo l’aver rispettato ed onorato i cittadini integri porrà al riparo i despoti da una punizione indiscriminata.

Infine il valore dei probi viri, essendo incommensurabile, deve essere affermato da tutti anche da chi, come gli appartenenti al sistema, non ha alcun valore.

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Wednesday, August 15, 2012

Professione fede

http://zret.blogspot.it/2012/08/professione-fede.html

Professione fede

Nel paese dei sogni

E’ nella cultura popolare che sopravvive oggi una fede ingenua nell’alterità e nel significato. Si pensi a quelle persone, di solito donne anziane, che ricordano perfettamente i sogni: di fronte ad un uditorio formato per lo più da increduli, non solo li raccontano, ma li interpretano, con un’istintiva conoscenza degli archetipi degna di un antropologo. Non di rado i sogni sono profetici e riguardano i defunti da cui si ricevono comunicazioni destinate ai “vivi”. I cosiddetti scettici obiettano che sono coincidenze: alcuni eventi sognati si sono adempiuti, ma molti altri no. Altri astanti, però, sono incuriositi ed inclini a ritenere che queste donne abbiano qualche dote: le ascoltano attenti, come si ascolta un oracolo.

E’ una realtà paesana di credenze e di corrispondenze, in cui la morte è addomesticata, esorcizzata ed il caso costretto a seguire un percorso, dove la magia coesiste con un cattolicesimo popolato di santi, madonne ed angeli custodi. In questo mondo agricolo-pastorale, ormai quasi del tutto scomparso, non si avverte alcuna incongruenza tra riti paganeggianti ed i dogmi della religione, poiché le contraddizioni non vi trovano cittadinanza. Così gli eventi obbediscono ad una ratio. Non ci si accorge che gli avvenimenti non paiono ottemperare ad una logica, almeno non alla logica rassicurante cui vorremmo si attenessero. Ivi il male stesso è inscritto in un disegno che, se non lo giustifica, lo spiega ora come colpa ancestrale ora come malocchio o influsso demoniaco.

Di questa fede vernacolare nel senso è rimasta traccia anche nella nostra società secolarizzata, sotto forma di superstizione o di bisogno disperato di una risposta. Così, quando muore un adolescente, i suoi coetanei, la cui esistenza conosce per lo più l’effimero divertimento, scoprono improvvisamente la sfera spirituale: il ragazzo o la ragazza, la cui vita si è spezzata, è salito in cielo, come angelo, vegliando da lassù sui suoi amici e compagni di scuola. Il luogo del decesso diventa un piccolo sacrario con fotografie, souvenirs, fiori che presto appassiranno… E’ ovvio che è una religiosità estemporanea e consumistica, destinata a perdersi quasi sempre nel turbinio delle “cotte” e delle trasgressive serate in discoteca.

Qualcuno, fortunatamente, è sfiorato da domande abissali: perché si vive? Perché si soffre? Perché si muore? E’ qui che le risposte rischiano di essere più dannose degli strazianti interrogativi. Arriva subito il sacerdote che ciancia di peccato, di redenzione, di libero arbitrio, di mistero della fede o, al contrario, il razionalista che liquida ogni problema, chiamando in causa la natura che è così perché è così.

Si resta annichiliti: crolla il mondo e, come insegna Nietzsche, Dio muore. Ricordo che, qualche anno addietro, alcuni studenti all’esame di stato, illustrando il pensiero del filosofo tedesco, citavano “la morte di Dio”. Si affrettavano, però, come per timore di essere considerati sacrileghi, a precisare che la morte di Dio è l’eclissi dei valori tradizionali, quasi non fosse soprattutto la constatazione che l’universo è irrazionale. L’ateismo è ancora un tabù fra la last-lost generation.

In genere si vive (si vive?), ignorando le questioni capitali, salvo occuparsene, quando un macigno ci cade sulla zucca o ci sbarra la strada. Qualcuno allora si rifugia nella consolazione del dogmatismo: si prende un testo sacro (la Torah, la Bibbia, il Corano… ) e se ne cavano tutte le risoluzioni, persino le previsioni del tempo, come ironizzava tempo fa Samuele Bersani in una canzone.

Superstiti superstizioni

Nel mondo occidentale la fede “cristiana” offre tutti gli appigli: Dio crea il cosmo, le piante, gli animali, infine Adamo ed Eva, che sono il vertice della creazione, perché “fatti ad immagine e somiglianza” dell’Altissimo. E’ tutto idilliaco, quando arriva il serpente a rovinare tutto etc. etc. Per fortuna poi Dio s’incarna in Cristo, redime l’umanità, sconfigge il peccato, anche se per il vero happy end bisogna attendere il Giudizio universale, quando finalmente, dopo tutta questa faticaccia, si andrà a dormire: “All'urtimo uscirà 'na sonajera d'angioli e, come si ss'annassi a letto, smorzeranno li lumi e bona sera”.(Giuseppe Gioacchino Belli, Er giorno der giudizzio)

Ecco, Belli, pescando con arguzia nell'immaginario popolare, evidenzia un tratto tipico delle religioni escatologiche (in ciò simili a molte ideologie, come il marxismo), vale a dire il prospettivismo, la promessa di un tempo in cui trionferanno la verità, la giustizia e la gioia. Gli uomini sono malati: la loro malattia si chiama “sindrome del futuro”. Essi immaginano e pregustano un avvenire radioso che pare non arrivare mai, contemplano incantati un orizzonte seducente, ma inattingibile.

Ammettiamo pure che davvero ci aspetti un avvenire così luminoso: è qui in questo presente eterno ed eternato nell’assurdo che è necessario essere felici. I profeti (anche il Messia) rispondono: “presto” che, nel loro linguaggio nebuloso, significa “mai”. “Se non ora, quando?”

Ecco la fede, più che azzardo, scommessa (Pascal), è follia. E’ folle quel “credo quia absurdum” del fanatico e misogino Tertulliano, poiché, se è opportuno aprirsi con la mente ed il cuore all’inimmaginabile, al fantastico, è un delitto ripudiare l’intelletto, la capacità di discernimento. Sia chiaro: non si intende ridurre l’intera realtà ad un meccanismo che si muove solo per muovere sé stesso. Oltre i fenomeni, si slargano territori che neppure possiamo concepire, ma nego che le facili teodicee, le spiegazioni confortanti siano d’aiuto e che siano plausibili. Sono simili, infatti, a quei vissuti onirici che interpretati in modo semplice, di una semplicità infantile, perdono la loro aura, il loro afflato. Meglio il silenzio di tante parole vuote. Meglio restare nel guado che approdare al lido delle conclusioni rassicuranti ma false. Siamo simboli, ossia esseri dimezzati ed anche delle verità possediamo solo una parte: dobbiamo trovare l’altra che si incastri. La troveremo mai? Forse è più importante cercarla.

Non credo quia absurdum

Sempre a proposito di assurdo, che cosa è più illogico del Male? Per tentare di spiegarlo, si ricorre spesso alle teorie più assurde. Si dimentica inoltre che il mysterium iniquitatis, oltre ad essere sciaguratamente irragionevole e straripante, è anche stupido. Il Male è idiozia allo stato puro, spesso perpetrato da idioti: uno tortura un prigioniero, un altro viviseziona una cavia, uno incendia un bosco, un altro massacra un bambino, uno orina su un carcerato, un altro condanna un innocente… Attenzione! Questa non è letteratura macabra: questo e molto altro sta accadendo adesso, mentre leggete codeste righe. Da un punto di vista meramente quantitativo, nella storia, il bene è in netto svantaggio.

Di solito si giustifica Dio, asserendo che comunque le sofferenze umane (di quelle che patiscono animali e piante il Dio biblico non si interessa) sono limitate nella durata nonché eque punizioni dei suoi peccati (le torture infernali, invece, sono interminabili, ma questo è un altro discorso): il Creatore forse, abitando fuori dallo spazio-tempo, non ha una percezione netta di quanto siano incommensurabili gli istanti irrigiditi nel dolore. Quale sia la vera origine del peccato originale non si sa.

Molti lo definiscono Padre: egli tempra la sua discendenza mediante le avversità, ma forse est modus in rebus. Un esempio: un genitore è con il figlio il piccolo in un parco, dove stanno passeggiando. All’improvviso un cane, divincolandosi dal guinzaglio del padrone, si avventa contro il bimbo e lo azzanna alla nuca. Come si comporta il padre? Resta indifferente, perché pensa A: se mio figlio soffre, è uno strazio temporaneo; B: se il pargolo muore dissanguato o per qualche infezione, è lo stesso, giacché vita e morte sono illusioni. Tutto è maya: la materia non esiste e ciò che non esiste non può patire. Con questa parabola che alcuni reputeranno blasfema, vorrei alludere a come mi pare, pur dalla mia angolazione limitatissima, si comporti a volte Dio.

Ricordo una scena di una pellicola ispirata ad una vicenda realmente accaduta. Alcuni naufraghi, uomini e donne, annaspano in mare aperto ormai da molte ore e non hanno né la possibilità di risalire sul natante né molte speranze che qualcuno li avvisti per soccorrerli. Una donna comincia a pregare Dio affinché li aiuti; un’altra la ammonisce, tuonando che solo ora ella implora il Signore, adesso che è in una situazione senza via d’uscita. La fulmina infine rammentandole che ogni giorno in tutto il pianeta milioni di persone si trovano in condizioni disperate, senza che Dio si degni di intervenire. E’ vero che esistono dei casi in cui sembra che un’azione soprannaturale sia stata decisiva per salvare delle vite, ma non sono la norma. E’ evidente che la vera fede, sempre che abbia un senso riferirsi alla fede, va fondata su basi più solide e non su accorate (ed inascoltate) invocazioni.

Pregare è dunque umano, peculiare degli uomini che sono attanagliati dallo sconforto. Se Dio è imperfetto, le sue creature lo sono ancora di più. Forse è questa la “somiglianza” biblica.

Wednesday, March 14, 2012

Rinascimento e morte dell’uomo

http://zret.blogspot.com/2012/03/rinascimento-e-morte-delluomo.html

Rinascimento e morte dell’uomo

Molti uomini di oggi non hanno più neppure il coraggio della propria viltà.

"L'umanità non presenta un’evoluzione verso qualcosa di migliore o di più forte o di più elevato nel modo in cui oggi questo viene creduto. Il 'progresso’ è semplicemente un'idea moderna, cioè un'idea falsa. L'Europeo di oggi resta, nel suo valore, profondamente al di sotto dell'Europeo del Rinascimento; la prosecuzione di uno sviluppo non è assolutamente, per una qualsivoglia necessià, elevazione, potenziamento, consolidamento."(F. Nietzsche, L'Anticristo) Le parole del filosofo tedesco centrano il bersaglio: l’idea di progresso è uno pseudo-mito con cui abbiamo plastificato la nostra età tecnotronica. Vero è anche l’uomo rinascimentale fu superiore all’uomo contemporaneo: persino l’uomo del volgo era meno volgare del più distinto scienziatodi oggi.

Sebbene la cultura umanistico-rinascimentale vagheggi appunto una rinascenza dell’età classica, in realtà plasma una nuova civiltà il cui il valore precipuo risiede nella continuità-discontinuità con l’antico più che nella sua meccanica rivisitazione. Un esempio per tutti: mentre artisti e teorici educano l’occhio e la mente per costruire la prospettiva centrale, non riscoprono una tecnica pristina (la prospettiva antica era ottica ed empirica, non matematica), ma tracciano inedite coordinate visive e figurative.

E’ anche indubbio che la temperie rinascimentale riprende e riannoda i fili dispersi della Tradizione, rileggendola, però, alla luce di sistemi in fieri e, in una certa misura, di esigenze contingenti.

Ne scaturisce un mondo fecondo, versatile, dinamico, in cui le polarità dello spirito umano sono spesso conciliate. Molti intellettuali dell’epoca vivono una vita breve, ma intensa: essi bruciano le esperienze culturali più disparate, generando una fiammata che illumina il periodo tra XV e XVI secolo, con un barlume che rischiara la storia ancora per qualche decennio.

Nella storia, però, agiscono forze disumane che conducono l’umanità verso il baratro. Queste energie distruttive serpeggiavano già nell’Europa trecentesca, specialmente sotto la forma del mercantilismo (“la gente avida di sùbiti guadagni”). Così, intanto che l’Europa risplende per il lampo dei genii (pittori, architetti, poeti, scienziati…), il tarlo dell’usura rode i patrimoni e le coscienze.

Non è tuttavia solo la mentalità borghese a corrodere la marmorea bellezza della civiltà rinascimentale, poiché alcune ombre sono proiettate dalla luce stessa della razionalità. E’ destino delle epoche più inclini alla logica, nutrire in sé il delirio, l’aberrazione. Questo vale per il cosiddetto “secolo dei lumi”, ma in parte pure per il Rinascimento che non può soffocare la parte ctonia dell’uomo. La stessa pittura impeccabile e rigorosa di Piero della Francesca, pittura che non è un’immagine verosimile del reale, ma un’idealizzazione matematica, non eclissa, se non per una breve stagione, cupi orizzonti. L’idolatria della scienza, intesa come strumento di potere, è destinata a condurre all’hybris di Francis Bacon, al rigido dualismo di Cartesio. L’equilibrio tra natura e storia si rompe e l’uomo si atteggia a super-uomo, incarnando caratteristiche sub-umane.

Che l’equilibrio sia fragile è comunque dimostrato dagli atteggiamenti ondivaghi talora fino alla contraddizione di alcuni umanisti: si pensi a Leon Battista Alberti sulla cui nitida, armoniosa architettura, già germinano le disillusioni del "Momo". E’ in nuce la tendenza che porta alla riflessione sulla melancolia, sull’intellettuale saturnino: è la visione che disgrega dall’interno le certezze (e le illusioni) umanistiche. Nelle arti figurative soprattutto alle olimpiche creazioni rinascimentali, reagisce il Manierismo (Pontormo, Rosso Fiorentino, Giulio Romano…) con il suo gusto eccentrico, bizzarro, l’insofferenza per la regola e la misura. Lo stesso “quadrato” Piero della Francesca, con "La flagellazione di Cristo”, dipinge uno dei quadri più enigmatici e densi di sapere esoterico dell’intero Rinascimento. Essoterismo e filigrana iniziatica convivono in molti autori. L’arte (pittori ferraresi) e la scienza si sostanziano di valori alchemici, astrologici, magici, fino alla tabula rasa del simbolico operata da Galilei e dai suoi epigoni. Il movimento centrifugo non degrada l’uomo, piuttosto lo riconduce ad una concezione più realistica e sofferta, poiché l’antico non può sic et simpliciter rinascere. Inoltre l’uomo decade se oblia la scintilla divina, ma specialmente se crede di innalzarsi a dio.

E’ dunque un bilanciamento precario ed effimero a donare all’Europa un periodo splendido: la caduca concilazione tra ragione e follia, tra Cristianesimo e Neoplatonismo, tra umanesimo cortigiano ed umanesimo civile, tra città e contado, tra disinteresse ed amministrazione ocutata del denaro… si spezza. Soprattutto si perde la simbiosi tra teoria e prassi, sicché da un lato si sviluppano uomini tutti mentali, dall’altro esseri tutti ilici: la frattura tra anima e corpo produce creature scisse, monche, in cui le pulsioni naturali non sono sublimate ma represse. [1]

La coscienza un po’ alla volta si intorpidisce, vuoi per il freddo razionalismo che culmina in Cartesio vuoi per la raison d’état vuoi per il fanatismo luterano-calvinista e controriformistico, istanze cui è costretta ad adeguarsi la società, nonostante nobili eccezioni e nobili ribellioni (Bruno, Caravaggio etc.).

Più dell’irrazionalità che s’insinua nelle concezioni estetiche e negli animi, è la logica del dominio e del profitto ad oscurare il senso: la Banca svedese è fondata nel 1656 e la Banca d’Inghilterra nel 1694. Il potere del denaro, alimentato da un’oscura pulsione di morte, si rafforza sino a soggiogare l’interiorità prima che il mondo. Il dominio suscita rivolte: la rivolta romantica e, più tardi, quella decadente pur ambigua, esprimono il rifiuto della modernità e dei suoi disvalori, ma ormai ai denari sono saldati, in un invincibile connubio, l’industrialismo e la tecnologia che sono adulterazione della natura lato sensu. Perciò il rifiuto diventa velleitario, impotente. Eppure, nella sua impotenza, oggi più isolata che solitaria, gli uomini (se ancora ne sopravvivono) riscoprono ed affermano l’unica dignità: il culto della verità e della bellezza.

[1] Circa questa frattura si leggano le sagaci osservazioni di Leopardi nello “Zibaldone”.

Articolo correlato: G. Ranella, Il senso della Tradizione, 2012

Sunday, February 19, 2012

Eraclito versus Democrito

http://zret.blogspot.com/2012/02/eraclito-versus-democrito.html

Eraclito versus Democrito

Si racconta che Eraclito (Efeso, 550 a.C. circa, 480 a. C. circa) rispondesse allo spettacolo del mondo con il pianto, in netto contrasto con la solarità di Democrito (Abdera, Tracia, 460 circa, 370 a.C. circa).

“L’iconografia occidentale ha abbondantemente opposto il riso di Democrito, il poeta dalla scrittura chiara, alle lacrime di Eraclito, il bilioso, soprannominato l’Oscuro. E da Diogene di Sinope a Nietzsche, da Aristippo di Cirene a Michel Foucault, si ritrova, come tratto comune ai materialisti, edonisti ed altri grandi sovversivi della storia delle idee, questa capacità di ridere del mondo così com’è. Ridono solo quelli che prendono il mondo sul serio, proprio perché lo prendono sul serio.” (M. Onfray)

Sono stati scritti molti saggi sul riso come peculiarità dell’uomo (celebre lo studio di Henry Bergson) e, di là dalle differenti interpretazioni, talora forzate, si riconosce che sono proprio le contraddizioni del reale ad accendere la scintilla dell’ironia, della risata catartica, del ghigno amaro, del compiacimento, dell’umorismo pirandelliano.

Ci si chiede se la visione del mondo possa suscitare letizia o tormento. Quale mondo? Quello ancora tollerabile degli antichi o il nostro abominevole? La natura? Si afferma che la natura è perfetta: la considererei efficiente, non perfetta. Se l’universo fosse perfetto… L’umanità? L’umanità è talmente antinomica che non mi sorprende di constatare quali impulsi ambivalenti, irriducibili tra loro ci leghino ad essa e, nel contempo, ce ne separino. Prendere sul serio il mondo, come scrive Michel Onfray? Se veramente lo prendiamo sul serio, se lo consideriamo nella sua severità, abbiamo fondati motivi di dolerci: il riso rischia di essere la reazione istrionica di fronte all’incomprensibilità dell’essere. Mi pare che alcuni eventi siano refrattari al riso e non solo perché tragici ed assurdi (si entri in un nosocomio, in un carcere, in un ospizio, in un macello…), ma poiché denunciano l’insufficienza della condizione umana.

Così, paradossalmente, è più ironico Eraclito (ironia è proprio coscienza del divario tra reale ed ideale) di Democrito: le lacrime del filosofo efesio sono forse la consapevolezza del contrasto, dell’ineluttabile conflitto (pòlemos) universale. Nietzsche vide in Eraclito l’espressione dell’innocenza dionisiaca del mondo, di là dal bene e dal male, anteriore al declino moralistico socratico-platonico. Dioniso, però, è dio tragico per antonomasia: l’innocenza non è candore. Nel dio nato due volte non si distingue più tra la smorfia di dolore ed il ghigno sardonico.

Il pàthos sa essere grottesco; il ridicolo è patetico. Infine, di fronte a certi casi, che trascendono le opposizioni, resta solo la domanda che subito si congela nel silenzio.

Monday, September 19, 2011

Rancore

http://zret.blogspot.com/2011/09/rancore.html

Rancore

Strange world people kill and people hate and people talk and people kill and still I wonder wonder why why. (Ke)

Dalle incomprensioni e dalle inezie provengono i mali maggiori.

Qualche giorno addietro è morto nel mare prospiciente Ventimiglia un giovane. Stava compiendo una battuta di pesca in apnea, quando, per tentare di liberare la fiocina rimasta incagliata sul fondale, arpione con cui aveva uncinato uno scorfano, è stato colto da una sincope sicché non è potuto tornare in superficie. E’ purtroppo una delle tante tragedie che gettano nella disperazione parenti ed amici. Il luttuoso evento è poi tanto più atroce, se si considera che è una fine prematura.

Eppure questa disgrazia unisce, sebbene – lo ammetto – in un rapporto squilibrato, due vittime: anche lo scorfano arpionato ha incontrato una morte orribile, dopo una lunga agonia. Dobbiamo riconoscere che un unico inspiegabile destino di sofferenza affratella gli esseri viventi, carnefici e vittime, a tal punto che il carnefice di oggi è la vittima di domani o viceversa, a tal punto che non si sa più chi possa reputarsi davvero innocente. Così, forse, prima o dopo, come sostiene qualcuno, pagheremo il fio con usura dei nostri sbagli ed è plausibile che alcuni paghino lo scotto (anche di altre esistenze?) in anticipo. Del giovane ligure resteranno le fotografie che lo immortalano, l’espressione orgogliosa, con i suoi sanguinari trofei di pesca.

In verità, agli uomini non è concesso sconfiggere il male che domina la Terra: è solo possibile tentare di alleviare qualche sofferenza e cercare di rendere il mondo un po’ migliore di quanto non sia, anche con piccoli gesti, se non è dato compiere atti decisivi ed eroici. Tuttavia siamo alacremente impegnati proprio nelle azioni contrarie! Nota giustamente William Golding che “l’uomo produce il male, come le api producono il miele”. Così al danno ontologico, ineliminabile, aggiungiamo altri danni. Nella sventura ci accapigliamo, dando il peggio di noi stessi, come ci insegna quel grande moralista che fu Alessandro Manzoni, con l’icastica descrizione dei capponi di Renzo. Nella buona sorte il nostro egoismo si accentua in modo parossistico; nella cattiva ci dividiamo. Nessuna etica ha mai cambiato né mai cambierà lo stato delle cose.

Un filo sottile connette l’epica catastrofe, che miete migliaia di vittime, al dissapore familiare che ci avvelena intere giornate. Siamo sempre di fronte al granitico mistero del dolore, in tutte le sue manifestazioni, con tutta la sua gamma: dalla semplice contrarietà alla disperazione, passando per la delusione, il patimento psicologico, l’amarezza, lo sconforto, il cruccio. Paradossalmente un’immane tragedia talora è più facile da tollerare del rancore sordo di chi pensavamo non fosse capace di nutrire tale acredine, del tradimento di un amico(?): in fondo, la nostra vita scorre “tranquilla” come prima, se non fosse che dentro, qualcosa si è rotto... per sempre.[1]

E’ una sofferenza invisibile che traspare solo in alcuni momenti, in uno sguardo velato di tristezza, nell’improvvisa increspatura della fronte. E’ uno strazio tanto più intollerabile, perché sovente originato da motivi futili. Lascia un solco profondo nell’animo: possiamo perdonare, non dimenticare. L’esperienza non insegna alcunché. Riusciamo a rovinare tutto con il puntiglioso orgoglio.

Ancora più della malvagità annichilisce e delude la meschinità che molti uomini dimostrano: se la scelleratezza ci rende figli del Diavolo, la miseria morale testimonia un vuoto disarmante. Invano abbiamo cercato l’umanità nell’umanità: neppure si può postulare l’esistenza di un dio secondario, genitore di un’umanità tanto arida.

È come se la vita ci fosse stata data in prestito, ma ci comportiamo, quasi ne potessimo disporre ad libitum per sempre, ripetendo errori e ripicche, in una sequenza che non sembra aver fine.

Uomini siffatti da tempo non credono più in Dio: non credono in nulla, se non nel denaro e nell’ego. Neppure Dio – se esiste – crede più in codesti suoi figli. Come dargli torto?


[1] Nietzsche scrive che “gli uomini magnanimi sono incapaci di risentimento”: ha ragione, ma penso che si contino sulle dita di una mano… monca.

Friday, August 19, 2011

La parcellizzazione del potere nella società contemporanea

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La parcellizzazione del potere nella società contemporanea

Nelle sue ultime opere, il filosofo e storico francese Michel Foucault(1926-1984), analizzando la “fisica” dei poteri, ne enuclea una componente fondamentale. Egli non interpreta tanto il potere nella società contemporanea come luogo da cui si dipartono gli ordini e le regole del comportamento, individuale e collettivo, piuttosto è visto come disseminato nel consorzio umano. Esso si alimenta, più che attraverso una repressione diretta, per mezzo dei meccanismi di censura e di autocensura che vengono indotti negli stessi soggetti, garantendo la stabilità dell’ordine.

Così l’establishment si rafforza mediante l’autocontrollo del singolo, ormai ridotto a mero strumento. Secondo Foucault, la sollecitudine antropologica che, a partire dal XVIII secolo e definitivamente con il trascendentalismo kantiano, trasforma l’uomo nel contempo nel soggetto e nell’oggetto del sapere, non celebra l’avvento di un mondo finalmente civile, ma annuncia la prossima morte dell’uomo.

E’ sintomatico che il “cittadino” stia diventando in questi ultimi decenni il censore di sé stesso, oltre che il ferreo vigile degli altri. La pratica della delazione che la propaganda istiga con messaggi in cui si incita a denunciare il nuovo capro espiatorio, l’evasore fiscale, si tradurrà in una spontanea confessione di delitti reali o presunti? Ci pare che questa sia la tendenza: il “cittadino” è schierato in modo del tutto inconsapevole con l’autorità che lo schiaccia, a tal punto che il potere centrale può quasi dissolversi, delegando ai singoli psico-poliziotti l’amministrazione della “giustizia”. Nella Londra sconvolta dai tumulti dell’agosto 2011, sono stati impeccabili sudditi di Sua Maestà, ad affiancare le forze dell'ordine nella caccia ai saccheggiatori. Gli sguardi dei Londinesi si sono così assommati agli obiettivi delle telecamere, formando un gigantesco occhio, simile a quello di un’abnorme mosca bionica. La perfida Albione, ritratta da Orwell, popolata di sicofanti, è il vestibolo del “mondo nuovo”.

Pare che il senso della subordinazione sia stato introiettato, fino a stratificare una “seconda natura”. Nei nuclei familiari, nelle relazioni interpersonali, nelle interazioni educative… si esprimono rapporti di forza e conflitti: agisce in ognuno di noi una forma di sado-masochismo? E’ comunque uno snaturamento antropologico: la celebrazione illuminista dell’uomo si infila in un vicolo cieco ed itera l’impasse in cui era venuto a trovarsi Nietzsche con l’illusorio vagheggiamento dell’Übermensch.

Tramontato Dio, è sorto il nuovo astro, lo stato, uno stato diffuso in modo capillare: non più istituzione verticalizzata, ma trasversale alla società. Intanto, mentre l’amministrazione centrale può eclissarsi, il potere disperso, parcellizzato in una miriade di regioni individuali, si concentra e consolida: la coercizione è ancora necessaria, ma sono alcune minoranze non integrate ad essere sottoposte alla costrizione ed alla punizione; la maggioranza si castra e bandisce (ed impone) il modello della castrazione. Quanto più si è allineati, da un punto di vista sia “culturale” sia comportamentale, con l’ideologia dominante, tanto più ci si sente appagati. L’unica identità possibile è nell’identificazione con il complesso indifferenziato della collettività.

Ciò spiega il successo del “pensiero” unico incarnato dalla “scienza” televisiva: tale “pensiero” elementare, schematico, acritico, soddisfa da un lato il bisogno filisteo della sicurezza conoscitiva (le cose sono razionali, spiegabili e sono come le presenta il divulgatore "scientifico") sia, nell’equazione tra sapere e potere, consente di condividere una frazione del potere, non più appannaggio di gerarchie esterne.

Intanto la rinuncia alla creatività ed all’indagine personale ingrossano le legioni degli schiavi-padroni, degli ignoranti laureati.

Come Luigi XIV, il cittadino benpensante può oggi dichiarare: "L’Etat c’est moi". "Sono io che denuncio l’evasore, sono io che riprendo con la videocamera il bandito, sono io che promuovo iniziative contro i clandestini…". L’azione del singolo precede l’azione del potere primario, la cui apparente latitanza e debolezza spronano l’intraprendenza del “cittadino”.

Vero è che, se il potere è in ogni dove ed abita in ognuno, i centri di resistenza risiedono dappertutto, in quanto l’opposizione coincide con ciò che Foucault denomina l’elemento “plebeo” presente, in linea teorica, in ciascun individuo ed in ciascun gruppo. Tuttavia si ha l’impressione che questo “nocciolo” sia stato ormai, nella stragrande maggioranza dei casi, disintegrato.

L’ultima frontiera rischia di essere l’autodenuncia, neppure per aver trasgredito una delle innumerevoli, assurde, draconiane norme dettate dal sistema, ma semplicemente per il fatto di esistere, delitto di lesa maestà. La vaporizzazione sarà autoinflitta.


Monday, August 15, 2011

I due abissi (o idue ignoranti abissali?)

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I due abissi

Due abissi si spalancano attorno a noi: il nulla che precede la vita ed il nulla che la segue. La vita - se è lecito definire in tale guisa quest'isola di dolore attorniata dall'oceano della noia - è simile ad un breve segmento in una pagina bianca o ad un fiume carsico di cui è visibile solo un tratto del corso?

Bisognerebbe tentare di comprendere per quale motivo a sgomentare l'uomo sia l'ignoto che avvolge il destino dopo la morte, invece del nulla antecedente la nascita. Perché l'uomo aspira alla vita eterna e, nel contempo, la teme? Secondo Schopenauer, non paventiamo la morte, a causa della ragione, ma per via della Voluntas che cieca si protende verso la perenne affermazione di sé stessa. Non nutriamo lo stessa sensazione di vuoto e di vacillamento, se pensiamo al non-essere pre-natale che è anzi un paradiso perduto.

Non so quanto sia ragionevole prefigurarsi una continuazione dell'esperienza terrena in un altro piano o un suo revival tramite la resurrezione. Il fiume della vita si perderà nell'oceano dell'indistinzione, quando gli atomi, di cui siamo composti, si disgregheranno per generare nuovi, infiniti corpi oppure la coscienza, mirabile addensamento in un'identità, è una sostanza imperitura? Forse non ricordiamo le esistenze anteriori e non riusciamo a concepire il viaggio futuro qui o altrove. Non è agevole decidere che cosa augurarsi, ammesso che si possa decidere: se sprofondare nel nulla o permanere. Sileno conosceva la risposta.

Perdurare può essere anche desiderabile, come pensava Nietzsche, giacché "ogni piacere vuole eternità, profonda eternità." Così per la speranza (o chimera) di perpetuare quei pochi istanti di gioia che un fato avaro ci ha elargito nel corso di codesta disavventura terrena, indulgiamo nel pregustare un'eterna beatitudine libera dal tedio e dall'uggia. Eterno rima con interno, ma pure, ahinoi, con inferno.

Balena a volte l'idea che la vagheggiata beatitudine sia un inebriante, inconsapevole nulla, simile a quel silente, sereno cielo che un neonato strappa con il suo pianto inconsolabile.



Wednesday, October 13, 2010

Tears for ears

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Tears for ears

“Non posso fare distinzione tra la musica e le lacrime”. Questa sentenza di Nietzsche non solo imparenta la musica con la malinconia, piuttosto scava in quei momenti in cui l’anima si sporge verso l’abisso là dove arde la voce primigenia. Allora la melodia, come la corda di un arco si tende nell’inaudito. La voce si incrina e, tra gli spazi quasi impercettibili di silenzio, si spezzano le emozioni.

L’estensione vocale diviene più espressiva, quando riesce ad esprimere un’ombra del nulla.

I suoni della natura sono il pulviscolo di note che si sprigiona nell’alito del vento, nello stormire delle fronde, nel fruscio di un ruscello. Questa musica trova la sua acustica perfetta tra le canne d’organo dei tronchi: nei boschi la melopea si diluisce in risonanze misteriose, evocative. Sarà stato anche per tale ragione che Bernardo di Chiaravalle amava ripetere di aver appreso più dagli alberi che dai libri. Sono conoscenze custodite nello scrigno dell’ineffabilità, trasmesse sui fili vibranti di un’armonia.

Musica e lacrime, doloroso binomio. E’ singolare che siano i motivi più elegiaci a trasfondere brividi di vita, forse perché queste melodie si avventurano sul confine tra il senso ed il non-senso. Lì l’esistenza si affaccia sul mistero dell’essenza: Schopenauer [hey, l'ha scritto giusto...] la definiva Wille, Volontà. In bilico tra speranza e sgomento – avrà un significato la sofferenza accidentale dei giorni? – la linea sinuosa e mesta di un canto si specchia nel lago infinito della notte. E’ come se un’eco di nostalgia provenisse dalle infinite distanze del tempo iniziale. Sintonizzandosi su quell’eco, si rivive per un istante il primo respiro.

Musica e lacrime, doloroso, eppure catartico binomio. Se Dio è nella pioggia, la musica della pioggia può essere solo dolente nella sua argentea serenità.



Monday, September 27, 2010

Filologia

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Filologia



Sono sufficienti due esempi: Nietzsche e Michelstaedter. Entrambi si imbatterono nella filologia per negarla. Nietzsche pubblicò la sua prima opera, "La nascita della tragedia dallo spirito della musica", nel 1879: nell'opuscolo l'approccio filologico alla genesi della tragedia greca è già in gran parte superato nella direzione della filosofia. Michelstaedter scrisse “La persuasione e la rettorica”, una singolare tesi di laurea che invece di vertere su questioni erudite, le trascende in un saggio che è una dolorosa, quanto appassionata, analisi della vita e delle sue pungenti contraddizioni.

La filologia, tranne qualche esito eccezionale, è materia da topi di biblioteca, una mummificazione ante mortem. Di fronte alle terribili meraviglie dell'universo, quanti scelgono la via larga del "sapere" inerte ed inutile! L’erudizione fine a sé stessa diventa quasi uno schema di "pensiero", un modo di porsi e di essere, anzi di non essere. Oggi anche quasi tutti gli studiosi e "scienziati" sono filologi: esaurito l'elan, smarrito lo stupore di fronte al mondo, gli scienziati misurano, catalogano, computano. L'indagine muore nella quantità e nella statistica: crolla l’orizzonte umano. Nessuna modanatura filosofica attraversa il gelido mausoleo della "scienza".

Scrive a tale proposito Koiré in "Newtonian studies", 1965: “La scienza abbatté le barriere che separavano cielo e terra: essa realizzò tale unificazione, sostituendo al nostro mondo della qualità e delle percezioni sensibili, il mondo che è il teatro della nostra vita, delle nostre passioni e della nostra morte, un altro mondo, il mondo della quantità, della geometria reificata, nel quale sebbene vi sia posto per ogni cosa, non vi è posto per l’uomo”.

Agli antipodi della filologia, si slargano le terre avventurose dell'Arte, ma la via che conduce in quelle regioni è stretta, ripida ed accidentata. L'Arte esige disciplina sino all'ascesi, solitudine ed abnegazione, pure annullamento di sé per dar voce all'Idea. I veri artisti sono mistici che plasmano il silenzio e ne cavano echi di infinito. Sono scalatori che, toccata la vetta, spaziano con lo sguardo oltre il confine dell'invisibile.

Sulla china si inerpicano i filosofi che, quando oltrepassano il raziocinio, tendono l'arco del pensiero verso l’alto per scoccare il dardo dell'intuizione. Allora la riflessione perde di rigidità per splendere nel fuoco dell'aforisma e della domanda bruciante. La verità, appena proclamata, viene incenerita, l'affermazione provocatoriamente contraddetta.

Il volgo, invece, striscia sul terreno cedevole dei dogmi, prosternato davanti agli "scienziati", servi dei servi del regime.





Pubblicato da Zret

Thursday, September 2, 2010

Del nuovo idolo

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Del nuovo idolo

In una caustica pagina del monumentale “Così parlò Zarathustra”, Nietzsche distrugge lo stato che egli bolla come “nuovo idolo”. Eppure il pensatore tedesco, che con parole implacabili e profetiche demolì il mito dello stato, fu ed è da taluni visto come l’anticipatore dei regimi totalitari. Invero, il filosofo tedesco fu strenuo avversario del potere costituito. Si condividano o no alcune sue idee o tutte, egli resta uno spirito magno, tra l’altro per il coraggio con cui mise a nudo la cattiva coscienza ammantata di perbenismo borghese nonché la miseria del Positivismo trionfante. Nietzsche, a differenza degli “intellettuali” di oggi, organici al sistema, anche e soprattutto quando sfoggiano pose critiche, dichiarò, apertis verbis, la sua esecrazione delle istituzioni che, di là da una facciata di rispettabilità, nascondono un volto sfigurato e turpe. Quanti oggi sono capaci di un’analisi tanto corrosiva ed intemerata? Quanti oggi riescono a coniugare profondità di pensiero ad uno stile affilato e raggiante come folgore?

“Da qualche parte esistono ancora popolazioni e greggi, ma non da noi, fratelli miei; noi abbiamo gli Stati. Stato? Che cosa è mai? Ebbene! Aprite le orecchie, perché sto per dirvi la mia parola sulla morte dei popoli. Stato si chiama il più freddo di tutti i freddi mostri. Freddo anche nel mentire; una menzogna che lingueggia dalla sua bocca: 'Io, lo Stato, sono il popolo. È una menzogna! Creatori erano coloro che crearono i popoli e trasmisero in loro una fede ed un amore: e così servirono la vita. Ma distruttori sono questi che tendono trappole e le chiamano Stato e vi appendono sopra una spada con cento avidità. Dove esiste ancora un vero popolo, questi non ammette Stato, che anzi odia come una iettatura ed un peccato contro il costume e il diritto. […] Lo Stato mente in tutte le lingue circa il bene ed il male: mente, qualunque cosa dica; e anche ciò che ha lo ha rubato. Tutto in lui è falso; con denti rubati morde, il mordace. Persino le sue interiora sono false. La corruzione delle espressioni sia del bene sia del male è il contrassegno dello Stato. Invero, questo contrassegno indica volontà di morte. E in realtà attrae i predicatori di morte! Molti, troppi sono stati messi al mondo: per i superflui è stato creato lo Stato! Guardate, dunque, come esso li alletta, i superflui! Come li inghiottisce e li mastica e li rimastica!

'Sulla terra nulla vi è più grande di me: io sono il dito ordinatore di Dio': così rugge la belva. Cadono in ginocchio non soltanto coloro che hanno lunghi orecchi e vista corta! Ohimé, anche a voi, grandi anime, mormora le sue tristi bugie! Ohimé, individua i cuori ricchi che si sanno prodigare! Sì, ha individuato anche voi, o vincitori dell'antico Dio! Voi vi siete stancati nel combattimento e ora la vostra stanchezza serve al nuovo idolo! 'Desidera circondarsi di eroi e uomini d'onore, il nuovo idolo! Ben volentieri si delizia della luce solare delle coscienze pulite, la fredda bestia!

Tutto vi vuole dare, se voi lo adorate, il nuovo idolo: così acquista la magnificenza delle vostre virtù e lo sguardo dei vostri occhi orgogliosi. E con voi egli vuole adescare le moltitudini in eccesso! È un'opera infernale che così è stata inventata, un cavallo di morte, tintinnante nelle guarnizioni di onorificenze divine! Una morìa per molti è stata così ideata che si pavoneggia come vita: ma in realtà è un servizio reso dal cuore a tutti i predicatori di morte! Ecco lo Stato, dove tutti bevono veleno, buoni e cattivi: lo Stato, dove tutti si perdono, buoni e cattivi: lo Stato, dove il lento suicidio di tutti si chiama 'vita'. Guardateli, questi superflui! Essi si rubano le opere degli inventori ed i tesori dei saggi: chiamano istruzione il loro furto e tutto diviene per causa loro malattia e sconcezza! Guardateli, questi superflui! Sono sempre malati, vomitano la loro collera e la chiamano 'giornale'. Si divorano l'un l'altro e non riescono neppure a digerirsi. Guardateli, questi superflui! Si procurano ricchezze e con queste divengono più poveri. Vogliono autorità e prima ancora la leva del potere, molto denaro; gli impotenti! Guardate come si arrampicano, le agili scimmie! Si avviticchiano l'una sull'altra e così si trascinano nella melma e nell'abisso. Tutti vogliono giungere al trono: questa è la loro follia; come se la felicità fosse sul trono! Spesso sul trono c'è invece la melma; spesso anche il trono è nella melma.

[...] Fuggite sulla strada al cattivo odore! Fuggite l'idolatria dei superflui! Fuggite sulla strada al cattivo odore! Fuggite dal vapori di questi sacrifici umani! Ancora oggi la terra è libera per le grandi anime. Liberi sono anche molti luoghi per i solitari e le anime gemelle, intorno a cui soffia l'odore di tranquilli mari. C'è ancora una vita libera per le grandi anime. Chi poco possiede, tanto meno è posseduto: sia lodata dunque la piccola povertà! Dove lo Stato finisce, comincia l'uomo che non è superfluo: comincia il canto della necessità, la melodia singolare e irrepetibile. Là dove lo Stato finisce, guardate dunque là, fratelli miei! Non vedete l'arcobaleno ed il ponte dell'oltreuomo?"




Friday, August 13, 2010

Lo specchio del destino

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Lo specchio del destino

"Scheggia nella carne" (o "spina" o "pungolo") è l'icastica espressione paolina con cui il filosofo Soren Kierkegaard alluse ad un male oscuro che lo torturò. Come spesso avviene, molti studiosi si sono accaniti per individuare il preciso motivo esistenziale di questa lacerazione, di solito riferendosi alla rottura del fidanzamento con Regine Olsen. E' il consueto appiattimento della filosofia in biografismo. Eppure è l'esistenza in sé (ex-sistenza, ossia apertura verso l'angoscia delle possibilità, la disperazione di fronte all'incognito nonché estromissione dall'essere) a costituire questa scheggia conficcata nel corpo e nell'anima. E' l'esperienza interiore del singolo che, se uomo, beve il calice dell'incomprensibile (benché relativo) sino all'ultima goccia. [1]

Avviene talora che un'improvvisa caduta in un baratro lasci intravedere, dal fondo cupo dell'abisso, il fulgore accecante di una stella: è quanto accadde a Nietzsche, quando introiettò la coscienza della morte di Dio. La morte di Dio non è solo la consapevolezza che le credenze ed i valori tradizionali si sono per sempre eclissati, poiché è la desolante visione del deserto, una volta che si è schiacciati dal peso insostenibile dell'irrazionalità. [2]

E' quanto accadde a Kierkegaard. Con conseguenze simili, anche se sotto un altro cielo, egli dovette soffrire della straziante ferita che non si rimargina. L'aver abbandonato l’astratto e falsamente luminoso Empireo hegeliano per tornare, esule tra la moltitudine, fra gli antri scuri dell'esistere è testimonianza di fedeltà al proprio cuore. L'esistenza è il cuore dell'universo e non la rassicurante dialettica degli opposti che non si oppongono. La vita e la fede sono paradosso: è impossibile aderire a qualsiasi religione positiva, a qualsiasi chiesa-istituzione che pretendono di conciliare l'inconciliabile, di ridurre l'irriducibile in formule "chiare e distinte".

L'alterità ontologica, la distanza incommensurabile tra l'uomo e l'Assoluto implicano un salto disperante, come quello di colui al quale, inseguito da una belva e, senza più vie di fuga, restasse una sola speranza di salvezza: lanciarsi nel vuoto del dirupo innanzi a sé. [3] L'innumerabilità delle scelte fa franare il terreno sotto i piedi. L'incessante movimento delle possibilità genera la paralisi e la stessa libertà umana pare affissarsi nel freddo specchio del destino.

[1] Per Pietro Prini l'acribia dei biografi nel tentativo di individuare la natura di questo dolore kierkegaardiano, nell'ambito di una patologia fisiologica o psichica, non tiene conto del punto più importante della questione. Non era, infatti, la natura del male che poteva costituire una chiave interpretativa del "segreto" di Kierkegaard, ma piuttosto il suo comportamento religioso di fronte ad esso, la sua interpretazione teologico-esistenziale del proprio destino stigmatizzato da quella dolorosa eccezione. Questa "palla di piombo sulle ali" era segnata per lui da un carattere religioso, il senso le derivava dall'essere una realtà cristiana.

[2] Sebbene alcuni interpreti abbiano tentato di dimostrare che la nietzchiana "morte di Dio" non implica la negazione del Creatore, mi pare che non si possa disconoscere che il pensatore tedesco fu ateo.

[3] Si pensi a come è oggi decaduta la riflessione teologica, dimentica della differenza ontologica e della scissione creaturale, là dove Dio è ricondotto ad energia elettromagnetica et similia. Dio è stato trasformato in un cellulare: ironico e conforme approdo per un'umanità che vede nel cellulare un dio.




Sunday, July 11, 2010

Libertà d’esser schiavo: la condizione umana in una pagina di Carlo Michelstaedter

E con questa vi saluto e vado in spiaggia, naturalmente senza respirare.

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Libertà d’esser schiavo: la condizione umana in una pagina di Carlo Michelstaedter

Carlo Michelstaedter (Gorizia, 1887-1910), filosofo, poeta e pittore italiano, è noto specialmente per la sua tesi di laurea, "La persuasione e la rettorica", scritto pubblicato nel 1913, dopo il suicidio dell'autore. La figura di Michelstaedter giganteggia nel panorama della cultura contemporanea per la perspicacia del pensiero e per la lucida demistificazione del sistema. Alcune sue idee, che trovano le loro matrici soprattutto in Schopenauer ed in Leopardi, preludono all'analitica esistenziale di Heidegger e sono accostabili, per la dirompente forza disgregatrice, a fondamentali nuclei del pensiero nietzchiano. M., nel saggio succitato, conduce un serrato confronto critico tra la genuina sapienza pre-socratica e la degenerazione mondana della filosofia, a partire da Platone. L'autore vede il cozzo tra il mondo autentico della persuasione (simile alla volontà di potenza, intesa come appropriazione del destino ed eroica attribuzione di senso all'esistente) ed il complesso fittizio e coercitivo della rettorica, strutturata attraverso le istituzioni (stato, economia, etica, educazione...), sentite come mascheramento e rimozione degli impulsi egoistici dell'uomo. M. vagheggia un'umanità integra che, sotto l'urgenza del dolore, trascenda l'irretimento nella sfera egocentrica per affermare dignità e libertà.

M. spazia, con eccezionale acume, tra innumerevoli temi, mettendo a nudo le contraddizioni e le storture della modernità. Non è neppure pensabile di accennare ai contenuti della tesi: tali e tanti sono i concetti esposti sì da dichiarare l'incommensurabile grandezza di questo intellettuale. La sua grandezza poi risalta ancora di più, se pensiamo ad abili parolai come Croce e Gentile, per giunta sostenitori del potere, "liberale" o "fascista" che fosse. Sui "pensatori" di oggi è bene stendere un pietoso silenzio.

Tra le pagine del testo, strazianti nella loro feroce verità e sconvolgente attualità, segnalerei, almeno, quelle sulla scuola o le considerazioni circa l'ipocrisia del diritto. Propongo all'attenzione dei lettori che - ne sono certo - saranno invogliati a leggere l'intera opera, qualora non l'abbiano già apprezzata, un passo sulla condizione dell'uomo nella società industriale, uomo inteso come essere dimidiato ed alienato. Gli strali di un'amara ironia colpiscono le reboanti illusioni hegeliane e positiviste, disintegrano la paradossale celebrazione della "libertà d’esser schiavo". Veramente, testimoniata l'irreversibile caduta nell'inferno sociale ed ontico, il suicidio di M. è il segno non di codardia di fronte all'irrazionalità dell'essere, ma la decisione consequenziale di una coscienza lungimirante ed intemerata.


"Quest’uomo del suo tempo – colla sua προθυμία (zelo) e la sua «botte di ferro» è dunque l’individuo sognato da Hegel al sommo della chiesa gotica che gli antichi ignoravano – all’ultimo momento della libera evoluzione del sistema della libertà; – egli è l’obiettivazione della libertà che è fine a sé stessa e di sé stessa gode; – e «la persona ch’egli veste» nell’esercizio della sua carica, quella è la seconda natura – la libertà morale, medio concreto che unifica l’idea e le passioni umane – fine essenziale dell’esistenza soggettiva, unione della volontà soggettiva e della volontà razionale; questa è dunque l’idea divina, ciò che Iddio ha inteso di fare col mondo per ritrovare sé stesso. – Pure io credo che la fame, il sonno, la paura – anche se li chiamiamo «volontà razionale» – restino pur sempre fame sonno e paura e così tutte l’altre cose per le quali non so dove sia tranquilla la riva al nostro egoismo, che quanto è tale tanto non può arrivare né dove siano la libertà morale e l’idea e il fine essenziale.

«Ma» mi direbbe il mio uomo «tutto ciò a me che importa? – Io so che sono sicuro e nella coscienza dei miei diritti e dei miei doveri libero e potente». Oppure con le parole di John Stuart Mill ("Saggio sulla libertà") «non è qui questione della cosiddetta libertà del volere che così inopportunamente viene contrapposta alla dottrina erroneamente detta della necessità filosofica, ma della libertà civile o sociale». Della «libertà d’esser schiavo» dunque? E va bene.

Infatti è questo che l’uomo cerca, è così che crede giungere alla gioia – né può uscire di sé per vedere di più. – Soltanto egli paga l’ignoranza col lento oscuro e continuo tormento – ch’egli non si confessa e che altri non vede – poiché il destino è come un’equazione e non si lascia ingannare.

È l’altro lato dell’iperbole. L’uomo è vivo ancora, occupa ancora uno spazio e qualche cosa piccola egli deve ancor sempre fare così ch’egli senta infinito il postulato della sicurezza.

Come all’altro lato, l’uomo non si sentiva mai tale da poter chiedere con qualche giustizia così come giusto per sé, così qui presume sempre la sufficienza della sua qualsiasi persona; e come l’altro postulava la giustizia nella liberazione dalla volontà irrazionale, così questo cerca la sicurezza nell’adattamento ad un codice di diritti e doveri: la libertà d’esser schiavo; dove l’altro domandava la soddisfazione attuale tutta in un punto, questo cerca il modo di poter continuar con sicurezza ad aver fame in tutto il futuro. E come quella era la via delle più grandi individualità che domandano un valore e lo assomigliano nella loro volontà libera e incrollabile, questa è la via del disgregamento dell’individualità, di coloro che si preoccupano della vita come se già avesse valore (sufficienza) e vivono oς eόντος l’assoluto con la previsione limitata all’attimo – ché l’uno ama e volge gli occhi al possesso totale, all’identificazione – l’altro è tenero e zelante di ciò che crede possedere, perché rimanga per lui anche in futuro, mentre tanto lo possiede quanto è posseduto. «E si rivolge alle cose che sono dietro a lui». Ricordatevi della femmina di Lot – dice Cristo 'Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva'. (Lc 17, 32-33). – Questa è la via che ognuno batte, se voglia procacciarsi il piacere della vita. Ma qui troviamo questi individui ridotti a meccanismi, previsione attuata nell’organismo, non però, come ci aspetteremmo, vittime della loro debolezza – in balìa del caso, ma «sufficienti» e sicuri come divinità. – La loro degenerazione è detta educazione civile, la loro fame è attività di progresso, la loro paura è la morale, la loro violenza, il loro odio egoistico – la spada della giustizia".




Tuesday, June 15, 2010

La garrula "scienza"

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La garrula "scienza"

"Esistono due storie: la storia ufficiale, bugiarda, e la storia segreta che è vergognosa". (H. de Balzac)

Non ha alcun significato un termine cominciante per "c": questo vocabolo, cui i ciarlatani ricorrono con intento dispregiativo, non è attestato in nessun buon dizionario della lingua italiana. Talora è adoperato anche dai ricercatori indipendenti (o sedicenti tali) con coperti fini di scherno. In verità, il sostantivo incriminato nasce o da una precisa volontà di ghettizzare gli storici seri o da un radicale fraintendimento: ormai raramente si investigano cospirazioni, ma si mettono a nudo gli eventi, portando alla luce le loro radici.

La volgare propaganda contro la verità vilipende lo stesso Lorenzo Valla. L'umanista, nel De falso credito et ementita Constantini donatione, dimostrò che la cosiddetta donazione di Costantino era un documento spurio vergato dalla cancelleria pontificia nel secolo VIII. Oggi il dottissimo Valla sarebbe bollato come "c...a". Con lui, riceverebbero l'insultante epiteto tutti gli storiografi che hanno svelato verità scomode: l'elenco sarebbe non breve.

Siamo seri: coloro che si fregiano del titolo di "storici" sono o panegiristi o, nella migliore delle ipotesi, cronisti che si limitano ad affastellare gli avvenimenti, senza riuscire né ad interpretarli né a collocarli in una linea diacronica o in un quadro sincronico. E' come se, la mente, ricevuti dei segnali "esterni", non riuscisse ad organizzarli in forme, colori, prospettiva, percependo solo un'accozzaglia incomprensibile.

Del tutto capzioso è il solito mantra degli pseudo-scienziati che invocano i "fatti" e l'"oggettività", allorquando si affrontano argomenti disparati. In primo luogo, non si può asserire con Nietzsche che "i fatti non esistono, poiché esistono solo le interpretazioni": è vero, però, che il "fatto assoluto" è un concetto limite e che la sua osservazione [1] tende a sfumarne i contorni. Inoltre chi insiste in modo ossessivo sui "fatti" e sull'"oggettività" è ancora impantanato in un frusto ed infruttuoso positivismo di stampo ottocentesco: tra l'altro, paradossalmente, proprio i propugnatori della "verità effettuale", gli araldi del metodo "scientifico" sono i primi che, mancando di criteri precisi e per ignoranza, ignorano i "fatti", confondendo teorie con dati, ambiti empirici con sfere concettuali, linguaggio con referente etc. Ne risulta un calderone dove, alla fine, gli unici "argomenti" addotti sono l'insulto e la calunnia... Una garrula scienza.

Ancora una scienza (anche la scienza storica) basata su dicotomie inconciliabili non è scienza: se si può accettare che i dualismi, pragmaticamente utili, si radichino nel "senso comune", è inammissibile che forzate antitesi spezzino la ricerca più avanzata. Queste contrapposizioni possono valere in alcuni contesti, ma, quando ci si addentra in discorsi di più alto livello, si rivelano strumenti inidonei.

Ora, quando l'attaccamento ai "fatti" non denota pochezza intellettuale, è solo un alibi per evitare di sfiorare temi scabrosi e di scoprire certi altarini. Basterebbe grattare via un po' di vernice e se ne scoprirebbero delle... brutte. Non è la serietà il vero movente di chi afferma di volersi attenere ai "dati incontrovertibili" ed alle "fonti accreditate", ma la viltà o il bieco opportunismo. Chi, a parole, rifiuta le "teorie" (sic) in nome dei "fatti" assodati, oltre a misconoscere il significato e la portata di ambedue, rinuncia ad inquadrare gli avvenimenti in un disegno complessivo, simile ad un collezionista di schede telefoniche, motivato solo da un impulso incoercibile a raccogliere oggetti perfettamente inutili.

Non è in atto alcuna congiura: miliardi di persone muoiono di fame, di sete e di malattie, mentre una minoranza dell'umanità vive nella più vergognosa e sfacciata opulenza. La storia umana è una lunghissima scia di sangue. Il pianeta viene deliberatamente avvelenato. Una feccia di satanisti domina i governi che, succubi e scodinzolanti, obbediscono ad ordini criminali. I ricercatori veri prendono atto di ciò, invece di imbellettare la realtà con discorsi speciosi. Inoltre cercano di comprendere le ragioni delle ingiustizie e della violenza. E' forse questo studio della cospirazione o piuttosto denuncia di delitti e ricerca della verità?

Le
scie tossiche sono forse una cospirazione? No, solo lì, nude e crude, per tutti i gusti. Vero è che gli indagatori tentano di comprendere gli scopi ed inseriscono le analisi in una Weltanschauung, ma questo non significa che gli accadimenti debbano essere interpretati secondo orizzonti predefiniti. Ognuno cercherà di collegarli e di proiettarli su uno scenario adatto. La capacità critica risiede qui, nell'abitudine a vagliare, a confrontare, a riflettere, cercando di cogliere la sinopia delle circostanze di distinguere il vero dal falso: si eviterà sia di accogliere le versioni ufficiali sia di abbracciare elucubrazioni troppo eccentriche. Il “credere” o “non credere” saranno banditi, sostituiti dall’indagine e dall’osservazione. Occorre equilibrio ed il fine non è stabilire una verità assoluta, ma avvicinarsi il più possibile al cuore dei problemi e ad una possibile risoluzione.

Certo è, che se si resta appiccicati a pregiudizi scientisti o ai preconcetti del non-senso comune, è meglio non ostentare indipendenza di giudizio. Se, esibendosi in investigazioni "coraggiose", si inciampa nel pressapochismo linguistico e nelle chiacchiere da bar, peculiari di Attivissimo e dei suoi fans, è meglio tacere. Non abbiamo bisogno di
divulg-attori sblendorizzati e, se vogliamo ascoltare dei luoghi comuni, conversiamo con la casalinga di Voghera che magari è pure più sveglia di tanti "intellettuali".


[1] Benché generalmente sia travisato o semplificato, mutatis mutandis, il discorso sulla compenetrazione tra soggetto ed oggetto, tra osservatore ed osservato, trova, nella fisica quantistica, con l'indeterminazione di alcuni parametri, una corrispondenza con princìpi peculiari della Philosophia perennis in cui la separazione netta tra interno ed esterno, microcosmo e macrocosmo, perde valore ed aderenza.

Articolo correlato: C. Penna, Una catastrofe accidentale? No, una cazzata micidiale, 2010