L'immensa sputtanata a Zelig

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Scopo del Blog

Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.

Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.

Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.

Ciao e grazie della visita.

Il contenuto di questo blog non viene piu' aggiornato regolarmente. Per le ultime notizie potete andare su:

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Monday, August 26, 2013

La propaganda di regime non è giornalismo

http://zret.blogspot.co.uk/2013/08/la-propaganda-di-regime-non-e.html

La propaganda di regime non è giornalismo

Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.

Questo tuo grido farà come vento
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d'onor poco argomento.


(Dante, Paradiso XVII, vv. 130-135)

Il Dottor Marco Preve, redattore del quotidiano “La Repubblica”, ha replicato ad un messaggio inviatogli da studenti ed ex allievi del sottoscritto. Egli afferma di non aver disonorato alcuno con il suo balzano articolo ed anzi ritiene che contro di lui sia stato sferrato un attacco. La verità è un’altra: il Dottor Preve è solo lo stereotipo dei sedicenti giornalisti che da anni critichiamo in maniera recisa per il loro pericoloso e pernicioso ruolo. Abbiamo definito questo ruolo, parafrasando Orson Welles, Primo strapotere. Plagio, disinformazione, conformismo, propaganda, trascuratezza, cortigianeria... sono i capisaldi del “giornalismo” mainstream.

Non è dunque una questione personale (credo che di per sé il Dottor Preve sia una persona degnissima, sebbene indottrinata in modo irreparabile), ma una condanna implacabile dell”’informazione” al servizio dell’establishment. I quotidiani sia cartacei sia telematici, con l’unica eccezione di “Rinascita”, dovrebbero essere ignorati, almeno per il vergognoso stupro della lingua italiana. Si aggiunga che sono del tutto diseducativi per le falsità, maldicenze, veline, notizie distorte, sciocchezze... che vomitano senza tregua.

Nessuno intende insultare le testate ufficiali, perché, in quanto alleate del sistema, sono già un insulto all’intelligenza, dal momento che esistono. Ad onor del vero, bisogna ammettere che anche sulle pagine mercenarie del regime talvolta sono pubblicati un editoriale o un’inchiesta validi, ma sono appunto eccezioni che non cambiano la sostanza.

No. Il Nostro non ha svolto il suo mestiere in maniera corretta, poiché un vero cronista dovrebbe indagare e verificare, non costruire i suoi balordi pezzi sulla delazione di un anonimo o sulle dicerie di qualche comare.

Il “cuore del problema” sarebbe l’imbarazzo di taluni genitori di cui, ammesso e non concesso che le lettere non siano state inviate dal solito Task Force Butler e sodali, Preve incarna il deprimente perbenismo piccolo-borghese, la mentalità angusta e pedestre del bottegaio che vota per l’”uomo forte”. Ci si turba, perché i propri figli apprendono che le “missioni di pace” non sono poi così umanitarie e disinteressate. Ci si turba, perché esiste il rischio mortale che una tantum si offra un’interpretazione non canonica rispetto ad un evento o ad una questione. Ci si turba, perché si studiano (o si dovrebbero studiare) Dante, Machiavelli, Manzoni, Michelstaedter, Nietzsche, Orwell, Marcuse etc. che ai potenti non la mandavano certo a dire. Perfetto: sostituiamo tutti gli autori della filosofia e della letteratura con i romanzi di Liala. Spesso gli adolescenti sono molto più maturi e svegli di certi adulti benpensanti ed omologati. Scrivono anche meglio di tante blasonate penne!

Di imbarazzante e di inquietante vediamo l’omologazione, l’adesione al non-pensiero unico, propalati proprio da chi dovrebbe, invece, prenderne le distanze. E’ questo il vero “senso critico” che il Dottor Preve menziona senza cognizione di causa, come un cieco nato che vuole disquisire di colori.

Bisognerebbe sfiorare tanti altri argomenti dalle notevoli implicazioni, ma non intendiamo tediare i lettori. Dunque concludiamo esortando l’egregio redattore a falsificare (in senso popperiano) quanto scritto ed assodato circa i “fatti catodici” di Palazzo Chigi. Non basta pontificare, asserendo che la meticolosa ricostruzione dell’”avvenimento televisivo” è una “bestialità”: lo si deve dimostrare in modo incontrovertibile ed onesto. Il guanto della sfida è stato lanciato. Le chiacchiere – come le diffamazioni - stanno a zero.
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Monday, September 27, 2010

Filologia

http://zret.blogspot.com/2010/09/filologia.html

Filologia



Sono sufficienti due esempi: Nietzsche e Michelstaedter. Entrambi si imbatterono nella filologia per negarla. Nietzsche pubblicò la sua prima opera, "La nascita della tragedia dallo spirito della musica", nel 1879: nell'opuscolo l'approccio filologico alla genesi della tragedia greca è già in gran parte superato nella direzione della filosofia. Michelstaedter scrisse “La persuasione e la rettorica”, una singolare tesi di laurea che invece di vertere su questioni erudite, le trascende in un saggio che è una dolorosa, quanto appassionata, analisi della vita e delle sue pungenti contraddizioni.

La filologia, tranne qualche esito eccezionale, è materia da topi di biblioteca, una mummificazione ante mortem. Di fronte alle terribili meraviglie dell'universo, quanti scelgono la via larga del "sapere" inerte ed inutile! L’erudizione fine a sé stessa diventa quasi uno schema di "pensiero", un modo di porsi e di essere, anzi di non essere. Oggi anche quasi tutti gli studiosi e "scienziati" sono filologi: esaurito l'elan, smarrito lo stupore di fronte al mondo, gli scienziati misurano, catalogano, computano. L'indagine muore nella quantità e nella statistica: crolla l’orizzonte umano. Nessuna modanatura filosofica attraversa il gelido mausoleo della "scienza".

Scrive a tale proposito Koiré in "Newtonian studies", 1965: “La scienza abbatté le barriere che separavano cielo e terra: essa realizzò tale unificazione, sostituendo al nostro mondo della qualità e delle percezioni sensibili, il mondo che è il teatro della nostra vita, delle nostre passioni e della nostra morte, un altro mondo, il mondo della quantità, della geometria reificata, nel quale sebbene vi sia posto per ogni cosa, non vi è posto per l’uomo”.

Agli antipodi della filologia, si slargano le terre avventurose dell'Arte, ma la via che conduce in quelle regioni è stretta, ripida ed accidentata. L'Arte esige disciplina sino all'ascesi, solitudine ed abnegazione, pure annullamento di sé per dar voce all'Idea. I veri artisti sono mistici che plasmano il silenzio e ne cavano echi di infinito. Sono scalatori che, toccata la vetta, spaziano con lo sguardo oltre il confine dell'invisibile.

Sulla china si inerpicano i filosofi che, quando oltrepassano il raziocinio, tendono l'arco del pensiero verso l’alto per scoccare il dardo dell'intuizione. Allora la riflessione perde di rigidità per splendere nel fuoco dell'aforisma e della domanda bruciante. La verità, appena proclamata, viene incenerita, l'affermazione provocatoriamente contraddetta.

Il volgo, invece, striscia sul terreno cedevole dei dogmi, prosternato davanti agli "scienziati", servi dei servi del regime.





Pubblicato da Zret

Wednesday, September 15, 2010

Peccato originale

http://zret.blogspot.com/2010/09/peccato-originale.html

Peccato originale

“Le cose da cui proviene la nascita alle cose che sono, peraltro sono quelle in cui si sviluppa anche la rovina, secondo ciò che deve essere: le cose che sono, infatti, subiscono l'una dall'altra punizione e vendetta per la loro ingiustizia, secondo il decreto del Tempo”.

(Simplicio, Commento alla "Fisica" di Aristotele)

Nel passo sopra riportato, Anassimandro, il filosofo dell’apeiron (lo si traduca con “indeterminato” e non con “infinito”) sembra rispecchiare il concetto orfico di colpa originaria. Il frammento, giuntoci per tradizione indiretta, è oscuro ed involuto, ma decisivo nel suo nucleo semantico che definisce un errore primigenio. Se l’errore è letteralmente errare, ossia movimento, si comprende la sua consustanzialità all’essere, allorquando si manifesta nel cerchio spazio-temporale.[1] Il pensatore intreccia tragicamente la “nascita” (in greco “physis” che è anche “natura” e la natura è madre perennemente generatrice: il suffisso “attivo e produttivo” –ura lo attesta) con la “rovina”.

Il nascimento è l’energia cosmica che crea e disgrega. Ab origine Anassimandro coglie il cedimento ontologico, in un’ottica fatalista sottolineata dalle espressioni “ciò che deve essere” e da “secondo il decreto”. Tale deviazione iniziale è causa e conseguenza insieme dell’”ingiustizia” (insufficienza) inerente alle cose: è lo stato di difetto che implica sia la “punizione”, cioè l’espiazione dell’errore, sia la “vendetta” che allude forse ad un riscatto alla fine dei tempi o del ciclo. La redenzione è il suggello della nemesi, poiché nulla può essere riparato senza sacrificio. L’ingiustizia degli enti è negli enti in quanto tali e non nelle loro determinazioni. Così il cosiddetto “peccato originale” più che essere la decisione (libera?) da cui dipese la caduta dei protoplasti e della loro progenie, pare retrocedere verso un atto precedente.

Il sapere che rifiuta questo principio è condannato ad adagiarsi nell’inganno e nel narcotico della perfezione, non riuscendo a dar conto dello sdrucciolamento.

In questo solco interpretativo, l’aforisma di Carlo Michelstaedter, “La nascita è il caso mortale”, strappato dalle sue radici esistenziali, si staglia, duro e netto, su un orizzonte metafisico.

[1] L’Essere si tiene fuori da questo cerchio, pur talvolta affacciandovisi?



Sunday, August 8, 2010

Discorso del metodo

http://zret.blogspot.com/2010/08/discorso-del-metodo.html

Discorso del metodo

E finalmente, ansimante,
si rende conto della dannata sorte:
la vita è riempirsi di domande
nella speranza di scordar la morte.

E, liberato, sorride
e scopre l'amara burla.
"So tutto", si dice,
"Ma, in fondo, nulla".

(T.M.)

La scienza è un'ostrica.


Vladimiro Arangio-Ruiz (Napoli 1887 - Firenze, 1952) è un filosofo che fu docente alla Normale di Pisa ed alla facoltà di Magistero di Firenze. Determinante nella sua formazione fu in gioventù l'incontro nel capoluogo toscano con il giovane poeta e pensatore, Carlo Michelstaedter, di cui pubblicò gli scritti. Dal suo interesse per il pensiero di Giovanni Gentile, trasse ispirazione per sviluppare il suo "moralismo assoluto". Aduggiate, per lo più, da una pur parziale adesione all'attualismo, in due saggi, "Discorso del metodo", e "Che cos'è filosofia", Arangio-Ruiz riesce a declinare alcune interpretazioni che preludono a Kuhn ed a Feyerabend.

L'amico fraterno del grande Michaelstaedter controbatte a chi, come lo stesso Gentile, esige sistematicità nel pensiero: contro l'alterigia degli eruditi e la presunta oggettività della scienza, l'autore partenopeo rivaluta l'arte maieutica di Socrate, ossia un approccio esplorativo ai temi fondamentali. In "Che cos'è filosofia", Arangio-Ruiz scrive con una prosa un po' involuta, ma denotando un'attitudine dialettica e critica: "Filosofia non è sapere, non possesso ma ricerca; ché, quando filosofia si atteggia a scienza, quando trova una dolcezza nel sapere e, invece di sapere per vivere, vuol vivere per sapere, si fa del sapere una diversa, una fittizia vita; invece di essere sofferenza vissuta e speranza, vuol essere sapere di codesta sofferenza e di codesta speranza - non è più filosofia."

Infatti quella del pensiero è una via negationis ed a chi la percorre non è offerto il sedativo del possesso, l’alloro della supposta verità scientifica. L'indagine è sempre in fieri e, una volta raggiunta la meta (provvisoria), l'itinerario continua. Spesso la via si biforca e procedere può significare retrocedere. Qui si situa l'inconciliabile diversità rispetto alla scienza, almeno quella dogmatica, che è l'indirizzo egemone. Scienziato si può non essere, ma filosofo non si può non essere, poiché la filosofia è consustanziale alla vita, alla sua apertura interrogativa sul mondo, laddove la scienza è paga dei suoi risultati teorici e delle sue anestetiche conferme sperimentali. Essa, attaccata come un'ostrica allo scoglio, non rinunzia ai suoi paradigmi (meglio paradogmi), se non quando costretta da rivoluzioni epocali. Inoltre la scienza si arroga il diritto di tutto spiegare e, nonostante l''estrema contraddittorietà dei modelli, pretende di imporre un'interpretazione esaustiva ed univoca.

Alle ubbie religiose sono sottentrate le superstizioni scientifiche: l'ortodossia scientifica si impianta nel centro del reale, a somiglianza di un microprocessore nel cervello. Questa struttura rigida consuona con le esigenze dei cittadini medio-bassi, avidi di rassicuranti certezze (siano pure confortevoli bugie). Mettere in discussione il dato, la dimostrazione, la stessa verifica implica il rischio del vuoto ad ogni passo e la vertigine dell'ignoto. E' troppo per chi è uso a costruire la sua casa di paglia sul soffice, ma cedevole terreno di "Focus" o di "Superquark". Inetti e pusillanimi, gli uomini preferiscono una menzogna accademica, magari referata, ad una tragica rivelazione. Bene annota C. Pellizzi: "I comuni mortali, colti o incolti, temono le voci forti, le verità laceranti, gli errori decisivi. Il mondo 'intellettuale' è sibaritico."




Sunday, July 11, 2010

Libertà d’esser schiavo: la condizione umana in una pagina di Carlo Michelstaedter

E con questa vi saluto e vado in spiaggia, naturalmente senza respirare.

http://zret.blogspot.com/2010/07/liberta-desser-schiavo-la-condizione.html

Libertà d’esser schiavo: la condizione umana in una pagina di Carlo Michelstaedter

Carlo Michelstaedter (Gorizia, 1887-1910), filosofo, poeta e pittore italiano, è noto specialmente per la sua tesi di laurea, "La persuasione e la rettorica", scritto pubblicato nel 1913, dopo il suicidio dell'autore. La figura di Michelstaedter giganteggia nel panorama della cultura contemporanea per la perspicacia del pensiero e per la lucida demistificazione del sistema. Alcune sue idee, che trovano le loro matrici soprattutto in Schopenauer ed in Leopardi, preludono all'analitica esistenziale di Heidegger e sono accostabili, per la dirompente forza disgregatrice, a fondamentali nuclei del pensiero nietzchiano. M., nel saggio succitato, conduce un serrato confronto critico tra la genuina sapienza pre-socratica e la degenerazione mondana della filosofia, a partire da Platone. L'autore vede il cozzo tra il mondo autentico della persuasione (simile alla volontà di potenza, intesa come appropriazione del destino ed eroica attribuzione di senso all'esistente) ed il complesso fittizio e coercitivo della rettorica, strutturata attraverso le istituzioni (stato, economia, etica, educazione...), sentite come mascheramento e rimozione degli impulsi egoistici dell'uomo. M. vagheggia un'umanità integra che, sotto l'urgenza del dolore, trascenda l'irretimento nella sfera egocentrica per affermare dignità e libertà.

M. spazia, con eccezionale acume, tra innumerevoli temi, mettendo a nudo le contraddizioni e le storture della modernità. Non è neppure pensabile di accennare ai contenuti della tesi: tali e tanti sono i concetti esposti sì da dichiarare l'incommensurabile grandezza di questo intellettuale. La sua grandezza poi risalta ancora di più, se pensiamo ad abili parolai come Croce e Gentile, per giunta sostenitori del potere, "liberale" o "fascista" che fosse. Sui "pensatori" di oggi è bene stendere un pietoso silenzio.

Tra le pagine del testo, strazianti nella loro feroce verità e sconvolgente attualità, segnalerei, almeno, quelle sulla scuola o le considerazioni circa l'ipocrisia del diritto. Propongo all'attenzione dei lettori che - ne sono certo - saranno invogliati a leggere l'intera opera, qualora non l'abbiano già apprezzata, un passo sulla condizione dell'uomo nella società industriale, uomo inteso come essere dimidiato ed alienato. Gli strali di un'amara ironia colpiscono le reboanti illusioni hegeliane e positiviste, disintegrano la paradossale celebrazione della "libertà d’esser schiavo". Veramente, testimoniata l'irreversibile caduta nell'inferno sociale ed ontico, il suicidio di M. è il segno non di codardia di fronte all'irrazionalità dell'essere, ma la decisione consequenziale di una coscienza lungimirante ed intemerata.


"Quest’uomo del suo tempo – colla sua προθυμία (zelo) e la sua «botte di ferro» è dunque l’individuo sognato da Hegel al sommo della chiesa gotica che gli antichi ignoravano – all’ultimo momento della libera evoluzione del sistema della libertà; – egli è l’obiettivazione della libertà che è fine a sé stessa e di sé stessa gode; – e «la persona ch’egli veste» nell’esercizio della sua carica, quella è la seconda natura – la libertà morale, medio concreto che unifica l’idea e le passioni umane – fine essenziale dell’esistenza soggettiva, unione della volontà soggettiva e della volontà razionale; questa è dunque l’idea divina, ciò che Iddio ha inteso di fare col mondo per ritrovare sé stesso. – Pure io credo che la fame, il sonno, la paura – anche se li chiamiamo «volontà razionale» – restino pur sempre fame sonno e paura e così tutte l’altre cose per le quali non so dove sia tranquilla la riva al nostro egoismo, che quanto è tale tanto non può arrivare né dove siano la libertà morale e l’idea e il fine essenziale.

«Ma» mi direbbe il mio uomo «tutto ciò a me che importa? – Io so che sono sicuro e nella coscienza dei miei diritti e dei miei doveri libero e potente». Oppure con le parole di John Stuart Mill ("Saggio sulla libertà") «non è qui questione della cosiddetta libertà del volere che così inopportunamente viene contrapposta alla dottrina erroneamente detta della necessità filosofica, ma della libertà civile o sociale». Della «libertà d’esser schiavo» dunque? E va bene.

Infatti è questo che l’uomo cerca, è così che crede giungere alla gioia – né può uscire di sé per vedere di più. – Soltanto egli paga l’ignoranza col lento oscuro e continuo tormento – ch’egli non si confessa e che altri non vede – poiché il destino è come un’equazione e non si lascia ingannare.

È l’altro lato dell’iperbole. L’uomo è vivo ancora, occupa ancora uno spazio e qualche cosa piccola egli deve ancor sempre fare così ch’egli senta infinito il postulato della sicurezza.

Come all’altro lato, l’uomo non si sentiva mai tale da poter chiedere con qualche giustizia così come giusto per sé, così qui presume sempre la sufficienza della sua qualsiasi persona; e come l’altro postulava la giustizia nella liberazione dalla volontà irrazionale, così questo cerca la sicurezza nell’adattamento ad un codice di diritti e doveri: la libertà d’esser schiavo; dove l’altro domandava la soddisfazione attuale tutta in un punto, questo cerca il modo di poter continuar con sicurezza ad aver fame in tutto il futuro. E come quella era la via delle più grandi individualità che domandano un valore e lo assomigliano nella loro volontà libera e incrollabile, questa è la via del disgregamento dell’individualità, di coloro che si preoccupano della vita come se già avesse valore (sufficienza) e vivono oς eόντος l’assoluto con la previsione limitata all’attimo – ché l’uno ama e volge gli occhi al possesso totale, all’identificazione – l’altro è tenero e zelante di ciò che crede possedere, perché rimanga per lui anche in futuro, mentre tanto lo possiede quanto è posseduto. «E si rivolge alle cose che sono dietro a lui». Ricordatevi della femmina di Lot – dice Cristo 'Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva'. (Lc 17, 32-33). – Questa è la via che ognuno batte, se voglia procacciarsi il piacere della vita. Ma qui troviamo questi individui ridotti a meccanismi, previsione attuata nell’organismo, non però, come ci aspetteremmo, vittime della loro debolezza – in balìa del caso, ma «sufficienti» e sicuri come divinità. – La loro degenerazione è detta educazione civile, la loro fame è attività di progresso, la loro paura è la morale, la loro violenza, il loro odio egoistico – la spada della giustizia".