http://zret.blogspot.ch/2015/11/che-cosa-succede-dopo-la-morte.html
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Scopo del Blog
Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.
Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.
Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.
Ciao e grazie della visita.
Il contenuto di questo blog non viene piu' aggiornato regolarmente. Per le ultime notizie potete andare su:
http://indipezzenti.blogspot.ch/
https://www.facebook.com/Task-Force-Butler-868476723163799/
Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.
Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.
Ciao e grazie della visita.
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Saturday, November 7, 2015
Sunday, March 1, 2015
La foglia di fico
http://www.tankerenemy.com/2015/03/la-foglia-di-fico.html

Pubblicato da Straker
La foglia di fico

La
geoingegneria ufficiale è un imbroglio! E’ un inganno per tante ragioni
che abbiamo già più volte illustrato, ma è necessario qui ribadire
alcuni concetti.
La geoingegneria canonica presenta come progetti quelle che sono devastanti operazioni eseguite ormai da decenni. Inoltre essa si riferisce a rarissime sperimentazioni in siti circoscritti, laddove la distruzione ambientale è perpetrata su scala pressoché planetaria, grazie al massiccio impiego dell’aviazione civile, come fu suggerito dal funesto Edward Teller. I carburanti aeronautici, infatti, sono la chiave di volta: l’uso di combustibili per aeromobili, opportunamente adittivati, consente di disperdere nella biosfera, con copertura gloabale, composti chimici con i fini più diversi.
Recentemente il deputato del Movimento Cinque stelle, l’ingegner Mirko Busto, ha provato ad evocare, a nostro parere, il problema della biogeoingegneria illegale, ma con quella timidezza ed ambiguità cui sono preferibili il silenzio. L’onorevole Busto non ha né evitato i soliti proditori e volgari attacchi dei negazionisti né ha affrontato la questione in modo corretto ed esaustivo, nascondendosi dietro il dito (molto sottile) dell’ingegneria climatica intesa come un insieme di programmi (sic) ancora tutti (o quasi) da definire nelle loro sfaccettature e nelle loro conseguenze. [1]
Non solo, Busto ha avallato la logora fandonia dei cambiamenti climatici provocati dai gas serra, senza inquadrare il tema nell’interazione tra fenomeni naturali e pesanti interventi di modificazione meteorologica e climatica. Molto più rigoroso è, invece, l’approccio del Dottor Paolo De Santis che spiega che cosa si deve intendere per “effetto atmosfera” e come la geoingegneria riconosciuta sia una gigantesca, vergognosa truffa.
Gli atteggiamenti ondivaghi e titubanti di fronte a situazioni scabrose sono più nocivi che inutili. Sappiamo che non è facile essere netti ed espliciti, ma non abbiamo alcuna intenzione di ingrossare le schiere degli ignavi cui Dante riserva una pena davvero piuttosto sgradevole.
[1] Tra gli “argomenti” addotti dai disinformatori, tra cui Alessandro Martorana, per “smentire” le pur titubanti riflessioni dell’ingegner Busto, spicca l’assunto secondo cui test in loco di manipolazione atmosferica sono impossibili, poiché vietati dalle convenzioni internazionali. E’ palese che Martorana non sa leggere o finge di non saper leggere: infatti è vero che gli accordi internazionali proibiscono de iure interventi sul clima, ma al tempo stesso tali intese contemplano un’infinità di sfacciate deroghe. Sono eccezioni che permettono de facto tutto ed il contrario di tutto.
La geoingegneria canonica presenta come progetti quelle che sono devastanti operazioni eseguite ormai da decenni. Inoltre essa si riferisce a rarissime sperimentazioni in siti circoscritti, laddove la distruzione ambientale è perpetrata su scala pressoché planetaria, grazie al massiccio impiego dell’aviazione civile, come fu suggerito dal funesto Edward Teller. I carburanti aeronautici, infatti, sono la chiave di volta: l’uso di combustibili per aeromobili, opportunamente adittivati, consente di disperdere nella biosfera, con copertura gloabale, composti chimici con i fini più diversi.
Recentemente il deputato del Movimento Cinque stelle, l’ingegner Mirko Busto, ha provato ad evocare, a nostro parere, il problema della biogeoingegneria illegale, ma con quella timidezza ed ambiguità cui sono preferibili il silenzio. L’onorevole Busto non ha né evitato i soliti proditori e volgari attacchi dei negazionisti né ha affrontato la questione in modo corretto ed esaustivo, nascondendosi dietro il dito (molto sottile) dell’ingegneria climatica intesa come un insieme di programmi (sic) ancora tutti (o quasi) da definire nelle loro sfaccettature e nelle loro conseguenze. [1]
Non solo, Busto ha avallato la logora fandonia dei cambiamenti climatici provocati dai gas serra, senza inquadrare il tema nell’interazione tra fenomeni naturali e pesanti interventi di modificazione meteorologica e climatica. Molto più rigoroso è, invece, l’approccio del Dottor Paolo De Santis che spiega che cosa si deve intendere per “effetto atmosfera” e come la geoingegneria riconosciuta sia una gigantesca, vergognosa truffa.
Gli atteggiamenti ondivaghi e titubanti di fronte a situazioni scabrose sono più nocivi che inutili. Sappiamo che non è facile essere netti ed espliciti, ma non abbiamo alcuna intenzione di ingrossare le schiere degli ignavi cui Dante riserva una pena davvero piuttosto sgradevole.
[1] Tra gli “argomenti” addotti dai disinformatori, tra cui Alessandro Martorana, per “smentire” le pur titubanti riflessioni dell’ingegner Busto, spicca l’assunto secondo cui test in loco di manipolazione atmosferica sono impossibili, poiché vietati dalle convenzioni internazionali. E’ palese che Martorana non sa leggere o finge di non saper leggere: infatti è vero che gli accordi internazionali proibiscono de iure interventi sul clima, ma al tempo stesso tali intese contemplano un’infinità di sfacciate deroghe. Sono eccezioni che permettono de facto tutto ed il contrario di tutto.
Pubblicato da Straker
Friday, January 9, 2015
Esiste l’Inferno?
Dopo Esiste il male? eco a voi zretino in Esiste l'inferno?
A breve lo attendiamo con Esiste Babbo Natale?
http://zret.blogspot.ch/2015/01/esiste-linferno.html

A breve lo attendiamo con Esiste Babbo Natale?
http://zret.blogspot.ch/2015/01/esiste-linferno.html
Esiste l’Inferno?

Esiste
l’Inferno? Prevengo un’obiezione: “L’Inferno è sulla Terra: basta
visitare un carcere, un ospedale, una caserma, un macello... per
constatare che il nostro martoriato pianeta è una bolgia”. Tuttavia
all’”Inferno sulla Terra” manca un requisito affinché sia un “perfetto”
luogo di dannazione: l’interminabilità.
Di solito gli allievi che cominciano a studiare Dante restano sgomenti di fronte ai raffinati contrappassi che il Poeta escogita per i peccatori e soprattutto quando si figurano pene destinate a durare per sempre. Gli adolescenti, che di solito ignorano le tenaglie del male, ritengono la dannazione eterna sia un’idea inammissibile, frutto di una mente sadica. Quanti spiegano loro che probabilmente l’Alighieri intende i tre regni dell’oltretomba secondo una concezione esoterica, in cui l’Inferno stesso adombra un itinerario che ciascuno di noi deve compiere nelle regioni dell’Ombra!
Non manca, però, chi considera in modo letterale sia la Gehenna dantesca sia l’Inferno della religione cristiana e del credo islamico. Un’esigenza di giustizia induce a ritenere che i malvagi impenitenti dovranno pagare il fio con una punizione destinata a non finire mai, anzi a divenire ancora più atroce dopo il Giudizio universale.
Alcuni, sulla scorta di Agostino, pensando che la stragrande maggioranza dell’umanità sia preda del peccato ed irredimibile, immaginano un Paradiso semivuoto e ad un’Ade brulicante di anime dannate. Oggidì molti esponenti del clero tendono a presentare la condizione infernale come uno stato di volontaria separazione dal Creatore.
Esiste l’Inferno? E’ un po’ come chiedersi se esista Dio o il libero arbitrio. Sono quesiti che ci bloccano in una sorta di punto di Lagrange concettuale: qui l’intelletto non riesce a muoversi né in una direzione né in un’altra, senza poter dirimere la vexata quaestio. Non potendo la ragione ottenere un risultato soddisfacente, deve subentrare la fede o la scommessa di Blaise Pascal.
Da un lato, infatti, ripugna la feroce idea di un Inferno senza termine anche per coloro le cui colpe non sono gravissime, dall’altro non è meno raggelante il pensiero che esseri istigati da una cattiveria pura, assoluta (si vedano molti negazionisti ed i massacratori della Vita per citare solo due esempi estremi) possano un giorno anche lontanissimo essere perdonati, in un’apocatastasi di origeniana memoria. Forse queste “anime prave” dovrebbero essere annientate: per costoro, visto l’egocentrismo che li soggioga, è prospettiva senza dubbio spaventosa quanto una condanna infinita.
Non aveva torto l’archeologo e storico Mario Pincherle a chiedersi: “Dove sarebbe la ‘buona novella’ del Cristianesimo? Sarebbe l’annuncio che, se compi anche un solo errore in un’unica vita, sarai precipitato nel ‘lago di zolfo’ per l’eternità?”
Può darsi che l’indagine sul destino oltremondano sia il risultato di un’etica “umana, troppo umana” e che il sublime disegno cosmico trascenda le limitate speculazioni persino dei più alti filosofi e teologi. Nulla si può escludere né in un senso né in un altro.
Certo, se esiste l’Inferno, comunque lo si concepisca, esso ci pare una macula della Creazione, qualcosa che coesisterà (per sempre?) con la Perfezione universale una volta in cui essa sarà conseguita, se ciò mai avverrà. L’ideale sarebbe stato evitare che il male assumesse proporzioni tali da spronare gli uomini ad abbozzare dottrine che tentano sia di spiegare la genesi e la funzione del mysterium iniquitatis sia un suo futuro superamento nelle forme più disparate. E’ evidente, però, che è tardi, troppo tardi.
Di solito gli allievi che cominciano a studiare Dante restano sgomenti di fronte ai raffinati contrappassi che il Poeta escogita per i peccatori e soprattutto quando si figurano pene destinate a durare per sempre. Gli adolescenti, che di solito ignorano le tenaglie del male, ritengono la dannazione eterna sia un’idea inammissibile, frutto di una mente sadica. Quanti spiegano loro che probabilmente l’Alighieri intende i tre regni dell’oltretomba secondo una concezione esoterica, in cui l’Inferno stesso adombra un itinerario che ciascuno di noi deve compiere nelle regioni dell’Ombra!
Non manca, però, chi considera in modo letterale sia la Gehenna dantesca sia l’Inferno della religione cristiana e del credo islamico. Un’esigenza di giustizia induce a ritenere che i malvagi impenitenti dovranno pagare il fio con una punizione destinata a non finire mai, anzi a divenire ancora più atroce dopo il Giudizio universale.
Alcuni, sulla scorta di Agostino, pensando che la stragrande maggioranza dell’umanità sia preda del peccato ed irredimibile, immaginano un Paradiso semivuoto e ad un’Ade brulicante di anime dannate. Oggidì molti esponenti del clero tendono a presentare la condizione infernale come uno stato di volontaria separazione dal Creatore.
Esiste l’Inferno? E’ un po’ come chiedersi se esista Dio o il libero arbitrio. Sono quesiti che ci bloccano in una sorta di punto di Lagrange concettuale: qui l’intelletto non riesce a muoversi né in una direzione né in un’altra, senza poter dirimere la vexata quaestio. Non potendo la ragione ottenere un risultato soddisfacente, deve subentrare la fede o la scommessa di Blaise Pascal.
Da un lato, infatti, ripugna la feroce idea di un Inferno senza termine anche per coloro le cui colpe non sono gravissime, dall’altro non è meno raggelante il pensiero che esseri istigati da una cattiveria pura, assoluta (si vedano molti negazionisti ed i massacratori della Vita per citare solo due esempi estremi) possano un giorno anche lontanissimo essere perdonati, in un’apocatastasi di origeniana memoria. Forse queste “anime prave” dovrebbero essere annientate: per costoro, visto l’egocentrismo che li soggioga, è prospettiva senza dubbio spaventosa quanto una condanna infinita.
Non aveva torto l’archeologo e storico Mario Pincherle a chiedersi: “Dove sarebbe la ‘buona novella’ del Cristianesimo? Sarebbe l’annuncio che, se compi anche un solo errore in un’unica vita, sarai precipitato nel ‘lago di zolfo’ per l’eternità?”
Può darsi che l’indagine sul destino oltremondano sia il risultato di un’etica “umana, troppo umana” e che il sublime disegno cosmico trascenda le limitate speculazioni persino dei più alti filosofi e teologi. Nulla si può escludere né in un senso né in un altro.
Certo, se esiste l’Inferno, comunque lo si concepisca, esso ci pare una macula della Creazione, qualcosa che coesisterà (per sempre?) con la Perfezione universale una volta in cui essa sarà conseguita, se ciò mai avverrà. L’ideale sarebbe stato evitare che il male assumesse proporzioni tali da spronare gli uomini ad abbozzare dottrine che tentano sia di spiegare la genesi e la funzione del mysterium iniquitatis sia un suo futuro superamento nelle forme più disparate. E’ evidente, però, che è tardi, troppo tardi.
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Pubblicato da
Zret
Friday, December 19, 2014
I comandamenti del commis
su alcuni punti della rosicata sarei quasi d'accordo, ma che fatica leggere 'sta roba...
http://zret.blogspot.ch/2014/12/i-comandamenti-del-commis.html

http://zret.blogspot.ch/2014/12/i-comandamenti-del-commis.html
I comandamenti del commis

Di
recente Roberto Benigni ha imbambolato un pubblico di bambocci con due
puntate sui “dieci comandamenti”. La pantomima è rivelatrice di quanto
sia radicata l’ignoranza. Per disquisire sul Decalogo e per commentarlo,
bisognerebbe conoscere il soggetto e saperlo contestualizzare. In
verità, la ciarlatanesca rassegna sulle leggi vetero-testamentarie è
stata solo un pretesto per una pseudo-analisi della “politica” attuale,
secondo criteri falsamente moralistici e pedagogici che trasudano
ipocrisia e paternalismo. Benigni è un pessimo maestro, dolciastro e
sciocco, incapace di comprendere anche solo il senso letterale dei testi
che egli profana, mentre crede di interpretarli. Famigerate furono le
sue dilettantesche e sacrileghe “lezioni” sulla Commedia dantesca.
Se solo ci si premurasse di consultare un manuale scolastico di storia, si eviterebbe di prendere certe sonore cantonate. I Comandamenti che i bambini imparano a catechismo sono il risultato di una lunga rielaborazione culminata con Agostino nel IV sec. d.C.: le regole partorite del vescovo di Ippona poco o punto c’entrano con i precetti dettati da YHWH al suo popolo. Per nessuna ragione al mondo YHWH si sarebbe sognato di stabilire l’assurda, insensata norma “Non desiderare la donna d’altri” che dapprincipio [o come direbbe strakky: d'apprincipio] doveva suonare più o meno così: “Non gettare il malocchio sulle donne e le cose altrui”.
Il comandamento più importante e disatteso oggi da quasi tutti i “cristiani” nel mondo verteva sul divieto di farsi immagini delle cose che esistono sulla terra ed in cielo e di adorarle. La chiesa nicena eluse questa proibizione per inventarsi un Decalogo a suo uso e consumo. Sull’esecrazione dell’idolatria chi oggi insiste tra gli esponenti del clero o chi soltanto vi accenna? Tra le varie norme oggi dimenticate, ma che il dio degli Ebrei riteneva significativa menzioneremmo almeno la seguente: “Non cuocerai il capretto nel latte della madre”.
Questo rapido excursus ci permette di capire che trapiantare credenze antiche nel presente, oltre a denotare crasso analfabetismo, causa danni interpretativi irreparabili. Ogni evento ed ogni fenomeno culturale devono essere collocati nel loro milieu e studiati in rapporto alle circostanze sociali, economiche, antropologiche, spirituali etc. in cui essi si situano. Diversamente si tradisce il passato e lo si strumentalizza per fini di propaganda o, nel migliore dei casi, di becero intrattenimento.
Così sbagliano coloro che credono di poter fondare la dottrina dell’immortalità dell’anima, del Paradiso e dell’Inferno, richiamandosi alla Bibbia, in special modo alla Torah. Nella Bibbia i termini “nephesh” e “ruach” che spesso sono resi con “anima” o “spirito” non designavano un’essenza individuale imperitura.
L’oltretomba biblico è lo Sheol, simile all’Ade omerico ed a quello dei Sumeri, una plaga brumosa dove i morti sono ormai privi di coscienza e di identità. Qualche breve rimando al Paradiso ed all’Inferno come luoghi, rispettivamente, di beatitudine e di dannazione si reperisce nel Nuovo Testamento, ma sono passi contraddetti da altri e di valore metaforico, insufficienti comunque a definire una topografia precisa dell’aldilà cristiano che non esiste.
Semmai lo studio comparato delle religioni ci dimostra che di solito le genti dell’antichità in origine concepirono l’oltremondo come un luogo indistinto per poi, un po’ alla volta, approdare ad una concezione in cui sono fissate per le anime immortali precise sedi dove esse dimoreranno post mortem nonché punizioni o ricompense.
Ciò precisato, è evidente che la milionaria dissertazione di Benigni sul decalogo è priva di qualsiasi valore culturale, anche soltanto divulgativo. Questo nonostante le tronfie lodi ed i lautissimi compensi con cui è stato incensato l’abominevole spettacolo.
A proposito comunque di comandamenti, ne vorremmo suggerire uno ed è questo: “Spegnete il televisore e non siate mai benigni con Benigni”.
Articolo correlato: I veri dieci comndamenti
Se solo ci si premurasse di consultare un manuale scolastico di storia, si eviterebbe di prendere certe sonore cantonate. I Comandamenti che i bambini imparano a catechismo sono il risultato di una lunga rielaborazione culminata con Agostino nel IV sec. d.C.: le regole partorite del vescovo di Ippona poco o punto c’entrano con i precetti dettati da YHWH al suo popolo. Per nessuna ragione al mondo YHWH si sarebbe sognato di stabilire l’assurda, insensata norma “Non desiderare la donna d’altri” che dapprincipio [o come direbbe strakky: d'apprincipio] doveva suonare più o meno così: “Non gettare il malocchio sulle donne e le cose altrui”.
Il comandamento più importante e disatteso oggi da quasi tutti i “cristiani” nel mondo verteva sul divieto di farsi immagini delle cose che esistono sulla terra ed in cielo e di adorarle. La chiesa nicena eluse questa proibizione per inventarsi un Decalogo a suo uso e consumo. Sull’esecrazione dell’idolatria chi oggi insiste tra gli esponenti del clero o chi soltanto vi accenna? Tra le varie norme oggi dimenticate, ma che il dio degli Ebrei riteneva significativa menzioneremmo almeno la seguente: “Non cuocerai il capretto nel latte della madre”.
Questo rapido excursus ci permette di capire che trapiantare credenze antiche nel presente, oltre a denotare crasso analfabetismo, causa danni interpretativi irreparabili. Ogni evento ed ogni fenomeno culturale devono essere collocati nel loro milieu e studiati in rapporto alle circostanze sociali, economiche, antropologiche, spirituali etc. in cui essi si situano. Diversamente si tradisce il passato e lo si strumentalizza per fini di propaganda o, nel migliore dei casi, di becero intrattenimento.
Così sbagliano coloro che credono di poter fondare la dottrina dell’immortalità dell’anima, del Paradiso e dell’Inferno, richiamandosi alla Bibbia, in special modo alla Torah. Nella Bibbia i termini “nephesh” e “ruach” che spesso sono resi con “anima” o “spirito” non designavano un’essenza individuale imperitura.
L’oltretomba biblico è lo Sheol, simile all’Ade omerico ed a quello dei Sumeri, una plaga brumosa dove i morti sono ormai privi di coscienza e di identità. Qualche breve rimando al Paradiso ed all’Inferno come luoghi, rispettivamente, di beatitudine e di dannazione si reperisce nel Nuovo Testamento, ma sono passi contraddetti da altri e di valore metaforico, insufficienti comunque a definire una topografia precisa dell’aldilà cristiano che non esiste.
Semmai lo studio comparato delle religioni ci dimostra che di solito le genti dell’antichità in origine concepirono l’oltremondo come un luogo indistinto per poi, un po’ alla volta, approdare ad una concezione in cui sono fissate per le anime immortali precise sedi dove esse dimoreranno post mortem nonché punizioni o ricompense.
Ciò precisato, è evidente che la milionaria dissertazione di Benigni sul decalogo è priva di qualsiasi valore culturale, anche soltanto divulgativo. Questo nonostante le tronfie lodi ed i lautissimi compensi con cui è stato incensato l’abominevole spettacolo.
A proposito comunque di comandamenti, ne vorremmo suggerire uno ed è questo: “Spegnete il televisore e non siate mai benigni con Benigni”.
Articolo correlato: I veri dieci comndamenti
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Zret
Monday, July 14, 2014
Inferno - No, non quello di Dan Brown
http://zret.blogspot.it/2014/07/inferno.html

Inferno

In fondo ai rapporti sociali e ai rapporti familiari non c’è innocenza. (A. Moravia)
E’ difficile non considerare il mondo un inferno. Le relazioni umane sono infernali: rapporti sociali inautentici, aduggiati da secondi fini, ostilità latenti, insincerità, competizione; legami familiari sempre appesi ad un equilibrio precario.
Non si comprende per quale motivo continuiamo a cercare gli altri, se poi ne caviamo solo incomprensioni, dissapori, delusioni ed amarezze. Sbagliò Cesare Pavese ad uccidersi, perché non trovava una donna che lo amasse con sincerità e passione. L’amore vero è talmente raro che, se dovessero togliersi la vita tutti coloro che non sono ricambiati, il mondo sarebbe spopolato.
Esaminiamo: qui una persona lamentosa (avrà anche le sue buone ragioni per lagnarsi, ma...), là un arrogante, qui un violento, là un iracondo, qui un avaro, là un lubrico, qui un superbo, qua un invidioso... Sono uomini e donne, però, che si possono ancora sopportare, come Socrate tollerava le bizze della bisbetica consorte, Santippe.
Del tutto insoffribili sono, invece, due categorie di esseri “umani”: i superficiali e gli ipocriti. I primi sono quelli che parlano, parlano, parlano... senza mai dire niente. Sono vuoti pieni di nulla. Sono incapaci non solo di pensare, ma pure di provare sensazioni ed emozioni. Forse sono automi in sembianze più o meno umane. Sono simili a strumenti a corda, ma con una corda sola che, vibrando, produce sempre il medesimo suono.
La genia più detestabile è quella degli ipocriti: l’ipocrisia crea una terza natura, una maschera incollata tenacemente al volto. Eclissate non solo le qualità di creature viventi, ma pure le caratteristiche di esseri sociali, gli ipocriti sono una cosa sola con le loro viscose bugie ed i dolciastri infingimenti.
Quando ci troviamo al cospetto di un Tartufo, si rischia di essere avviluppati in una ragnatela appiccicosa. Purtroppo sono i simulatori ad occupare quasi tutti i posti di comando nella nostra schifosa e venefica società sicché il potere alla sopraffazione accoppia la più untuosa svenevolezza.
Non si ha requie nell’esistenza dilaniata da impegni, seccature, scadenze, problemi, preoccupazioni... Siamo ancora fortunati, se non si schianta su di noi una vera disgrazia. In ogni caso, la vita è un inferno, talora comodo e confortevole, ma pur sempre un inferno.
Non si ha requie: una volta l’uomo che cercava il silenzio e la quiete, poteva trovarla a contatto con una natura incontaminata, oggi...
Non si ha requie: la storia è una carneficina senza senso e solo per caso(?) siamo stati piazzati di qua dallo schermo televisivo dove le immagini di corpi sbudellati e di quartieri sventrati mantengono, nonostante la mediazione televisiva, l’atroce plasticità della morte, l'acre sentore del massacro.
Noi qui a chiederci – se non ci siamo del tutto assuefatti all’infernale “benessere” – il perché di tutto questo. Noi qui in questo spazioso appartamento, dotato di innumerevoli ammennicoli tecnologici rigorosamente wi-fi, con splendida vista panoramica sull’inferno.
E’ difficile non considerare il mondo un inferno. Le relazioni umane sono infernali: rapporti sociali inautentici, aduggiati da secondi fini, ostilità latenti, insincerità, competizione; legami familiari sempre appesi ad un equilibrio precario.
Non si comprende per quale motivo continuiamo a cercare gli altri, se poi ne caviamo solo incomprensioni, dissapori, delusioni ed amarezze. Sbagliò Cesare Pavese ad uccidersi, perché non trovava una donna che lo amasse con sincerità e passione. L’amore vero è talmente raro che, se dovessero togliersi la vita tutti coloro che non sono ricambiati, il mondo sarebbe spopolato.
Esaminiamo: qui una persona lamentosa (avrà anche le sue buone ragioni per lagnarsi, ma...), là un arrogante, qui un violento, là un iracondo, qui un avaro, là un lubrico, qui un superbo, qua un invidioso... Sono uomini e donne, però, che si possono ancora sopportare, come Socrate tollerava le bizze della bisbetica consorte, Santippe.
Del tutto insoffribili sono, invece, due categorie di esseri “umani”: i superficiali e gli ipocriti. I primi sono quelli che parlano, parlano, parlano... senza mai dire niente. Sono vuoti pieni di nulla. Sono incapaci non solo di pensare, ma pure di provare sensazioni ed emozioni. Forse sono automi in sembianze più o meno umane. Sono simili a strumenti a corda, ma con una corda sola che, vibrando, produce sempre il medesimo suono.
La genia più detestabile è quella degli ipocriti: l’ipocrisia crea una terza natura, una maschera incollata tenacemente al volto. Eclissate non solo le qualità di creature viventi, ma pure le caratteristiche di esseri sociali, gli ipocriti sono una cosa sola con le loro viscose bugie ed i dolciastri infingimenti.
Quando ci troviamo al cospetto di un Tartufo, si rischia di essere avviluppati in una ragnatela appiccicosa. Purtroppo sono i simulatori ad occupare quasi tutti i posti di comando nella nostra schifosa e venefica società sicché il potere alla sopraffazione accoppia la più untuosa svenevolezza.
Non si ha requie nell’esistenza dilaniata da impegni, seccature, scadenze, problemi, preoccupazioni... Siamo ancora fortunati, se non si schianta su di noi una vera disgrazia. In ogni caso, la vita è un inferno, talora comodo e confortevole, ma pur sempre un inferno.
Non si ha requie: una volta l’uomo che cercava il silenzio e la quiete, poteva trovarla a contatto con una natura incontaminata, oggi...
Non si ha requie: la storia è una carneficina senza senso e solo per caso(?) siamo stati piazzati di qua dallo schermo televisivo dove le immagini di corpi sbudellati e di quartieri sventrati mantengono, nonostante la mediazione televisiva, l’atroce plasticità della morte, l'acre sentore del massacro.
Noi qui a chiederci – se non ci siamo del tutto assuefatti all’infernale “benessere” – il perché di tutto questo. Noi qui in questo spazioso appartamento, dotato di innumerevoli ammennicoli tecnologici rigorosamente wi-fi, con splendida vista panoramica sull’inferno.
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ZretSunday, May 25, 2014
Dall'Eden all'Inferno
http://zret.blogspot.it/2014/05/dalleden-allinferno_24.html
Dall'Eden all'Inferno

Francesca
Stavrakopoulou, biblista ed archeologa, appartiene a quel nutrito
novero di studiosi che si approccia alla Torah secondo una rigorosa
metodologia critica. Le sue ricerche in loco l’hanno condotta a
chiedersi quale fu la vera natura dell’Eden, se gli antichi ebrei
adoravano anche una divinità femminile [zretino, anche tu dovresti adorare la divinita' femminile...], se il regno di David fu
leggendario…
Tra le varie investigazioni, quella sul giardino dell’Eden è forse la più gravida di conseguenze per una visione complessiva del testo sacro e delle interpretazioni successive. La Stavrakopoulou, comparata la cultura ebraica con le testimonianze archeologiche, storiche ed iconografiche di altri popoli medio-orientali dell’antichità, propende per l’identificazione dell’Eden con un manufatto architettonico, per la precisione con il tempio di Gerusalemme, costruito su progetto dell’architetto fenicio Hiram per volontà del re Salomone. L’ipotesi può apparire audace, soprattutto perché un tempio non è un verziere: tuttavia l’edificio era adornato con motivi vegetali (foglie di palma, melegrane etc.) e, da un punto di vista metaforico, può essere considerato il giardino di YHWH, la sua dimora.
Ha ragione la biblista, quando interpreta i Cherubini del Paradiso terrestre come ieratiche figure antropozoomorfe riconducibili a sculture simili con cui i re della Mezzaluna fertile abbellivano palazzi e templi. La Stavrakopoulou ritiene che la storia di Genesi non riguardi i progenitori di tutta l’umanità, ma solo un’etnia ed i suoi miti di fondazione. Lo stesso Adamo adombrerebbe un re giudeo detronizzato da un avversario più potente. Questa ci sembra un’esegesi forzata che soprattutto cancella lo sfondo senza dubbio sumerico di Genesi.
A ragione Zecharia Sitchin, Biagio Russo et al., come è notorio, reputano l’Eden un luogo coltivato. Il termine probabilmente origina dall'ugaritico 'dn', con il significato di "posto in cui scorre molta acqua", "luogo ben irrigato", a sua volta dall’accadico edinnu, “pianura”. La fonte è il sumero edin, eden, "steppa", "pianura". Nella Bibbia è descritto come una plaga dalla vegetazione lussureggiante e ben delimitata.
Il libro del profeta Ezechiele 28: 12- 14, ci offre una descrizione dell’Eden che taluni specialisti ritengono più antica del racconto di Genesi. YHWH si rivolge ad Ezechiele con queste parole: “Figlio dell'uomo, intona un lamento sul principe di Tiro e digli: ‘Così dice il Signore Dio, pieno di sapienza, perfetto in bellezza; in Eden, giardino di Dio, tu eri coperto d'ogni pietra preziosa, rubini, topazi, diamanti, crisoliti, onici e diaspri, zaffiri, carbonchi e smeraldi; e d'oro era il lavoro dei tuoi castoni e delle tue legature, preparato nel giorno in cui fosti creato. Eri come un cherubino ad ali spiegate a difesa; io ti posi sul monte santo di Dio e camminavi in mezzo a pietre di fuoco”.
La raffigurazione è evocativa e sembra suffragare la congettura della Stavrakopoulou, secondo cui il giardino è una sontuosa costruzione consacrata a Dio, impreziosita da gemme rutilanti e da lamine d’oro.
L’Eden era dunque a Gerusalemme? Capitale del regno ebraico dal 1070 a.C in poi, dopo la divisione della nazione in due regni, (997 a.C.), Gerusalemme continuò ad essere la capitale del regno meridionale di Giuda. Il nome più antico della città di cui si abbia memoria è “Salem” (Ge. 14:18). Il toponimo è presumibilmente da associare ad una divinità semitica occidentale chiamata Salem. Il presunto fondatore del Cristianesimo, Shaul- Paolo (Eb. 7:2) spiega che il vero significato della seconda parte del nome è “pace”, ma pare una falsa etimologia. Nei testi accadici la città era chiamata Urusalim o Ur-sa-li-im-mu. Nel toponimo si può staccare la base Ur che significa “città” nell’idioma dei Sumeri.
I primi abitanti di Gerusalemme furono i Gebusei, un gruppo di Cananei: “Urushalim”, da cui deriva “Gerusalemme”, è una parola cananea-amorrea che significa “fondato dalla divinità Shalem” e la città ha una storia che va ben oltre quella del popolo ebraico, risalendo ai Sumeri.
Gerusalemme è nota anche, per sineddoche, come Sion, toponimo dall’etimo oscuro. ll monte Sion è un'altura di 700 metri sul livello del mare. Su questo poggio si formò il nucleo originario della futura Gerusalemme.
Sitchin opina che il Monte Moriah, dove fu poi eretto il Tempio, fosse un luogo dove gli Annunaki istituirono il secondo centro di controllo della missione dopo il Diluvio universale. Prima del cataclisma, questa base era ubicata a Nippur, ma, dopo che le inondazioni sommersero la Sumeria, fu deciso di creare un altro spazio-porto proprio nel sito che in seguito ospitò Gerusalemme, città sacra per le tre religioni monoteiste medio-orientali, perché furono gli “dei” a fondarla. Sotto il basamento della Spianata delle moschee si dovrebbero trovare monoliti di eccezionali dimensioni e peso, come a Baalbek.
Che sia o no quella di Sitchin una ricostruzione fantasiosa, è incontestabile che Gerusalemme è città decisiva per Ebrei, Cristiani e Musulmani. A Gerusalemme predicarono i Messia ed il profeta Maometto fu assunto in cielo là dove oggi si staglia la scintillante Cupola della roccia.
Dante, che fu iniziato oltre che sommo poeta, riconosce il ruolo centrale della città ma – singolare scelta – vi colloca nei pressi l’ingresso dell’Inferno.
Con un volo pindarico, lungo il solco che si immerge nelle viscere del pianeta, possiamo accennare alla pellicola “Matrix” dove Zion-Sion, è l’unico centro di "Matrix” in cui gli uomini sono liberi, ma è situato (non è poi così strano) nelle profondità della Terra. Simboleggia la Terra Promessa per l'equipaggio della nave. Un simbolismo biblico ed onirico è collegato anche al nome della nave, Nebuchadnezzar (Nabucodonosor). Nebuchadnezzar, re di Babilonia, fu istruito in sogno da Dio per distruggere gli abitanti di Gerusalemme che adoravano falsi profeti.
Che Gerusalemme sia la “città della pace” donde si irradia la luce per l’umanità è forse un sogno romantico, come tutti i sogni destinati a dissiparsi con il risveglio.
Tra le varie investigazioni, quella sul giardino dell’Eden è forse la più gravida di conseguenze per una visione complessiva del testo sacro e delle interpretazioni successive. La Stavrakopoulou, comparata la cultura ebraica con le testimonianze archeologiche, storiche ed iconografiche di altri popoli medio-orientali dell’antichità, propende per l’identificazione dell’Eden con un manufatto architettonico, per la precisione con il tempio di Gerusalemme, costruito su progetto dell’architetto fenicio Hiram per volontà del re Salomone. L’ipotesi può apparire audace, soprattutto perché un tempio non è un verziere: tuttavia l’edificio era adornato con motivi vegetali (foglie di palma, melegrane etc.) e, da un punto di vista metaforico, può essere considerato il giardino di YHWH, la sua dimora.
Ha ragione la biblista, quando interpreta i Cherubini del Paradiso terrestre come ieratiche figure antropozoomorfe riconducibili a sculture simili con cui i re della Mezzaluna fertile abbellivano palazzi e templi. La Stavrakopoulou ritiene che la storia di Genesi non riguardi i progenitori di tutta l’umanità, ma solo un’etnia ed i suoi miti di fondazione. Lo stesso Adamo adombrerebbe un re giudeo detronizzato da un avversario più potente. Questa ci sembra un’esegesi forzata che soprattutto cancella lo sfondo senza dubbio sumerico di Genesi.
A ragione Zecharia Sitchin, Biagio Russo et al., come è notorio, reputano l’Eden un luogo coltivato. Il termine probabilmente origina dall'ugaritico 'dn', con il significato di "posto in cui scorre molta acqua", "luogo ben irrigato", a sua volta dall’accadico edinnu, “pianura”. La fonte è il sumero edin, eden, "steppa", "pianura". Nella Bibbia è descritto come una plaga dalla vegetazione lussureggiante e ben delimitata.
Il libro del profeta Ezechiele 28: 12- 14, ci offre una descrizione dell’Eden che taluni specialisti ritengono più antica del racconto di Genesi. YHWH si rivolge ad Ezechiele con queste parole: “Figlio dell'uomo, intona un lamento sul principe di Tiro e digli: ‘Così dice il Signore Dio, pieno di sapienza, perfetto in bellezza; in Eden, giardino di Dio, tu eri coperto d'ogni pietra preziosa, rubini, topazi, diamanti, crisoliti, onici e diaspri, zaffiri, carbonchi e smeraldi; e d'oro era il lavoro dei tuoi castoni e delle tue legature, preparato nel giorno in cui fosti creato. Eri come un cherubino ad ali spiegate a difesa; io ti posi sul monte santo di Dio e camminavi in mezzo a pietre di fuoco”.
La raffigurazione è evocativa e sembra suffragare la congettura della Stavrakopoulou, secondo cui il giardino è una sontuosa costruzione consacrata a Dio, impreziosita da gemme rutilanti e da lamine d’oro.
L’Eden era dunque a Gerusalemme? Capitale del regno ebraico dal 1070 a.C in poi, dopo la divisione della nazione in due regni, (997 a.C.), Gerusalemme continuò ad essere la capitale del regno meridionale di Giuda. Il nome più antico della città di cui si abbia memoria è “Salem” (Ge. 14:18). Il toponimo è presumibilmente da associare ad una divinità semitica occidentale chiamata Salem. Il presunto fondatore del Cristianesimo, Shaul- Paolo (Eb. 7:2) spiega che il vero significato della seconda parte del nome è “pace”, ma pare una falsa etimologia. Nei testi accadici la città era chiamata Urusalim o Ur-sa-li-im-mu. Nel toponimo si può staccare la base Ur che significa “città” nell’idioma dei Sumeri.
I primi abitanti di Gerusalemme furono i Gebusei, un gruppo di Cananei: “Urushalim”, da cui deriva “Gerusalemme”, è una parola cananea-amorrea che significa “fondato dalla divinità Shalem” e la città ha una storia che va ben oltre quella del popolo ebraico, risalendo ai Sumeri.
Gerusalemme è nota anche, per sineddoche, come Sion, toponimo dall’etimo oscuro. ll monte Sion è un'altura di 700 metri sul livello del mare. Su questo poggio si formò il nucleo originario della futura Gerusalemme.
Sitchin opina che il Monte Moriah, dove fu poi eretto il Tempio, fosse un luogo dove gli Annunaki istituirono il secondo centro di controllo della missione dopo il Diluvio universale. Prima del cataclisma, questa base era ubicata a Nippur, ma, dopo che le inondazioni sommersero la Sumeria, fu deciso di creare un altro spazio-porto proprio nel sito che in seguito ospitò Gerusalemme, città sacra per le tre religioni monoteiste medio-orientali, perché furono gli “dei” a fondarla. Sotto il basamento della Spianata delle moschee si dovrebbero trovare monoliti di eccezionali dimensioni e peso, come a Baalbek.
Che sia o no quella di Sitchin una ricostruzione fantasiosa, è incontestabile che Gerusalemme è città decisiva per Ebrei, Cristiani e Musulmani. A Gerusalemme predicarono i Messia ed il profeta Maometto fu assunto in cielo là dove oggi si staglia la scintillante Cupola della roccia.
Dante, che fu iniziato oltre che sommo poeta, riconosce il ruolo centrale della città ma – singolare scelta – vi colloca nei pressi l’ingresso dell’Inferno.
Con un volo pindarico, lungo il solco che si immerge nelle viscere del pianeta, possiamo accennare alla pellicola “Matrix” dove Zion-Sion, è l’unico centro di "Matrix” in cui gli uomini sono liberi, ma è situato (non è poi così strano) nelle profondità della Terra. Simboleggia la Terra Promessa per l'equipaggio della nave. Un simbolismo biblico ed onirico è collegato anche al nome della nave, Nebuchadnezzar (Nabucodonosor). Nebuchadnezzar, re di Babilonia, fu istruito in sogno da Dio per distruggere gli abitanti di Gerusalemme che adoravano falsi profeti.
Che Gerusalemme sia la “città della pace” donde si irradia la luce per l’umanità è forse un sogno romantico, come tutti i sogni destinati a dissiparsi con il risveglio.
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Zret
Friday, January 3, 2014
Dante e le “segrete cose”
http://zret.blogspot.it/2014/01/dante-e-le-segrete-cose.html
Dante e le “segrete cose”
Se
è vero, come è vero, che la “Commedia” è opera esoterica (si pensi alle
intuizioni di U. Foscolo, D. G. Rossetti, G. Pascoli, L. Valli, R.
Guénon...), è indubbio che il valore intimo di certi versi ci sfugge.
Dante appartiene a quel Medioevo che abbiamo definito indecifrabile:
qualcosa si è compreso, ma non siamo ancora entrati nel sancta sanctorum.

Consideriamo un passaggio del III canto (Inf. 14-21). Dante, insieme con Virgilio, si accinge ad internarsi nell’inferno, quando legge la terribile epigrafe sulla porta dell’Ade. Il pellegrino chiede alla sua guida di illustrargli il significato dell’iscrizione. Il maestro risponde:
"Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov'i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto".
Quindi...
"E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose".
Sotto il profilo esoterico, è palese che l’Inferno è il mondo dei profani, il Purgatorio evoca i gradi dell’affiliazione, il Paradiso adombra la dimensione degli iniziati. Questo è il disegno simbolico, al cui interno, però, molti particolari sono sfocati.
Per quale ragione il vate di Andes, dopo aver spiegato al viandante il senso dell’epigrafe, decide di rivelargli ulteriori “segrete cose”? In che cosa consistono codeste “segrete cose” che gli esegeti di solito interpretano con “soggetti ignoti ai vivi”?
Forse l’autore latino intende chiarire al suo discepolo che il luogo della perdizione non è interminabile, ma uno stato dell’anima che, nell’infinita misericordia divina, è destinato ad essere un giorno trasceso, come nell’escatologia di Origene?
E’ arduo rispondere. Dante era “cristiano” (anche se le accezioni dell’aggettivo “cristiano” sono molteplici e talora difformi): purtuttavia la sua Weltanschauung accoglie concezioni ai margini dell’”ortodossia”, talvolta persino catare. Ad esempio, nel canto in oggetto, il cenno alle schiere degli angeli non ribelli a Dio, ma che neppure seguirono Lucifero, trova riscontro solo nella teologia albigese.
Per un motivo o per un altro, sia il concetto di una gehenna senza termine sia quello di un inferno che un giorno lontanissimo finirà, ripugnano alla coscienza umana.
Dante, grazie alla profonda saggezza di Virgilio, riuscì a trovare la quadratura del cerchio?
Post scriptum
Il saggio di Adriana Mazzarella, “Alla ricerca di Beatrice, Il viaggio di Dante e l’uomo moderno” offre del capolavoro dantesco un’esegesi simbolico-iniziatica alla luce (a volte offuscata) della psicologia junghiana.

Consideriamo un passaggio del III canto (Inf. 14-21). Dante, insieme con Virgilio, si accinge ad internarsi nell’inferno, quando legge la terribile epigrafe sulla porta dell’Ade. Il pellegrino chiede alla sua guida di illustrargli il significato dell’iscrizione. Il maestro risponde:
"Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov'i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto".
Quindi...
"E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond'io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose".
Sotto il profilo esoterico, è palese che l’Inferno è il mondo dei profani, il Purgatorio evoca i gradi dell’affiliazione, il Paradiso adombra la dimensione degli iniziati. Questo è il disegno simbolico, al cui interno, però, molti particolari sono sfocati.
Per quale ragione il vate di Andes, dopo aver spiegato al viandante il senso dell’epigrafe, decide di rivelargli ulteriori “segrete cose”? In che cosa consistono codeste “segrete cose” che gli esegeti di solito interpretano con “soggetti ignoti ai vivi”?
Forse l’autore latino intende chiarire al suo discepolo che il luogo della perdizione non è interminabile, ma uno stato dell’anima che, nell’infinita misericordia divina, è destinato ad essere un giorno trasceso, come nell’escatologia di Origene?
E’ arduo rispondere. Dante era “cristiano” (anche se le accezioni dell’aggettivo “cristiano” sono molteplici e talora difformi): purtuttavia la sua Weltanschauung accoglie concezioni ai margini dell’”ortodossia”, talvolta persino catare. Ad esempio, nel canto in oggetto, il cenno alle schiere degli angeli non ribelli a Dio, ma che neppure seguirono Lucifero, trova riscontro solo nella teologia albigese.
Per un motivo o per un altro, sia il concetto di una gehenna senza termine sia quello di un inferno che un giorno lontanissimo finirà, ripugnano alla coscienza umana.
Dante, grazie alla profonda saggezza di Virgilio, riuscì a trovare la quadratura del cerchio?
Post scriptum
Il saggio di Adriana Mazzarella, “Alla ricerca di Beatrice, Il viaggio di Dante e l’uomo moderno” offre del capolavoro dantesco un’esegesi simbolico-iniziatica alla luce (a volte offuscata) della psicologia junghiana.
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Zret
Tuesday, December 20, 2011
Dante e l’Inferno sulla terra
http://zret.blogspot.com/2011/12/dante-e-linferno-sulla-terra.html
Dante e l’Inferno sulla terra

La passione politica nutre le pagine più fervide di Dante
ed alcune fra le sue concezioni più alte. Così, tra crude invettive ed
orizzonti utopici, si dispiega un pensiero che colloca nel fuoco della
controversia la dimensione politica.
Nella “Commedia”, il traviamento che conduce il poeta sull’orlo del precipizio, non è un generico peccato di concupiscenza, ma appunto la partecipazione alle contese intestine da cui l’autore, inorridito, prende le distanze. Non è fortuito se precisi riscontri lessicali accomunano il canto I dell’inferno ed il canto VI. L’espressione allitterante “esta selva, selvaggia ed aspra è forte” è riverberata da “la parte selvaggia”; le tre fiere del canto proemiale, disegni allegorici di altrettante disposizioni peccaminose, richiamano “superbia, invidia e avarizia… le tre faville c’hanno i cuori accesi” del canto VI.
La “selva” dello smarrimento è dunque la città, nella fattispecie Firenze, dilaniata da cruenti conflitti tra fazioni contrapposte e deturpata da vizi innominabili, in primo luogo l’esecranda cupidigia (avarizia) che apparenta il borgo alla borghesia, “la gente nova, avida di subiti guadagni”. La città-selva è divenuta, paradossamente, lo spazio selvatico per eccellenza, in antitesi all’integrità di costumi collocata più che nel contado, in un tempo irreversibilmente tramontato. Il vagheggiamento nostalgico di un’intemerata età dell’oro senza l’oro maledetto dei fiorini, rende Dante un conservatore sdegnoso nei confronti della classe e della mentalità mercantile il cui “peccato originale” è nel denaro e nell’usura.
A Cacciaguida è affidato il compito di proiettarsi, tra idealizzazione e concretezza, nell’universo dei secoli precedenti, allorquando Firenze era una cittadina "sobria e pudica". Si staglia sempre un passato da rimpiangere o un futuro cui abbandonarsi fidenti: il presente è peggiore, perché scava la carne.
Il Nostro, mediante visioni retrospettive e profezie, intreccia la realtà politica con i moventi economici e sociali, senza trascurare il declino dei poteri ecumenici, ormai corrosi da una tabe profonda.
La concezione di Dante, eminentemente politica, stenta ad addentrarsi nella caverna metapolitica. Il sommo poeta, riconducendo la decadenza e la corruzione dell’umanità, a ragioni soprattutto etiche, alla responsabilità personale, pare ignorare o ridimensionare un influsso esterno, a meno che non si s’intenda indugiare su una curiosa corrispondenza numerologica. È noto che i canti di argomento politico sono il sesto di ciascuna cantica a formare la fatidica cifra della Bestia, il 666. E’ una coincidenza o Dante riconosce nel mondo politico la manifestazione di un regno oscuro, la turpe sintomatologia di una sostanza maligna? [1]
Non sappiamo se l’Alighieri spinse lo sguardo sino a tale profondità, se il 515 eclissò del tutto o in parte il 666. Sappiamo che nell’abisso occorre gettare lo sguardo per scoprire le marcescenti radici del sistema. Merito di Dante comunque aver compreso che il mondo, quantunque ne condannasse per lo più i governanti terreni ed i sudditi indegni, è una succursale dell’Inferno.
[1] Va precisato, però, che il 6 considerato singolarmente non ha un’accezione negativa. Paolo Vinassa de Regny, nel saggio “Il pitagorismo di Dante”, ricorda: “Un numero su cui hanno posto la loro attenzione i cristiani è il sei. Agostino lo considera una perfezione geometrica. Difatti, col 6, si forma l'esagono iscritto al circolo ed i cui lati sono uguali al raggio. San Beda (Hexaëmeron, II, 1) dice: ‘Senarium numerum constat esse perfectum, quia primus suis partibus expletur, sexta videlicet, quod est unus, et tertia quæ sunt duo et dimidia quæ sunt tria. Unum enim et duo et tria faciunt sex’. Bonaventura considera il 6 altamente degno, basandosi al solito sull'autorità di Agostino. Egli dice (Psalterium David, 128): ‘Tanta est dignitatis huius numeri (senarii) quod, dicit Augustinus, opera perfecta sunt, quæ facta sunt sub senario. Inde dicitur perfectus numerus senarius’. Anche Nicomaco, nella sua Theologia aritmetica, dà al 6 un grande valore. L'idea della perfezione del 6 è rimasta anche nel nostro linguaggio: noi, difatti, diciamo assestare, mettere in sesto per mettere in ordine; ed anche al compasso diamo il nome di seste. Il sei è dunque un numero mistico, relativo specialmente all'uomo; divenne perciò simbolo della perfezione della vita umana, cioè della giustizia. Tanto questo concetto era diffuso che le città si divisero in sestieri; il Villani, difatti, nella sua Cronaca (III, 2) scrive: ‘La città... si resse in sei sestieri siccome numero perfetto'".
Nella “Commedia”, il traviamento che conduce il poeta sull’orlo del precipizio, non è un generico peccato di concupiscenza, ma appunto la partecipazione alle contese intestine da cui l’autore, inorridito, prende le distanze. Non è fortuito se precisi riscontri lessicali accomunano il canto I dell’inferno ed il canto VI. L’espressione allitterante “esta selva, selvaggia ed aspra è forte” è riverberata da “la parte selvaggia”; le tre fiere del canto proemiale, disegni allegorici di altrettante disposizioni peccaminose, richiamano “superbia, invidia e avarizia… le tre faville c’hanno i cuori accesi” del canto VI.
La “selva” dello smarrimento è dunque la città, nella fattispecie Firenze, dilaniata da cruenti conflitti tra fazioni contrapposte e deturpata da vizi innominabili, in primo luogo l’esecranda cupidigia (avarizia) che apparenta il borgo alla borghesia, “la gente nova, avida di subiti guadagni”. La città-selva è divenuta, paradossamente, lo spazio selvatico per eccellenza, in antitesi all’integrità di costumi collocata più che nel contado, in un tempo irreversibilmente tramontato. Il vagheggiamento nostalgico di un’intemerata età dell’oro senza l’oro maledetto dei fiorini, rende Dante un conservatore sdegnoso nei confronti della classe e della mentalità mercantile il cui “peccato originale” è nel denaro e nell’usura.
A Cacciaguida è affidato il compito di proiettarsi, tra idealizzazione e concretezza, nell’universo dei secoli precedenti, allorquando Firenze era una cittadina "sobria e pudica". Si staglia sempre un passato da rimpiangere o un futuro cui abbandonarsi fidenti: il presente è peggiore, perché scava la carne.
Il Nostro, mediante visioni retrospettive e profezie, intreccia la realtà politica con i moventi economici e sociali, senza trascurare il declino dei poteri ecumenici, ormai corrosi da una tabe profonda.
La concezione di Dante, eminentemente politica, stenta ad addentrarsi nella caverna metapolitica. Il sommo poeta, riconducendo la decadenza e la corruzione dell’umanità, a ragioni soprattutto etiche, alla responsabilità personale, pare ignorare o ridimensionare un influsso esterno, a meno che non si s’intenda indugiare su una curiosa corrispondenza numerologica. È noto che i canti di argomento politico sono il sesto di ciascuna cantica a formare la fatidica cifra della Bestia, il 666. E’ una coincidenza o Dante riconosce nel mondo politico la manifestazione di un regno oscuro, la turpe sintomatologia di una sostanza maligna? [1]
Non sappiamo se l’Alighieri spinse lo sguardo sino a tale profondità, se il 515 eclissò del tutto o in parte il 666. Sappiamo che nell’abisso occorre gettare lo sguardo per scoprire le marcescenti radici del sistema. Merito di Dante comunque aver compreso che il mondo, quantunque ne condannasse per lo più i governanti terreni ed i sudditi indegni, è una succursale dell’Inferno.
[1] Va precisato, però, che il 6 considerato singolarmente non ha un’accezione negativa. Paolo Vinassa de Regny, nel saggio “Il pitagorismo di Dante”, ricorda: “Un numero su cui hanno posto la loro attenzione i cristiani è il sei. Agostino lo considera una perfezione geometrica. Difatti, col 6, si forma l'esagono iscritto al circolo ed i cui lati sono uguali al raggio. San Beda (Hexaëmeron, II, 1) dice: ‘Senarium numerum constat esse perfectum, quia primus suis partibus expletur, sexta videlicet, quod est unus, et tertia quæ sunt duo et dimidia quæ sunt tria. Unum enim et duo et tria faciunt sex’. Bonaventura considera il 6 altamente degno, basandosi al solito sull'autorità di Agostino. Egli dice (Psalterium David, 128): ‘Tanta est dignitatis huius numeri (senarii) quod, dicit Augustinus, opera perfecta sunt, quæ facta sunt sub senario. Inde dicitur perfectus numerus senarius’. Anche Nicomaco, nella sua Theologia aritmetica, dà al 6 un grande valore. L'idea della perfezione del 6 è rimasta anche nel nostro linguaggio: noi, difatti, diciamo assestare, mettere in sesto per mettere in ordine; ed anche al compasso diamo il nome di seste. Il sei è dunque un numero mistico, relativo specialmente all'uomo; divenne perciò simbolo della perfezione della vita umana, cioè della giustizia. Tanto questo concetto era diffuso che le città si divisero in sestieri; il Villani, difatti, nella sua Cronaca (III, 2) scrive: ‘La città... si resse in sei sestieri siccome numero perfetto'".
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Sunday, July 11, 2010
Libertà d’esser schiavo: la condizione umana in una pagina di Carlo Michelstaedter
E con questa vi saluto e vado in spiaggia, naturalmente senza respirare.
http://zret.blogspot.com/2010/07/liberta-desser-schiavo-la-condizione.html
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Libertà d’esser schiavo: la condizione umana in una pagina di Carlo Michelstaedter

Carlo Michelstaedter (Gorizia, 1887-1910), filosofo, poeta e pittore italiano, è noto specialmente per la sua tesi di laurea, "La persuasione e la rettorica", scritto pubblicato nel 1913, dopo il suicidio dell'autore. La figura di Michelstaedter giganteggia nel panorama della cultura contemporanea per la perspicacia del pensiero e per la lucida demistificazione del sistema. Alcune sue idee, che trovano le loro matrici soprattutto in Schopenauer ed in Leopardi, preludono all'analitica esistenziale di Heidegger e sono accostabili, per la dirompente forza disgregatrice, a fondamentali nuclei del pensiero nietzchiano. M., nel saggio succitato, conduce un serrato confronto critico tra la genuina sapienza pre-socratica e la degenerazione mondana della filosofia, a partire da Platone. L'autore vede il cozzo tra il mondo autentico della persuasione (simile alla volontà di potenza, intesa come appropriazione del destino ed eroica attribuzione di senso all'esistente) ed il complesso fittizio e coercitivo della rettorica, strutturata attraverso le istituzioni (stato, economia, etica, educazione...), sentite come mascheramento e rimozione degli impulsi egoistici dell'uomo. M. vagheggia un'umanità integra che, sotto l'urgenza del dolore, trascenda l'irretimento nella sfera egocentrica per affermare dignità e libertà.
M. spazia, con eccezionale acume, tra innumerevoli temi, mettendo a nudo le contraddizioni e le storture della modernità. Non è neppure pensabile di accennare ai contenuti della tesi: tali e tanti sono i concetti esposti sì da dichiarare l'incommensurabile grandezza di questo intellettuale. La sua grandezza poi risalta ancora di più, se pensiamo ad abili parolai come Croce e Gentile, per giunta sostenitori del potere, "liberale" o "fascista" che fosse. Sui "pensatori" di oggi è bene stendere un pietoso silenzio.
Tra le pagine del testo, strazianti nella loro feroce verità e sconvolgente attualità, segnalerei, almeno, quelle sulla scuola o le considerazioni circa l'ipocrisia del diritto. Propongo all'attenzione dei lettori che - ne sono certo - saranno invogliati a leggere l'intera opera, qualora non l'abbiano già apprezzata, un passo sulla condizione dell'uomo nella società industriale, uomo inteso come essere dimidiato ed alienato. Gli strali di un'amara ironia colpiscono le reboanti illusioni hegeliane e positiviste, disintegrano la paradossale celebrazione della "libertà d’esser schiavo". Veramente, testimoniata l'irreversibile caduta nell'inferno sociale ed ontico, il suicidio di M. è il segno non di codardia di fronte all'irrazionalità dell'essere, ma la decisione consequenziale di una coscienza lungimirante ed intemerata.
"Quest’uomo del suo tempo – colla sua προθυμία (zelo) e la sua «botte di ferro» è dunque l’individuo sognato da Hegel al sommo della chiesa gotica che gli antichi ignoravano – all’ultimo momento della libera evoluzione del sistema della libertà; – egli è l’obiettivazione della libertà che è fine a sé stessa e di sé stessa gode; – e «la persona ch’egli veste» nell’esercizio della sua carica, quella è la seconda natura – la libertà morale, medio concreto che unifica l’idea e le passioni umane – fine essenziale dell’esistenza soggettiva, unione della volontà soggettiva e della volontà razionale; questa è dunque l’idea divina, ciò che Iddio ha inteso di fare col mondo per ritrovare sé stesso. – Pure io credo che la fame, il sonno, la paura – anche se li chiamiamo «volontà razionale» – restino pur sempre fame sonno e paura e così tutte l’altre cose per le quali non so dove sia tranquilla la riva al nostro egoismo, che quanto è tale tanto non può arrivare né dove siano la libertà morale e l’idea e il fine essenziale.
«Ma» mi direbbe il mio uomo «tutto ciò a me che importa? – Io so che sono sicuro e nella coscienza dei miei diritti e dei miei doveri libero e potente». Oppure con le parole di John Stuart Mill ("Saggio sulla libertà") «non è qui questione della cosiddetta libertà del volere che così inopportunamente viene contrapposta alla dottrina erroneamente detta della necessità filosofica, ma della libertà civile o sociale». Della «libertà d’esser schiavo» dunque? E va bene.
Infatti è questo che l’uomo cerca, è così che crede giungere alla gioia – né può uscire di sé per vedere di più. – Soltanto egli paga l’ignoranza col lento oscuro e continuo tormento – ch’egli non si confessa e che altri non vede – poiché il destino è come un’equazione e non si lascia ingannare.
È l’altro lato dell’iperbole. L’uomo è vivo ancora, occupa ancora uno spazio e qualche cosa piccola egli deve ancor sempre fare così ch’egli senta infinito il postulato della sicurezza.
Come all’altro lato, l’uomo non si sentiva mai tale da poter chiedere con qualche giustizia così come giusto per sé, così qui presume sempre la sufficienza della sua qualsiasi persona; e come l’altro postulava la giustizia nella liberazione dalla volontà irrazionale, così questo cerca la sicurezza nell’adattamento ad un codice di diritti e doveri: la libertà d’esser schiavo; dove l’altro domandava la soddisfazione attuale tutta in un punto, questo cerca il modo di poter continuar con sicurezza ad aver fame in tutto il futuro. E come quella era la via delle più grandi individualità che domandano un valore e lo assomigliano nella loro volontà libera e incrollabile, questa è la via del disgregamento dell’individualità, di coloro che si preoccupano della vita come se già avesse valore (sufficienza) e vivono oς eόντος l’assoluto con la previsione limitata all’attimo – ché l’uno ama e volge gli occhi al possesso totale, all’identificazione – l’altro è tenero e zelante di ciò che crede possedere, perché rimanga per lui anche in futuro, mentre tanto lo possiede quanto è posseduto. «E si rivolge alle cose che sono dietro a lui». Ricordatevi della femmina di Lot – dice Cristo 'Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva'. (Lc 17, 32-33). – Questa è la via che ognuno batte, se voglia procacciarsi il piacere della vita. Ma qui troviamo questi individui ridotti a meccanismi, previsione attuata nell’organismo, non però, come ci aspetteremmo, vittime della loro debolezza – in balìa del caso, ma «sufficienti» e sicuri come divinità. – La loro degenerazione è detta educazione civile, la loro fame è attività di progresso, la loro paura è la morale, la loro violenza, il loro odio egoistico – la spada della giustizia".
M. spazia, con eccezionale acume, tra innumerevoli temi, mettendo a nudo le contraddizioni e le storture della modernità. Non è neppure pensabile di accennare ai contenuti della tesi: tali e tanti sono i concetti esposti sì da dichiarare l'incommensurabile grandezza di questo intellettuale. La sua grandezza poi risalta ancora di più, se pensiamo ad abili parolai come Croce e Gentile, per giunta sostenitori del potere, "liberale" o "fascista" che fosse. Sui "pensatori" di oggi è bene stendere un pietoso silenzio.
Tra le pagine del testo, strazianti nella loro feroce verità e sconvolgente attualità, segnalerei, almeno, quelle sulla scuola o le considerazioni circa l'ipocrisia del diritto. Propongo all'attenzione dei lettori che - ne sono certo - saranno invogliati a leggere l'intera opera, qualora non l'abbiano già apprezzata, un passo sulla condizione dell'uomo nella società industriale, uomo inteso come essere dimidiato ed alienato. Gli strali di un'amara ironia colpiscono le reboanti illusioni hegeliane e positiviste, disintegrano la paradossale celebrazione della "libertà d’esser schiavo". Veramente, testimoniata l'irreversibile caduta nell'inferno sociale ed ontico, il suicidio di M. è il segno non di codardia di fronte all'irrazionalità dell'essere, ma la decisione consequenziale di una coscienza lungimirante ed intemerata.
"Quest’uomo del suo tempo – colla sua προθυμία (zelo) e la sua «botte di ferro» è dunque l’individuo sognato da Hegel al sommo della chiesa gotica che gli antichi ignoravano – all’ultimo momento della libera evoluzione del sistema della libertà; – egli è l’obiettivazione della libertà che è fine a sé stessa e di sé stessa gode; – e «la persona ch’egli veste» nell’esercizio della sua carica, quella è la seconda natura – la libertà morale, medio concreto che unifica l’idea e le passioni umane – fine essenziale dell’esistenza soggettiva, unione della volontà soggettiva e della volontà razionale; questa è dunque l’idea divina, ciò che Iddio ha inteso di fare col mondo per ritrovare sé stesso. – Pure io credo che la fame, il sonno, la paura – anche se li chiamiamo «volontà razionale» – restino pur sempre fame sonno e paura e così tutte l’altre cose per le quali non so dove sia tranquilla la riva al nostro egoismo, che quanto è tale tanto non può arrivare né dove siano la libertà morale e l’idea e il fine essenziale.
«Ma» mi direbbe il mio uomo «tutto ciò a me che importa? – Io so che sono sicuro e nella coscienza dei miei diritti e dei miei doveri libero e potente». Oppure con le parole di John Stuart Mill ("Saggio sulla libertà") «non è qui questione della cosiddetta libertà del volere che così inopportunamente viene contrapposta alla dottrina erroneamente detta della necessità filosofica, ma della libertà civile o sociale». Della «libertà d’esser schiavo» dunque? E va bene.
Infatti è questo che l’uomo cerca, è così che crede giungere alla gioia – né può uscire di sé per vedere di più. – Soltanto egli paga l’ignoranza col lento oscuro e continuo tormento – ch’egli non si confessa e che altri non vede – poiché il destino è come un’equazione e non si lascia ingannare.
È l’altro lato dell’iperbole. L’uomo è vivo ancora, occupa ancora uno spazio e qualche cosa piccola egli deve ancor sempre fare così ch’egli senta infinito il postulato della sicurezza.
Come all’altro lato, l’uomo non si sentiva mai tale da poter chiedere con qualche giustizia così come giusto per sé, così qui presume sempre la sufficienza della sua qualsiasi persona; e come l’altro postulava la giustizia nella liberazione dalla volontà irrazionale, così questo cerca la sicurezza nell’adattamento ad un codice di diritti e doveri: la libertà d’esser schiavo; dove l’altro domandava la soddisfazione attuale tutta in un punto, questo cerca il modo di poter continuar con sicurezza ad aver fame in tutto il futuro. E come quella era la via delle più grandi individualità che domandano un valore e lo assomigliano nella loro volontà libera e incrollabile, questa è la via del disgregamento dell’individualità, di coloro che si preoccupano della vita come se già avesse valore (sufficienza) e vivono oς eόντος l’assoluto con la previsione limitata all’attimo – ché l’uno ama e volge gli occhi al possesso totale, all’identificazione – l’altro è tenero e zelante di ciò che crede possedere, perché rimanga per lui anche in futuro, mentre tanto lo possiede quanto è posseduto. «E si rivolge alle cose che sono dietro a lui». Ricordatevi della femmina di Lot – dice Cristo 'Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva'. (Lc 17, 32-33). – Questa è la via che ognuno batte, se voglia procacciarsi il piacere della vita. Ma qui troviamo questi individui ridotti a meccanismi, previsione attuata nell’organismo, non però, come ci aspetteremmo, vittime della loro debolezza – in balìa del caso, ma «sufficienti» e sicuri come divinità. – La loro degenerazione è detta educazione civile, la loro fame è attività di progresso, la loro paura è la morale, la loro violenza, il loro odio egoistico – la spada della giustizia".
Pubblicato da Zret
Saturday, December 19, 2009
Attraversare le tenebre
http://zret.blogspot.com/2009/12/attraversare-le-tenebre.html
Attraversare le tenebre

Solo un Dio ci potrà salvare.(M. Heidegger)
Una mattina come tante... all'apparenza. Mentre, in auto, percorriamo il tragitto per raggiungere il posto di lavoro, si susseguono i fotogrammi dell'inferno, un inferno tenuto a forza fuori dalla nostra monade di illusoria normalità.
Cieli spaccati in cui naufragano stormi ebbri di follia, larve giallognole di lampioni nella nebbia, brandelli di voci, morsi di silenzio...
Un giorno come tanti... ma l'orrore è tutto intorno a noi. L'orrore è nella ragnatela invisibile che invischia le menti, nel delirio digitale, nel guazzabuglio di inutili, agonizzanti canali con i televisori presto trasformati in loculi.
Una sera come tante, con il crepuscolo invaso da meduse sanguinolente e trafitto da artigli di oscurità.
Abbiamo attraversato le tenebre, alla luce tremolante della fiaccola, ma il combustibile sta per finire ed i prossimi passi saranno nel buio più duro.
Domani come allora, quando le mani si aggrappavano a tralicci di rovi.
Una mattina come tante... all'apparenza. Mentre, in auto, percorriamo il tragitto per raggiungere il posto di lavoro, si susseguono i fotogrammi dell'inferno, un inferno tenuto a forza fuori dalla nostra monade di illusoria normalità.
Cieli spaccati in cui naufragano stormi ebbri di follia, larve giallognole di lampioni nella nebbia, brandelli di voci, morsi di silenzio...
Un giorno come tanti... ma l'orrore è tutto intorno a noi. L'orrore è nella ragnatela invisibile che invischia le menti, nel delirio digitale, nel guazzabuglio di inutili, agonizzanti canali con i televisori presto trasformati in loculi.
Una sera come tante, con il crepuscolo invaso da meduse sanguinolente e trafitto da artigli di oscurità.
Abbiamo attraversato le tenebre, alla luce tremolante della fiaccola, ma il combustibile sta per finire ed i prossimi passi saranno nel buio più duro.
Domani come allora, quando le mani si aggrappavano a tralicci di rovi.
Pubblicato da Zret
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