Scopo del Blog
Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.
Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.
Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.
Ciao e grazie della visita.
Il contenuto di questo blog non viene piu' aggiornato regolarmente. Per le ultime notizie potete andare su:
http://indipezzenti.blogspot.ch/
https://www.facebook.com/Task-Force-Butler-868476723163799/
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Tuesday, April 5, 2016
Wednesday, March 2, 2016
Nòstos - Ritorno
http://zret.blogspot.it/2016/03/nostos-ritorno.html
Come dice il proverbio, Zretino? "Chi è causa del suo mal, pianga se stesso".
E voi fratellini terrazzinati (ed anche acconguagliati) di male ve ne siete fatti tanto, insultando e diffamando le persone che avevano il solo torto di non credere ai vostri deliri.
Ora, come si dice, sono cazzi vostri.
E poi ancora con questa cazzata che "scienza" deriva da "scindere"...
https://archive.is/hxDMr
Thursday, December 10, 2015
Friday, December 19, 2014
I comandamenti del commis
su alcuni punti della rosicata sarei quasi d'accordo, ma che fatica leggere 'sta roba...
http://zret.blogspot.ch/2014/12/i-comandamenti-del-commis.html

http://zret.blogspot.ch/2014/12/i-comandamenti-del-commis.html
I comandamenti del commis

Di
recente Roberto Benigni ha imbambolato un pubblico di bambocci con due
puntate sui “dieci comandamenti”. La pantomima è rivelatrice di quanto
sia radicata l’ignoranza. Per disquisire sul Decalogo e per commentarlo,
bisognerebbe conoscere il soggetto e saperlo contestualizzare. In
verità, la ciarlatanesca rassegna sulle leggi vetero-testamentarie è
stata solo un pretesto per una pseudo-analisi della “politica” attuale,
secondo criteri falsamente moralistici e pedagogici che trasudano
ipocrisia e paternalismo. Benigni è un pessimo maestro, dolciastro e
sciocco, incapace di comprendere anche solo il senso letterale dei testi
che egli profana, mentre crede di interpretarli. Famigerate furono le
sue dilettantesche e sacrileghe “lezioni” sulla Commedia dantesca.
Se solo ci si premurasse di consultare un manuale scolastico di storia, si eviterebbe di prendere certe sonore cantonate. I Comandamenti che i bambini imparano a catechismo sono il risultato di una lunga rielaborazione culminata con Agostino nel IV sec. d.C.: le regole partorite del vescovo di Ippona poco o punto c’entrano con i precetti dettati da YHWH al suo popolo. Per nessuna ragione al mondo YHWH si sarebbe sognato di stabilire l’assurda, insensata norma “Non desiderare la donna d’altri” che dapprincipio [o come direbbe strakky: d'apprincipio] doveva suonare più o meno così: “Non gettare il malocchio sulle donne e le cose altrui”.
Il comandamento più importante e disatteso oggi da quasi tutti i “cristiani” nel mondo verteva sul divieto di farsi immagini delle cose che esistono sulla terra ed in cielo e di adorarle. La chiesa nicena eluse questa proibizione per inventarsi un Decalogo a suo uso e consumo. Sull’esecrazione dell’idolatria chi oggi insiste tra gli esponenti del clero o chi soltanto vi accenna? Tra le varie norme oggi dimenticate, ma che il dio degli Ebrei riteneva significativa menzioneremmo almeno la seguente: “Non cuocerai il capretto nel latte della madre”.
Questo rapido excursus ci permette di capire che trapiantare credenze antiche nel presente, oltre a denotare crasso analfabetismo, causa danni interpretativi irreparabili. Ogni evento ed ogni fenomeno culturale devono essere collocati nel loro milieu e studiati in rapporto alle circostanze sociali, economiche, antropologiche, spirituali etc. in cui essi si situano. Diversamente si tradisce il passato e lo si strumentalizza per fini di propaganda o, nel migliore dei casi, di becero intrattenimento.
Così sbagliano coloro che credono di poter fondare la dottrina dell’immortalità dell’anima, del Paradiso e dell’Inferno, richiamandosi alla Bibbia, in special modo alla Torah. Nella Bibbia i termini “nephesh” e “ruach” che spesso sono resi con “anima” o “spirito” non designavano un’essenza individuale imperitura.
L’oltretomba biblico è lo Sheol, simile all’Ade omerico ed a quello dei Sumeri, una plaga brumosa dove i morti sono ormai privi di coscienza e di identità. Qualche breve rimando al Paradiso ed all’Inferno come luoghi, rispettivamente, di beatitudine e di dannazione si reperisce nel Nuovo Testamento, ma sono passi contraddetti da altri e di valore metaforico, insufficienti comunque a definire una topografia precisa dell’aldilà cristiano che non esiste.
Semmai lo studio comparato delle religioni ci dimostra che di solito le genti dell’antichità in origine concepirono l’oltremondo come un luogo indistinto per poi, un po’ alla volta, approdare ad una concezione in cui sono fissate per le anime immortali precise sedi dove esse dimoreranno post mortem nonché punizioni o ricompense.
Ciò precisato, è evidente che la milionaria dissertazione di Benigni sul decalogo è priva di qualsiasi valore culturale, anche soltanto divulgativo. Questo nonostante le tronfie lodi ed i lautissimi compensi con cui è stato incensato l’abominevole spettacolo.
A proposito comunque di comandamenti, ne vorremmo suggerire uno ed è questo: “Spegnete il televisore e non siate mai benigni con Benigni”.
Articolo correlato: I veri dieci comndamenti
Se solo ci si premurasse di consultare un manuale scolastico di storia, si eviterebbe di prendere certe sonore cantonate. I Comandamenti che i bambini imparano a catechismo sono il risultato di una lunga rielaborazione culminata con Agostino nel IV sec. d.C.: le regole partorite del vescovo di Ippona poco o punto c’entrano con i precetti dettati da YHWH al suo popolo. Per nessuna ragione al mondo YHWH si sarebbe sognato di stabilire l’assurda, insensata norma “Non desiderare la donna d’altri” che dapprincipio [o come direbbe strakky: d'apprincipio] doveva suonare più o meno così: “Non gettare il malocchio sulle donne e le cose altrui”.
Il comandamento più importante e disatteso oggi da quasi tutti i “cristiani” nel mondo verteva sul divieto di farsi immagini delle cose che esistono sulla terra ed in cielo e di adorarle. La chiesa nicena eluse questa proibizione per inventarsi un Decalogo a suo uso e consumo. Sull’esecrazione dell’idolatria chi oggi insiste tra gli esponenti del clero o chi soltanto vi accenna? Tra le varie norme oggi dimenticate, ma che il dio degli Ebrei riteneva significativa menzioneremmo almeno la seguente: “Non cuocerai il capretto nel latte della madre”.
Questo rapido excursus ci permette di capire che trapiantare credenze antiche nel presente, oltre a denotare crasso analfabetismo, causa danni interpretativi irreparabili. Ogni evento ed ogni fenomeno culturale devono essere collocati nel loro milieu e studiati in rapporto alle circostanze sociali, economiche, antropologiche, spirituali etc. in cui essi si situano. Diversamente si tradisce il passato e lo si strumentalizza per fini di propaganda o, nel migliore dei casi, di becero intrattenimento.
Così sbagliano coloro che credono di poter fondare la dottrina dell’immortalità dell’anima, del Paradiso e dell’Inferno, richiamandosi alla Bibbia, in special modo alla Torah. Nella Bibbia i termini “nephesh” e “ruach” che spesso sono resi con “anima” o “spirito” non designavano un’essenza individuale imperitura.
L’oltretomba biblico è lo Sheol, simile all’Ade omerico ed a quello dei Sumeri, una plaga brumosa dove i morti sono ormai privi di coscienza e di identità. Qualche breve rimando al Paradiso ed all’Inferno come luoghi, rispettivamente, di beatitudine e di dannazione si reperisce nel Nuovo Testamento, ma sono passi contraddetti da altri e di valore metaforico, insufficienti comunque a definire una topografia precisa dell’aldilà cristiano che non esiste.
Semmai lo studio comparato delle religioni ci dimostra che di solito le genti dell’antichità in origine concepirono l’oltremondo come un luogo indistinto per poi, un po’ alla volta, approdare ad una concezione in cui sono fissate per le anime immortali precise sedi dove esse dimoreranno post mortem nonché punizioni o ricompense.
Ciò precisato, è evidente che la milionaria dissertazione di Benigni sul decalogo è priva di qualsiasi valore culturale, anche soltanto divulgativo. Questo nonostante le tronfie lodi ed i lautissimi compensi con cui è stato incensato l’abominevole spettacolo.
A proposito comunque di comandamenti, ne vorremmo suggerire uno ed è questo: “Spegnete il televisore e non siate mai benigni con Benigni”.
Articolo correlato: I veri dieci comndamenti
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Zret
Wednesday, November 26, 2014
Lost and found
http://zret.blogspot.ch/2014/11/lost-and-found.html
Lost and found

Qualche
giorno addietro, a seguito di un'operazione avventata, ho perduto,
sovrascrivendo un file di Word, una serie di articoli... in modo
irreparabile. (Non gongolino i negazionisti: le frecce nella faretra non
mancano [e l'espertone inforNatico non ha recuperato i dati? - certo che tra tutti e due non ne fate mezzo normale]). E' stata una iattura molto istruttiva. E’ fatale che tutto si
perda delle nostre fragili esistenze [no. e' da pirla]. Delle cose materiali non rimarrà
neppure la cenere. Mi viene in mente la triste ventura di Dino Campana,
il cui manoscritto, che conteneva i suoi meravigliosi componimenti, fu
smarrito da Ardengo Soffici. Campana fu costretto con una fatica immane a
ricostruire a memoria i versi.
Per proporre solo un esempio: come si sarebbe sentito Livio Andronìco, se avesse saputo che del suo poema “Odusia”, la trasposizione in latino del capolavoro omerico, la posterità avrebbe letto solo qualche magro frammento, pervenutoci per tradizione indiretta?
Ogni cosa è destinata a naufragare: al massimo resta qualche relitto su cui stanche si ostinano le onde [eh si'... viviamo gli ultimi tempi]. Così, degli articoli per sempre cancellati, riesco a rievocare solo qualche frase mutila, qualche isolato sintagma: sono brandelli affatto insufficienti per tentare di confezionare l’intero abito [per fortuna]. Rammento i titoli: una riflessione si intitolava "Silenzio dissenso", un'altra "Amnesia"... forse non a caso. Di "Amnesia" ricordo una sentenza che naturalmente resta avulsa dal contesto: "L'universo è un errore perfetto".
Chissà... a volte vale di più un solo diamante ben incastonato che un intero diadema.
Per proporre solo un esempio: come si sarebbe sentito Livio Andronìco, se avesse saputo che del suo poema “Odusia”, la trasposizione in latino del capolavoro omerico, la posterità avrebbe letto solo qualche magro frammento, pervenutoci per tradizione indiretta?
Ogni cosa è destinata a naufragare: al massimo resta qualche relitto su cui stanche si ostinano le onde [eh si'... viviamo gli ultimi tempi]. Così, degli articoli per sempre cancellati, riesco a rievocare solo qualche frase mutila, qualche isolato sintagma: sono brandelli affatto insufficienti per tentare di confezionare l’intero abito [per fortuna]. Rammento i titoli: una riflessione si intitolava "Silenzio dissenso", un'altra "Amnesia"... forse non a caso. Di "Amnesia" ricordo una sentenza che naturalmente resta avulsa dal contesto: "L'universo è un errore perfetto".
Chissà... a volte vale di più un solo diamante ben incastonato che un intero diadema.
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Zret
Tuesday, July 1, 2014
Utilizzare
sono arrivato a "depauperata"
http://zret.blogspot.it/2014/07/utilizzare.html
Utilizzare

“Utilizzare”:
questo è il verbo che imperversa oggigiorno. Orrido gallicismo, rivela
l’atteggiamento utilitaristico della nostra società. “Utilizzare”,
vocabolo che, con quella zeta geminata, è unghia che stride sul vetro,
gesso che graffia l’ardesia.
E’ il verbo che anche nei testi vergati dagli ineffabili geni del Ministero dell’istruzione (sic) è riferito agli autori che “utilizzano” le figure retoriche, il registro, le immagini... Povera lingua italiana depauperata e rovinata da inutili beoti! Non manca nei documenti ufficiali quasi mai il sostantivo “effettuazione”, abominio linguistico che non deprecheremo mai abbastanza.
Si diceva del lessema “utilizzare” affibbiato agli scrittori, come se un artista adoperasse le parole, i colori, le note... E’ il contrario! Il vero artista si abbandona alla corrente dell’ispirazione: i versi, le figure, le melodie... si affollano e brulicano attorno a lui, implorandolo di dar forma loro, di farli emergere dalla nebbia dell’inespresso e dell’indistinto alla luce adamantina dell’intuizione. Ecco che allora affiora una frase, un motivo, un soggetto.
Il vero artista è veggente, perché, come Omero, è cieco, cieco alle apparenze, mentre scruta l’ignoto ed ausculta le vibrazioni del silenzio.
Nell’antichità non si distingueva tra poeta e vate, tra aedo ed oracolo: il “vates” è colui che vede. La radice indogermanica di questo termine è probabilmente la stessa del verbo latino “video” (indoeuropeo "vid-ved") Senza dubbio si connette al nome proprio del dio germanico Wotan (Odino), il nume che, rinunciando ad un occhio, acquisisce il dono della profezia, guadagna la conoscenza delle cose soprannaturali.
Lo stesso Apollo è il dio sia delle arti sia dei vaticini.
Dunque è necessario ribaltare l’interpretazione: non è l’artista che opera delle scelte, poiché egli è scelto dall’idea, invasato dal nume, beneficiario di una rivelazione che è al tempo stesso epifania ed occultamento, grazia e condanna.
Dante lo chiarisce in modo netto, inequivocabile: “I’mi son un che, quando Amor mi spira, noto e a quel modo ch’è ditta dentro vo significando”. (Pur. XXIV, 52-54). Il concetto di ispirazione (l’ispirazione è afflato divino ed incanto) e l’idea di una voce che detta allo scrittore quanto egli annota.
Si direbbe che il vero artista non è chi possiede fantasia, ma colui che si lascia guidare dal daimon, docile ed umile, verso vette abissali.
E’ il verbo che anche nei testi vergati dagli ineffabili geni del Ministero dell’istruzione (sic) è riferito agli autori che “utilizzano” le figure retoriche, il registro, le immagini... Povera lingua italiana depauperata e rovinata da inutili beoti! Non manca nei documenti ufficiali quasi mai il sostantivo “effettuazione”, abominio linguistico che non deprecheremo mai abbastanza.
Si diceva del lessema “utilizzare” affibbiato agli scrittori, come se un artista adoperasse le parole, i colori, le note... E’ il contrario! Il vero artista si abbandona alla corrente dell’ispirazione: i versi, le figure, le melodie... si affollano e brulicano attorno a lui, implorandolo di dar forma loro, di farli emergere dalla nebbia dell’inespresso e dell’indistinto alla luce adamantina dell’intuizione. Ecco che allora affiora una frase, un motivo, un soggetto.
Il vero artista è veggente, perché, come Omero, è cieco, cieco alle apparenze, mentre scruta l’ignoto ed ausculta le vibrazioni del silenzio.
Nell’antichità non si distingueva tra poeta e vate, tra aedo ed oracolo: il “vates” è colui che vede. La radice indogermanica di questo termine è probabilmente la stessa del verbo latino “video” (indoeuropeo "vid-ved") Senza dubbio si connette al nome proprio del dio germanico Wotan (Odino), il nume che, rinunciando ad un occhio, acquisisce il dono della profezia, guadagna la conoscenza delle cose soprannaturali.
Lo stesso Apollo è il dio sia delle arti sia dei vaticini.
Dunque è necessario ribaltare l’interpretazione: non è l’artista che opera delle scelte, poiché egli è scelto dall’idea, invasato dal nume, beneficiario di una rivelazione che è al tempo stesso epifania ed occultamento, grazia e condanna.
Dante lo chiarisce in modo netto, inequivocabile: “I’mi son un che, quando Amor mi spira, noto e a quel modo ch’è ditta dentro vo significando”. (Pur. XXIV, 52-54). Il concetto di ispirazione (l’ispirazione è afflato divino ed incanto) e l’idea di una voce che detta allo scrittore quanto egli annota.
Si direbbe che il vero artista non è chi possiede fantasia, ma colui che si lascia guidare dal daimon, docile ed umile, verso vette abissali.
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Zret
Monday, March 4, 2013
The end of the word
http://zret.blogspot.co.uk/2013/02/the-end-of-word.html
The end of the word
“Parola” non è contrario di “silenzio”. La vera parola, mythos,
è permeata di silenzio. E’ agli antipodi della chiacchiera, la
condizione inane e fatua tanto ben descritta da Martin Heidegger, poiché
essa è dono del dio, disegno che intaglia l’idea.
Per avventura il vocabolo mythos condivide con il termine mystes la parte iniziale. Il mystes è l’iniziato, da un verbo “myo” che vale “tacere”, “chiudere la bocca”. Di nuovo la fratellanza tra parola e silenzio.
E’ stata dimenticata la parola fondante. Il mythos si è eclissato. Il linguaggio è scaduto nel brulichio delle ciance.
Il mythos è svaporato e, in vece sua, cagliano parole inutili, triviali, moleste. Chi oggi apprezza il suono delle parole primigenie? Chi oggi ha ancora nell’orecchio l’eco divina di verso recitato da un aedo?
Il suono non si è trasformato in rumore, che è ancora attraversato dal ritmo e persino da linee melodiche, ma nell’assordante nero dell’incomunicabilità.
La parola affondava le radici nell’invasamento del thymòs (anagramma di mythos…) per esalare verso l’iperuranio.
Oggi sproloqui e borborigmi hanno sovrastato i versi intessuti dell’armonia delle sfere.
Per avventura il vocabolo mythos condivide con il termine mystes la parte iniziale. Il mystes è l’iniziato, da un verbo “myo” che vale “tacere”, “chiudere la bocca”. Di nuovo la fratellanza tra parola e silenzio.
E’ stata dimenticata la parola fondante. Il mythos si è eclissato. Il linguaggio è scaduto nel brulichio delle ciance.
Il mythos è svaporato e, in vece sua, cagliano parole inutili, triviali, moleste. Chi oggi apprezza il suono delle parole primigenie? Chi oggi ha ancora nell’orecchio l’eco divina di verso recitato da un aedo?
Il suono non si è trasformato in rumore, che è ancora attraversato dal ritmo e persino da linee melodiche, ma nell’assordante nero dell’incomunicabilità.
La parola affondava le radici nell’invasamento del thymòs (anagramma di mythos…) per esalare verso l’iperuranio.
Oggi sproloqui e borborigmi hanno sovrastato i versi intessuti dell’armonia delle sfere.
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Zret
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Friday, February 15, 2013
Idealizzazione
http://zret.blogspot.co.uk/2013/02/idealizzazione.html
Idealizzazione
È
nell’infanzia e nell’adolescenza che abbiamo imparato ad idealizzare:
abbiamo proiettato i nostri sogni nei campioni omerici o nei cavalieri
medievali. Anche da adulti talora ci protendiamo verso il passato, come
fosse un mondo perfetto.
Certo, comparate con il nostro greve presente, le età trascorse erano splendide, ma rimarremmo disillusi, se, potendo viaggiare nel tempo, avessimo la ventura di incontrare uno degli eroi tanto ammirati. Scopriremmo pusilli, in luogo di uomini magnanimi e soprattutto l’orrore della storia ci sommergerebbe con la sua tenace uniformità.
Tuttavia quale privilegio sarebbe imbattersi nell’imperatore Giuliano e poter discorrere con lui! Oggi l’unica interlocutrice è la nostra ombra. Pallida ed inerte, sa solo ripetere le nostre vane domande. Dai, zretino, se con l'ombra di butta male prova con Rosario.
Certo, comparate con il nostro greve presente, le età trascorse erano splendide, ma rimarremmo disillusi, se, potendo viaggiare nel tempo, avessimo la ventura di incontrare uno degli eroi tanto ammirati. Scopriremmo pusilli, in luogo di uomini magnanimi e soprattutto l’orrore della storia ci sommergerebbe con la sua tenace uniformità.
Tuttavia quale privilegio sarebbe imbattersi nell’imperatore Giuliano e poter discorrere con lui! Oggi l’unica interlocutrice è la nostra ombra. Pallida ed inerte, sa solo ripetere le nostre vane domande. Dai, zretino, se con l'ombra di butta male prova con Rosario.
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Zret
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Monday, November 19, 2012
Epos
http://zret.blogspot.it/2012/11/epos.html
Epos
Paradossi e scosse dell’affabulazioneChe cosa spinge quasi tutti noi a raccontare quanto ci è accaduto? Si noti: molti ci trattengono per snocciolare episodi insignificanti e, non paghi di avercene resi partecipi una volta, ripetono l’insulsa storia ogni qual volta trovano l’appiglio idoneo. [parola di esperto di storie insulse] Non sono soltanto gli anziani ad amare la rievocazione di vicende o aneddoti del “buon tempo andato”, sebbene con il passare degli anni l’inclinazione affabulatoria si intensifichi.
Che cosa significa allora raccontare? Anzi, qual è lo scopo recondito? Ognuno ha il suo épos personale, pallidissima ombra dell’épos antico dove la diegesi di eventi archetipici assurge a simbolo, si eterna nella regione intangibile del mito. Quale differenza rispetto alla squallida e noiosa cronaca in cui si è intorpidito l’istinto narrativo! L’esposizione esemplare è stata eclissata dalla chiacchiera (Heidegger) in cui l’intreccio si sfilaccia, si sfibra. Secoli fa l’eco solenne dell’aedo scivolava nel mégaron sulle calde onde di luce che si sprigionavano dal focolare, oggi il borborigmo della chat…
“In principio era il Lògos”... che è anche racconto. Dio narra a sé stesso il suo sogno infinito, ne dipana i fili che ora si aggrovigliano ora strangolano le galassie, i sistemi solari, le creature. L’universo è un grandioso romanzo senza né capo né coda, il delirio mistico di un febbricitante.
Quando ci ritroviamo a ripercorrere un evento del passato, nel nostro piccolo, strappiamo al tempo inesorabile un brandello di significato. Ci illudiamo di averlo strappato all’esistenza che è diaspora, entropia. Essa corre a rompicollo verso il decadimento e la senescenza, verso la fine.
Dio stesso non sarà roso da una struggente nostalgia per la condizione primigenia, prima che Egli si immergesse nel sangue dello spazio, prima che Egli si incarnasse nel tempo?
Un racconto di sapore ancestrale: narra il mito ellenico che Crono (il Tempo?), [che cazzo d'interrogativo è, in greco chronos significa tempo] spodestando il genitore, Urano (il Cielo, lo Spazio?), [altro interrogativo del cazzo: ouranos vuol dire cielo] lo evirò con un falcetto. Il Tempo è lo strazio del Cielo, il supremo sacrificio compiuto dalla “fondazione del mondo”. Il sangue dell’evirazione si spande per tutto l’universo, sino nei suoi angoli più remoti, si addensa e si impasta alla sofferenza ed alla morte. Il sangue è simbolo dell’èros, della vita e dell’espiazione ed è inutile piangere sul sangue versato. [ma non era il latte?] Così solo da un nume mutilato può nascere la generazione successiva delle divinità, sorgere la creazione. Il seme deve spaccarsi e perire affinché germogli. Il cosmo può esistere solo come carneficina, anzi come fallito suicidio per opera di Dio. La morte abbraccia la vita che alla fine è strozzata in un amplesso fatale.
Sotto un portico al freddo, Dio, affamato, la barba incolta, batte i denti guasti: non ricorda chi fu né perché abbia deciso di lanciarsi nel vuoto senza paracadute. [eh?????]
Descrivere, riferire, esprimere, comunicare… per ognuno di noi viene il giorno in cui finalmente potremo raccontare non un caso rilevante, ma l’avvenimento per eccellenza.
Quel giorno, però, dalla bocca non uscirà neppure un suono. Smaniosi di raccontare a chicchessia l’unico accidente che davvero merita di essere raccontato, non troveremo nessuno che ci possa ascoltare. [allegria!]
Pubblicato da Zret felice come un condannato a morte
Wednesday, June 9, 2010
Voce
http://zret.blogspot.com/2010/06/voce.html
Voce

"Verba volant, scripta manent": questo noto detto aveva in origine significato diverso da quello che gli attribuiamo oggi. Molti credono che si riferisca all'importanza di ancorare ad un testo scritto dichiarazioni e promesse, poiché quanto espresso a voce è fugace e destinato all'oblio. Si ritiene anche che questo proverbio suggerisca la prudenza nello scrivere, perché, se le parole facilmente si dimenticano, gli scritti possono formare, soprattutto nelle mani di malintenzionati, dei documenti talora nocivi, quando siano stati vergati in un momento di malumore o sotto l'impeto di infuocate emozioni.
In verità, verba volant è la propaggine delle "alate parole", formula con cui Omero definiva i discorsi intrecciati tra gli uomini e tra gli uomini e gli dei. I suoni aleggiavano nell'etere per recare con sé echi di sentimenti, pensieri, sogni. Il suono custodiva ancora in età omerica un afflato magico, un'ombra spirituale che con il tempo si è sbiadita sino a scomparire.
Qui non occorre ricordare il valore archetipale del Logos né come Platone giudicasse l'invenzione della scrittura, attribuita dagli antichi al dio egizio Thot, invenzione di cui il filosofo scorse i danni più che i benefici. Bisognerebbe, invece, tentare di comprendere come e perché affiorò nell'uomo l'esigenza di articolare suoni per comunicare il suo mondo interiore. Fu la solitudine del silenzio a generare tale impulso? Furono solo esigenze pratiche a riempire il nulla di voci?
Ci piace pensare che la voce nacque come canto (ma fu forse un grido di fronte al riflesso della coscienza in un lago di tenebre?): il vocabolo latino "carmen" sembra confermare questo mito originario, visto che "carmen" è il componimento poetico, il canto, la formula magica. Il termine deriva da una radice “cammen” che è associata al canto rituale, al verso del gallo, nelle aree celtica ed italica, al suono in generale in ambito greco e germanico.
I confini sono labili: i rumori possono evolvere in ritmi, in partiture, voci e persino in rudimentali linee melodiche. Tutti conservano il fascino dell'invisibile: la voce è immaginifica, dipinge e plasma. La voce è il passato che permane, il tempo che non scorre, il sobbalzo di fronte ad un angolo di memoria rischiarato dal raggio di un accento.
Le voci nel buio inquietano, ma pure si librano come palpiti misteriosi di ali fra le volte e le navate di una cattedrale celeste.
In verità, verba volant è la propaggine delle "alate parole", formula con cui Omero definiva i discorsi intrecciati tra gli uomini e tra gli uomini e gli dei. I suoni aleggiavano nell'etere per recare con sé echi di sentimenti, pensieri, sogni. Il suono custodiva ancora in età omerica un afflato magico, un'ombra spirituale che con il tempo si è sbiadita sino a scomparire.
Qui non occorre ricordare il valore archetipale del Logos né come Platone giudicasse l'invenzione della scrittura, attribuita dagli antichi al dio egizio Thot, invenzione di cui il filosofo scorse i danni più che i benefici. Bisognerebbe, invece, tentare di comprendere come e perché affiorò nell'uomo l'esigenza di articolare suoni per comunicare il suo mondo interiore. Fu la solitudine del silenzio a generare tale impulso? Furono solo esigenze pratiche a riempire il nulla di voci?
Ci piace pensare che la voce nacque come canto (ma fu forse un grido di fronte al riflesso della coscienza in un lago di tenebre?): il vocabolo latino "carmen" sembra confermare questo mito originario, visto che "carmen" è il componimento poetico, il canto, la formula magica. Il termine deriva da una radice “cammen” che è associata al canto rituale, al verso del gallo, nelle aree celtica ed italica, al suono in generale in ambito greco e germanico.
I confini sono labili: i rumori possono evolvere in ritmi, in partiture, voci e persino in rudimentali linee melodiche. Tutti conservano il fascino dell'invisibile: la voce è immaginifica, dipinge e plasma. La voce è il passato che permane, il tempo che non scorre, il sobbalzo di fronte ad un angolo di memoria rischiarato dal raggio di un accento.
Le voci nel buio inquietano, ma pure si librano come palpiti misteriosi di ali fra le volte e le navate di una cattedrale celeste.
Pubblicato da Zret
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Voce
Sunday, April 18, 2010
Codice Genesi
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Codice Genesi

“Codice Genesi” è la recente pellicola per la regia dei fratelli Albert ed Allen Hughes, con Denzel Washington, Mila Kunis e Gary Oldman, tra gli interpreti principali. Il titolo originale, snaturato nella versione italiana, è l’augusto "Book of Eli", trasparente e scontata allusione alla Bibbia. In un mondo post-nucleare, cumulo di rovine e deserto punteggiato di alberi scheletriti, il protagonista, un uomo solitario, cerca di portare in salvo la Bibbia, l'opera che può offrire una speranza all'umanità del futuro. Il pellegrino è osteggiato e blandito dal malvagio Carnegie (Gary Oldman), ma - come si conviene negli intrecci più bolsi - aiutato dalla di lui figlia, Solara (Mila Kunis).
Che il filone post-apocalittico abbia ormai stuccato, Hollywood sembra non accorgersi, visto che continua ad ammannire queste produzioni in cui alla povertà delle idee si tenta di sopperire con una pletora di citazioni colte e di significati pretenziosi. Qui addirittura, tra le altre fonti, si scomoda il capolavoro di Ray Bradbury, "Fahreneit 451", per imbastire un apologo didattico dove la Bibbia diventa simbolo ambiguo del potere e della conoscenza, come se gli uomini, liberatisi della soffocante mediazione costituita dalle gerarchie sacerdotali, dovessero comunque accettare la mediazione degli interpreti.
Quale sarà l'interpretazione corretta, quella che più avvicina alla verità? Chi, se non l'eroe integerrimo ed impavido, cerca e custodisce la Gnosi? Non sono quindi casuali, benché inopportuni, i riferimenti omerici nell'ulissiaco protagonista che vede perché cieco e che a Carnegie, il quale gli domanda "Chi sei tu?", risponde: "Nessuno" (sic). I valori emblematici nel film si sprecano (dal nome Eli, adombrante il profeta Elia ed Elohim, a Solara che riempie d'acqua la borraccia del sitibondo viandante, in una prosaica evocazione dell'età acquariana) e sono simili a quelle perline scintillanti, ma di nessun valore che i visi pallidi donavano ai nativi americani per ingraziarseli o per ottenere merci pregiate.
In effetti, si adotta una furbesca captatio benevolentiae nei confronti dello spettatore medio soprattutto statunitense che sul comodino tiene la Bibbia accanto alla scatola dei sonniferi. Il testo sacro, che non bruciava nei roghi con cui gli inquisitori incendiavano i libelli degli "eretici", è l'oggetto di una devozione monolitica, di una fede che rischia di sdrucciolare nel fondamentalismo d chi brandisce la Bibbia, senza averla mai letta. Non è forse una coincidenza se, in questo come in altri lavori cinematografici, il ruolo del campione è affidato ad un attante dal nome ebraico, quasi, alla fine, la prospettiva per l'avvenire dovesse passare per un sentiero determinato. [1]
Così, nonostante la grandiosità dei campi lunghi di un film in cui sceneggiatura e soggetto hanno il fiato corto, "The Book of Eli", culmina in un'Apocalissi… ma senza alcuna Rivelazione.
[1] Si pensi al bellissimo Dark city.
Che il filone post-apocalittico abbia ormai stuccato, Hollywood sembra non accorgersi, visto che continua ad ammannire queste produzioni in cui alla povertà delle idee si tenta di sopperire con una pletora di citazioni colte e di significati pretenziosi. Qui addirittura, tra le altre fonti, si scomoda il capolavoro di Ray Bradbury, "Fahreneit 451", per imbastire un apologo didattico dove la Bibbia diventa simbolo ambiguo del potere e della conoscenza, come se gli uomini, liberatisi della soffocante mediazione costituita dalle gerarchie sacerdotali, dovessero comunque accettare la mediazione degli interpreti.
Quale sarà l'interpretazione corretta, quella che più avvicina alla verità? Chi, se non l'eroe integerrimo ed impavido, cerca e custodisce la Gnosi? Non sono quindi casuali, benché inopportuni, i riferimenti omerici nell'ulissiaco protagonista che vede perché cieco e che a Carnegie, il quale gli domanda "Chi sei tu?", risponde: "Nessuno" (sic). I valori emblematici nel film si sprecano (dal nome Eli, adombrante il profeta Elia ed Elohim, a Solara che riempie d'acqua la borraccia del sitibondo viandante, in una prosaica evocazione dell'età acquariana) e sono simili a quelle perline scintillanti, ma di nessun valore che i visi pallidi donavano ai nativi americani per ingraziarseli o per ottenere merci pregiate.
In effetti, si adotta una furbesca captatio benevolentiae nei confronti dello spettatore medio soprattutto statunitense che sul comodino tiene la Bibbia accanto alla scatola dei sonniferi. Il testo sacro, che non bruciava nei roghi con cui gli inquisitori incendiavano i libelli degli "eretici", è l'oggetto di una devozione monolitica, di una fede che rischia di sdrucciolare nel fondamentalismo d chi brandisce la Bibbia, senza averla mai letta. Non è forse una coincidenza se, in questo come in altri lavori cinematografici, il ruolo del campione è affidato ad un attante dal nome ebraico, quasi, alla fine, la prospettiva per l'avvenire dovesse passare per un sentiero determinato. [1]
Così, nonostante la grandiosità dei campi lunghi di un film in cui sceneggiatura e soggetto hanno il fiato corto, "The Book of Eli", culmina in un'Apocalissi… ma senza alcuna Rivelazione.
[1] Si pensi al bellissimo Dark city.
Pubblicato da Zret critico cinematografico
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Tuesday, March 16, 2010
L'universo onirico, una finestra sulle dimensioni ulteriori
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L'universo onirico, una finestra sulle dimensioni ulteriori

Esiste un mondo invisibile ed inconoscibile - il vero mondo senza dubbio - di cui il nostro è una frangia accessoria. (J. Cocteau)
Errano quanti asseriscono che l'uomo non può sperimentare, se non in condizioni eccezionali, l'abolizione dello spazio-tempo. I sogni, infatti, ci permettono di sospendere le coordinate della vita cosciente e di addentrarci in un territorio enigmatico. Non è mio intendimento riflettere sulla genesi delle visioni oniriche, poiché, a tutt'oggi, esse restano fondamentalmente inesplicabili, sia che si ricorra ad interpretazioni biologiche (funzioni fisiologiche di tipo cerebrale) sia che si propenda per spiegazioni metafisiche, con tutte le ipotesi intermedie. Mi pare tuttavia indubbio che il sogno sottenda sbalorditive possibilità e che apra la piccola finestra dell'io verso grandiosi orizzonti. L'attività onirica pare essere un indizio di una coscienza svincolata dalla materia: pensiamo ai pur rari sogni premonitori, ai sogni condivisi da due persone (una specie di entanglement), alle intuizioni notturne da cui dipesero le geniali creazioni di molti artisti e scienziati. Ancora pensiamo ai sogni rivelatori e fatidici. Siamo tentati di arguire che esista una dimensione in cui immagini, simboli ed eventi si intrecciano in un'ucronia atopica, per poi dipanarsi nelle esperienze oniriche. E' questo una traccia di una realtà non-fisica o per lo meno di una sfera superconscia (più che inconscia) in cui fluttuano i pensieri e le emozioni degli esseri viventi, quei pensieri che prendono forma nei sogni?
Se durante le nostre avventure oniriche siamo in grado di disintegrare il tempo e lo spazio, come di varcare i confini angusti dell'io empirico, ciò potrebbe significare che spazio, tempo ed identità personali sono illusioni o forme transeunti. Sarebbe acquisizione di non poco conto non solo perché confermerebbe che la dottrina tradizionale del mondo come maya, ma anche perché ci avvicineremmo a concepire una realtà metafisica, sottratta al dominio delle leggi naturali. Il pregiudizio materialista è difficile da estirpare ed ha allignato anche dove non ci si aspetterebbe di trovarlo. Tale pregiudizio alimenta paure ed angosce: vero è, ad esempio, che le onde elettromagnetiche e soprattutto le radiazioni ionizzanti sono dannose, ma se esse nocciono all'organismo ed alla psiche, potendo causare persino la morte e gravi disturbi mentali, nulla possono contro l'anima. E' doveroso rispettare la vita in tutte le sue forme e vale sempre il motto di Giovenale "mens sana in corpore sano", ma ritenere che l'uomo sia soltanto un insieme per quanto complesso di organi o che la sua essenza più profonda coincida con un campo elettromagnetico (o qualcosa del genere) è riduttivo e senza meno avvilente. Se così fosse, (non nego che potrebbe essere così), allora non si spiegherebbero tutti quei fenomeni sporadici, ma stupefacenti che paiono dimostrare la natura non-locale dell'anima.
Correttamente, anche se con una terminologia a tratti discutibile, Henri Bergson suppone che la mente abbia possibilità illimitate di conoscenza non dipendenti dai sensi né subordinate alle categorie spazio-temporali e che il cervello esista per fungere da filtro di tali conoscenze potenzialmente sconfinate affinché si eviti che pervengano alla mente cosciente tutte quelle informazioni che intralcerebbero il normale corso della vita. E' un'idea notevole: in primo luogo il filosofo francese lumeggia il concetto di cervello come "centralina di smistamento" dei numerosissimi segnali da cui esso è bombardato. L'encefalo legge solo un segmento del reale, organizzandoli in schemi a priori di conoscenza. Inoltre Bergson mostra come lil nous sia non un semplice serbatoio di contenuti, ma un agente transpersonale. Certo non si può ipso facto identificare questo intelletto con una sostanza metafisica, ma le sue straordinarie capacità inducono a congetturare l'esistenza di una coscienza espansa in cui i limiti connaturati alla materia sono violati.
Alcune riflessioni vengono a taglio: nell'universo multidimensionale, potrebbero albergare esseri adatti a leggere ampie parti del reale ed anche a varcare la soglia del mondo sensibile per viaggiare nel tempo e nello spazio, poiché questi due enti possono essere manipolati o perché, di fatto, essi sono privi di reale consistenza. E' possibile apprendere le tecniche o l'arte per sconfinare dall'io ed inoltrarsi in piani ulteriori?
Un'altra osservazione: se non ci liberiamo della zavorra del materialismo, anche nelle sue forme più accattivanti e "leggere", non riusciremo a concepire un quid scevro dagli influssi biologici e tecnologici e resteremo ancorati a credenze scientiste. L'hyle ed il corpo, per quanto non siano da disprezzare, possono ereditare il futuro ed aspirare alla liberazione?
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Errano quanti asseriscono che l'uomo non può sperimentare, se non in condizioni eccezionali, l'abolizione dello spazio-tempo. I sogni, infatti, ci permettono di sospendere le coordinate della vita cosciente e di addentrarci in un territorio enigmatico. Non è mio intendimento riflettere sulla genesi delle visioni oniriche, poiché, a tutt'oggi, esse restano fondamentalmente inesplicabili, sia che si ricorra ad interpretazioni biologiche (funzioni fisiologiche di tipo cerebrale) sia che si propenda per spiegazioni metafisiche, con tutte le ipotesi intermedie. Mi pare tuttavia indubbio che il sogno sottenda sbalorditive possibilità e che apra la piccola finestra dell'io verso grandiosi orizzonti. L'attività onirica pare essere un indizio di una coscienza svincolata dalla materia: pensiamo ai pur rari sogni premonitori, ai sogni condivisi da due persone (una specie di entanglement), alle intuizioni notturne da cui dipesero le geniali creazioni di molti artisti e scienziati. Ancora pensiamo ai sogni rivelatori e fatidici. Siamo tentati di arguire che esista una dimensione in cui immagini, simboli ed eventi si intrecciano in un'ucronia atopica, per poi dipanarsi nelle esperienze oniriche. E' questo una traccia di una realtà non-fisica o per lo meno di una sfera superconscia (più che inconscia) in cui fluttuano i pensieri e le emozioni degli esseri viventi, quei pensieri che prendono forma nei sogni?
Se durante le nostre avventure oniriche siamo in grado di disintegrare il tempo e lo spazio, come di varcare i confini angusti dell'io empirico, ciò potrebbe significare che spazio, tempo ed identità personali sono illusioni o forme transeunti. Sarebbe acquisizione di non poco conto non solo perché confermerebbe che la dottrina tradizionale del mondo come maya, ma anche perché ci avvicineremmo a concepire una realtà metafisica, sottratta al dominio delle leggi naturali. Il pregiudizio materialista è difficile da estirpare ed ha allignato anche dove non ci si aspetterebbe di trovarlo. Tale pregiudizio alimenta paure ed angosce: vero è, ad esempio, che le onde elettromagnetiche e soprattutto le radiazioni ionizzanti sono dannose, ma se esse nocciono all'organismo ed alla psiche, potendo causare persino la morte e gravi disturbi mentali, nulla possono contro l'anima. E' doveroso rispettare la vita in tutte le sue forme e vale sempre il motto di Giovenale "mens sana in corpore sano", ma ritenere che l'uomo sia soltanto un insieme per quanto complesso di organi o che la sua essenza più profonda coincida con un campo elettromagnetico (o qualcosa del genere) è riduttivo e senza meno avvilente. Se così fosse, (non nego che potrebbe essere così), allora non si spiegherebbero tutti quei fenomeni sporadici, ma stupefacenti che paiono dimostrare la natura non-locale dell'anima.
Correttamente, anche se con una terminologia a tratti discutibile, Henri Bergson suppone che la mente abbia possibilità illimitate di conoscenza non dipendenti dai sensi né subordinate alle categorie spazio-temporali e che il cervello esista per fungere da filtro di tali conoscenze potenzialmente sconfinate affinché si eviti che pervengano alla mente cosciente tutte quelle informazioni che intralcerebbero il normale corso della vita. E' un'idea notevole: in primo luogo il filosofo francese lumeggia il concetto di cervello come "centralina di smistamento" dei numerosissimi segnali da cui esso è bombardato. L'encefalo legge solo un segmento del reale, organizzandoli in schemi a priori di conoscenza. Inoltre Bergson mostra come lil nous sia non un semplice serbatoio di contenuti, ma un agente transpersonale. Certo non si può ipso facto identificare questo intelletto con una sostanza metafisica, ma le sue straordinarie capacità inducono a congetturare l'esistenza di una coscienza espansa in cui i limiti connaturati alla materia sono violati.
Alcune riflessioni vengono a taglio: nell'universo multidimensionale, potrebbero albergare esseri adatti a leggere ampie parti del reale ed anche a varcare la soglia del mondo sensibile per viaggiare nel tempo e nello spazio, poiché questi due enti possono essere manipolati o perché, di fatto, essi sono privi di reale consistenza. E' possibile apprendere le tecniche o l'arte per sconfinare dall'io ed inoltrarsi in piani ulteriori?
Un'altra osservazione: se non ci liberiamo della zavorra del materialismo, anche nelle sue forme più accattivanti e "leggere", non riusciremo a concepire un quid scevro dagli influssi biologici e tecnologici e resteremo ancorati a credenze scientiste. L'hyle ed il corpo, per quanto non siano da disprezzare, possono ereditare il futuro ed aspirare alla liberazione?
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