L'immensa sputtanata a Zelig

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Scopo del Blog

Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.

Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.

Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.

Ciao e grazie della visita.

Il contenuto di questo blog non viene piu' aggiornato regolarmente. Per le ultime notizie potete andare su:

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Wednesday, March 2, 2016

Nòstos - Ritorno


http://zret.blogspot.it/2016/03/nostos-ritorno.html

Come dice il proverbio, Zretino? "Chi è causa del suo mal, pianga se stesso".
E voi fratellini terrazzinati (ed anche acconguagliati) di male ve ne siete fatti tanto, insultando e diffamando le persone che avevano il solo torto di non credere ai vostri deliri.
Ora, come si dice, sono cazzi vostri.

E poi ancora con questa cazzata che "scienza" deriva da "scindere"...

https://archive.is/hxDMr


Wednesday, February 10, 2016

Thursday, December 24, 2015

Gli eventi futuri sono già scritti?


http://straker-61.blogspot.it/2015/12/gli-eventi-futuri-sono-gia-scritti.html

Le condanne sicuramente sì.


https://archive.is/R1gk2

Friday, May 8, 2015

Cartografia

sostituite "legge dell'attrazione" con "scie chimiche" e non fa una grinza

http://zret.blogspot.ch/2015/05/cartografia.html

Cartografia



Molti si chiedono se le varie tecniche per influire sul corso degli eventi e per migliorare la propria vita siano efficaci. Non è facile rispondere, perché bisognerebbe risolvere una serie di sesquipedali problemi teorici riguardanti il libero arbitrio, l’universo, il caso, il fato etc. Sono questioni che fino ad oggi nessuno è riuscito a dirimere, nonostante le pazienti, plurisecolari indagini. Si potrà quindi fornire qualche abbozzo di risposta, qualche cenno del tutto empirico ed approssimativo.

Sia chiaro che non si intende qui negare, secondo un angusto e polveroso criterio scientista, il complesso di fenomeni che eludono le relazioni di causa-effetto e le cosiddette “leggi di natura”. Esistono manifestazioni che violano la logica aristotelica nonché i parametri fissati da certa “scienza”: solo che questi fenomeni non sono ancora stati inquadrati in una teoria chiara ed esaustiva, malgrado l’impegno di certi meritevoli pionieri, né possiamo affermare che talune capacità preternaturali sono alla portata di tutti ed all’ordine del giorno. Se così fosse, grazie alla cosiddetta “legge dell’attrazione”, il pensiero positivo etc., il mondo in cui viviamo sarebbe diverso da com’è. Se inoltre la legge dell’attrazione et similia fossero davvero così immediate e facili da applicare, non sarebbe necessario sfornare sempre nuovi volumi sul tema ed organizzare dispendiosi corsi o estenuanti tirocini. Una volta che una persona padroneggia il metodo in esame, si dovrebbe creare una reazione a catena, come quando sulla Rete è pubblicato un video che, per un suo tratto di originalità o provocazione, diventa, come si suol dire oggi, “virale”.

Bisogna qui confutare un’obiezione diffusa: le tecniche in oggetto non funzionerebbero, perché è necessario raggiungere una massa critica per conseguire dei cambiamenti tangibili. Orbene, questa eccezione è priva di fondamento: infatti una presa di coscienza prescinde dal numero, visto che la Coscienza in sé è estranea a valori quantitativi. Se le tecniche non funzionano, significa che sono truffe, ben diverse da un impegnativo percorso iniziatico che può condurre a risultati solo con mille sacrifici e grazie a conoscenze esoteriche trasmesse da un vero Iniziato.

Invero, gli innumerevoli libri sulla forza del pensiero, della parola, della vibrazione, della preghiera all’angelo custode, del pensiero “quantico”, della concentrazione etc. quasi sempre rinviano ad altri testi, che sono definiti basilari, oppure tali saggi rimandano a seminari da frequentare, ad altre tecniche via via più complesse da apprendere.

Oltre all’avidità di coloro che con le loro pubblicazioni sulla legge dell’attrazione attraggono i gonzi i cui portafogli si svuotano a mano a mano che le giornate si riempiono di inutili mantra, bisogna deplorare le concezioni che sottendono tale accozzaglia di scemenze New age. Quasi sempre, infatti, questi manuali si fondano su un ingenuo, puerile nesso causale e su un'epidermica visione della vita dominata da regole elementari, da schematismi di sconvolgente piattezza. Disdicevoli sono anche l’utilitarismo, il materialismo e l’egomania su cui sono costruite molte teorie e pratiche inerenti al miglioramento individuale.

Si dimentica che la realtà, dal momento che esiste, è irrazionale e tentare di costringerla in formulette vincenti, in un vademecum per il successo, è un po’ come tracciare un disegno (bidimensionale) del globo terracqueo (tridimensionale), mantenendo invariati gli angoli, le distanze, le dimensioni dei continenti, senza incorrere dunque in deformazioni o in cambiamenti di taluni valori.

Insomma queste pseudo-filosofie non c’entrano il bersaglio [non c'entrano il bersaglio?], laddove gli orientamenti irrazionalisti paiono aderire alla realtà come una seconda pelle.

La fede - errata o giusta che sia - nella libera volizione, oggi scaduta nel fai da te, nella presunzione che non esistano limiti di alcun tipo, dovrebbe confrontarsi con l’idea che anche la più ferrea, ferma volontà potrebbe essere inscritta nel più inflessibile e tetragono dei destini.

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Thursday, February 19, 2015

Un aforisma di Seneca

http://zret.blogspot.ch/2015/02/un-aforisma-di-seneca.html

Un aforisma di Seneca

Diutius accusare fata possumus; mutare non possumus: stant dura et inexorabilia. “Possiamo accusare il destino; non possiamo cambiarlo: esso rimane tetragono ed inesorabile”.



Così scrive Seneca e, al cospetto di questa granitica sentenza, mi pare che si sfaldino come sfoglie fra le dita, tutte le fragili certezze, oggi tanto in voga, circa il potere della mente e la cosiddetta legge dell’attrazione. Possiamo lamentarci della sorte ed aggiungere a parole parole, ma le parole sono, in fin dei conti, inutili: quasi nessuno le ascolta. Quei pochi che le ascoltano non le capiscono.

Qualcuno è forse riuscito, almeno per ora, ad imprimere un diverso corso alle vicende umane, applicando le tecniche di un libro?

Possiamo nutrirci ancora di qualche illusione: una fede, una speranza, un ideale, ma la fede oggi è vacillante come la fiamma di una candela cui resta ancora solo un grumo di cera. Le speranze e gli ideali poi si sgretolano sul muro della “realtà”.

Grande lezione quella di Seneca: ci insegna ad essere sobri nelle reazioni, a non indulgere in geremiadi. Ci insegna ad accettare l’ineluttabile con forza d’animo, a non lasciarci incantare dai miraggi.

Possiamo dolerci del fato ed aggiungere a parole parole, tentare di comprendere la gymkana dell’esistenza, aggiungendo a parole parole.

Se è nella nostra indole, se è una forma di catarsi, ben venga, ma dobbiamo sapere che al destino, come al cuore, non si comanda.

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Saturday, June 14, 2014

Guicciardini e la fortuna

http://zret.blogspot.it/2014/06/guicciardini-e-la-fortuna.html

Guicciardini e la fortuna

Nei “Ricordi” Francesco Guicciardini (1483-1540) annota: “Chi considera bene non può negare che nelle cose umane la fortuna ha grandissima potestà, perché si vede che a ognora ricevono grandissimi moti da accidenti fortuiti e che non è in potestà degli uomini né a prevedergli né a schifargli: e benché lo accorgimento e sollecitudine degli uomini possa moderare molte cose, nondimeno sola non basta, ma gli bisogna ancora la buona fortuna”.

"Nel De principatibus Machiavelli aveva impostato il rapporto tra la fortuna e la virtù, risolvendolo nell’ipotesi di un possibile equilibrio fra queste due forze. Guicciardini sposta i termini del rapporto attribuendo alla fortuna una grandissima potestà, ovvero il peso maggiore e decisivo nel determinare l’esito degli eventi. L’equilibrio cercato da Machiavelli si spezza a favore di una concezione della realtà come campo degli accidenti fortuiti, dell’imprevisto e del casuale che l’uomo difficilmente riesce a fronteggiare”. (G. Baldi)

La riflessione di Guicciardini è inquadrata nel “pessimismo” che esprimerebbe lo storico a proposito della Storia. Nel linguaggio corrente “pessimismo” è sinonimo di sguardo lucido, disincantato. Che differenza rispetto ai carezzevoli discorsi sulla volontà che indirizza la vita, a guisa di un direttore d’orchestra! Che differenza rispetto ai lenocini oggi culminati nella formulazioni inerenti alla cosiddetta “legge dell’attrazione”. In codeste patinate teorie che inneggiano al libero arbitrio si intrecciano superbia ed ignoranza: la visione antropocentrica si alimenta di analfabetismo filosofico.

Con Guicciardini il maestoso edificio eretto da Machiavelli e da altri ingegni del Rinascimento crolla, poiché il baricentro si è spostato. La considerazione dei "Ricordi" è stringata, eppure densa. E’ aforistica, ma diramata in molteplici scorci. Nel breve volgere di poche righe l’intellettuale fiorentino chiama in causa le vicende umane, la sorte, l’intelligenza.

Nodale è il sintagma “accidenti fortuiti” che è ridondante, a sottolineare la forte incidenza di un caso che consuona con l’irrazionalità del mondo, l’imponderabilità del corso seguito dagli accadimenti. Poco è rimasto della visione rinascimentale saldata sulla fede nell’uomo arbitro del proprio destino, faber fortunae suae. E’ una fede che rischia di ergersi nell’hybris.

Certo, Guicciardini non è un filosofo, dunque la sua analisi non si addentra nei meandri metafisici per stabilire, di là dal senso comune, il ruolo della fortuna e della sua energia centripeta. Tuttavia il suo pensiero è un buon viatico per chi intenda saggiare la potenza di una forza ancora oggi non ben compresa, la si chiami destino, caso, determinismo.

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Sunday, November 10, 2013

La legge dell’attrazione (sesta parte – non conclude)

http://zret.blogspot.it/2013/11/la-legge-dellattrazione-sesta-parte-non.html

La legge dell’attrazione (sesta parte – non conclude)

Leggi qui la quinta parte.



Si possono considerare almeno ancora due aspetti circa lo spinoso tema. Essi valgono meno dei ragionamenti, perché sono semplici sensazioni, ma valgono di più, in quanto riverberano un barlume dell’intuizione.

Il déjà-vu non è tanto l’impressione di aver già percepito in un altro luogo ed in un altro tempo una particolare circostanza, ma la consapevolezza che in sogno o in uno stato alterato di coscienza abbiamo proprio esperito quell’evento, udito quelle parole, con quel caratteristico timbro, con l’inconfondibile colore del vissuto. L’esperienza onirica ci ha proiettato in un futuro che era passato ed è presente. Ora si squaderna innanzi a noi, in tutta la sua fatale, solenne glacialità. E’ come se quell’avvenimento fosse un quadro dinamico contro cui siamo andati a sbattere.

Sono, però, soprattutto gli artisti a sperimentare l’imperio della fatalità. Secondo il convincimento di Michelangelo, le sculture che egli cavava dal marmo erano già lì nella pietra: il genio rinascimentale si limitava a liberarle. E’ proprio così: il pittore, il musicista, lo scrittore… portano alla luce ciò che è sepolto nel sottosuolo dell’ispirazione. Essi sono archeologi. Il capolavoro attende soltanto qualcuno che sappia in quale strato sotterraneo è nascosto, qualcuno che sappia scavare. Il capolavoro esiste ab aeterno. L’arte è destino. Destino è dar forma alle idee. Il fato si esprime attraverso uomini predestinati, condannati ad esprimersi.

Se il destino esiste, esso è tutto, tutto gli appartiene: dagli eventi che cambiano un’epoca all’inclinazione del capo, dalla galassia che ne fagocita un’altra al filo d’erba su cui gocciola la rugiada.

Se il destino esiste, non hanno alcun senso i rimpianti, i rammarichi, i rimorsi, le speranze, le attese, i progetti, i se...

Immensa consolazione ed immensa costernazione per tutti noi.

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Thursday, September 26, 2013

La legge dell'attrazione (quinta parte)

http://zret.blogspot.co.uk/2013/09/la-legge-dellattrazione-quinta-parte.html

La legge dell'attrazione (quinta parte)



Leggi qui la quarta parte.

La teologia, la filosofia e la scienza hanno cercato e cercano di dirimere la controversia in merito al libero arbitrio. Alcune correnti teologiche lo ammettono, cercando (invano) di conciliarlo con la prescienza ed onnipotenza di Dio; altre con maggiore coerenza lo negano. Nell’ambito delle dottrine filosofiche le posizioni sono molto eterogenee e con innumerevoli sfumature. La scienza smentisce in toto la libera volizione umana: il determinismo perché essa collide con le ferree leggi della natura; l’indeterminismo in quanto il carattere casuale e probabilistico del microcosmo esclude l’intenzionalità.

Se dunque ci rivolgiamo alla teologia o alla scienza, dobbiamo rinunciare all’idea di libertà. Restano le variegate, ma a volte deboli, opzioni filosofiche. Sono proprio i filosofi i più strenui assertori della volizione libera. Si pensi, fra i contemporanei a Fernando Savater che, nel libro “Le domande della vita” dedica un capitolo alla “Libertà in azione”. Le sue riflessioni sono emblematiche. Leggiamo: "Gli specialisti delle relazioni tra sistema nervoso e sistema muscolare possono spiegare come accade che io muova un braccio, quando lo decido". In questo asserto notiamo un grossolano errore: gli specialisti possono descrivere secondo quali processi un segnale bioelettrico del cervello si trasmette ai muscoli del braccio, ma non spiegare davvero come ciò avvenga. Le scienze sperimentali possono illustrare i modi in cui funzionano i corpi organici e gli oggetti inorganici, non motivare, chiarire, risalire alla vera origine.

Altrove Savater scrive: “L’azione è libera, perché la sua causa è un soggetto capace di volere, di scegliere e di mettere in pratica progetti, vale a dire di realizzare intenzioni. La causa di un’azione sono io in quanto soggetto”. Ora, il pensatore spagnolo, come è ovvio, non riesce a dimostrare, se non con le tautologie, che l’essere umano è libero, ma è incline a pensare che lo sia, poiché “l’uomo sembra essere l’unico animale in grado di essere scontento di sé stesso. Il pentimento è una delle possibilità sempre aperte all’autocoscienza del libero agente”. In altre parole, la libertà è solidale con l’etica: l’una non sussiste senza l’altra, come sostiene Kant. Il filosofo tedesco, in modo onesto, ritiene che il libero volere possa essere solo postulato, essendo in sé indimostrabile.

Dall’esempio riportato si arguisce che il problema della libertà in sé interessa poco o punto, mentre sta a cuore costruire la morale su cui puntellare la responsabilità.

Molti altri aspetti meriterebbero di essere sviscerati in merito allo spinoso tema. Tuttavia per ora li accantoniamo, perché vorremmo tornare al contenuto centrale, la “legge” dell’attrazione. Il potere di attrarre significa che il pensiero agisce sulla materia e sugli eventi. Qui dobbiamo subito sgombrare il campo da un equivoco: non bisogna riferirsi alle onde cerebrali. Esse esistono ed influiscono sull’esterno, ma sono molto deboli.

Il pensiero (res cogitans), a differenza delle onde emesse dall’encefalo, non è materiale. E’ possibile che la mente (A) abbia un influsso sulla res extensa (B), ma ciò avviene quando si crea un ponte tra A e B che sono enti ontologicamente diversi. Questo ponte non può essere gettato dal soggetto agente (A), ma dalla Supermente (Dio, Coscienza), cioè se e solo se A riesce ad entrare in contatto con la Sorgente, può incidere su B, vista la discontinuità, la frattura tra pensiero e materia. Soltanto la potenza di X permette di superare lo iato. Questo potrebbe spiegare perché i fenomeni cosiddetti paranormali sono infrequenti, sempre che alcuni (ad esempio, il Poltergeist) non siano dovuti ad energie che non ci sono ancora note e non al pensiero.

Addentriamoci maggiormente. La legge dell’attrazione implica che calamitiamo gli eventi positivi, se siamo positivi; quelli negativi, se siamo negativi. Prescindiamo pure da tutti quei casi che dimostrano il contrario: sventure che si abbattono all’improvviso su persone ottimiste, giovali e viceversa. Valutiamo il fatto che il pensiero, a mo’ di magnete, dovrebbe attirare i fatti che sono contesti in movimento. Come può il pensiero (A) attrarre a sé delle situazioni che includono eventi ed oggetti (B), stante la discrepanza ontologica sopra indicata?

E’ vero che a volte si ottiene ciò che con ardore si desidera: ci si convince così di poter determinare il corso degli eventi. Di tale correlazione si hanno indizi solo soggettivi, accidentali, non probanti. Quasi sempre i guru di codesta legge insegnano ad attrarre denaro, successo e salute: i primi due sono obiettivi materialistici ed egoistici. La legge dell’attrazione, che è presentata come una risorsa spirituale, si inquadra così in una cornice molto meschina.

Ad ogni modo, la vera felicità non coincide del tutto con i beni concreti. La legge dell’attrazione sembra fallire miseramente proprio nel mondo degli affetti e delle gratificazioni interiori che sovente dipendono da una svolta nella vita. E’ un cambiamento di direzione che non si manifesta mai, nonostante tutta l’intenzione che possiamo concentrare su di essa.

Il pensiero è simile ad una mosca che vede di là dal vetro l’aria e la libertà, ma che non può in nessun modo uscire, continuando a sbattere sulla superficie trasparente. L’abbiamo definita frattura, discontinuità, ma la si può pure chiamare intercapedine, parete. Lo Spirito (A) pare prigioniero nella sua torre d’avorio, incapace di uscirne e di inoltrarsi nel mondo (B). La coesistenza della Coscienza e del mondo sensibile (dualismo) ci condannano all’accettazione del fato? L’unica libertà, come sostenevano gli Stoici e Spinoza, è accogliere con virile coraggio il proprio destino?


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Sunday, July 28, 2013

La legge dell'attrazione (seconda parte)

http://zret.blogspot.it/2013/07/la-legge-dellattrazione-seconda-parte.html

La legge dell'attrazione (seconda parte)

Leggi qui la prima parte

La “legge dell’attrazione” è un magnete. In parole semplici, il pensiero positivo attrae eventi favorevoli; il pensiero negativo disgrazie. Talora si ha il sentore che sia così, ma è davvero così?

Succede che una serie fausta di accadimenti sia all’improvviso interrotta da una calamità. Più di rado accade che una situazione disperata di botto conosca una risoluzione. Questi repentini cambi sono dipesi da altrettanti mutamenti del pensiero? Per favore, non invochiamo il pensiero inconscio: se è il pensiero inconscio a determinare gli accadimenti, allora codesta “legge” perde ogni valore, in quanto avulsa dall’intenzione e dalla volontà che sono conscie per definizione.

Si può poi continuare a definirla “legge”, quando anche una sola volta essa è smentita? Da un punto di vista epistemologico, no. Semmai potrebbe essere una tendenza, un orientamento in gran parte imponderabile.

Va riconosciuto che in una circostanza la legge in esame funziona. Coloro che scrivono libri sull’argomento e che soprattutto organizzano dispendiosi corsi e seminari sul potere dell’intenzione e compagnia cantando, calamitano verso di sé i metalli... soprattutto l’oro. E’ ovvio che per apprender tecniche efficaci si debbono spendere somme esorbitanti.

Nel Medioevo si soleva ripetere che “gli astri inclinano: non determinano”. E’ solo un patetico stratagemma linguistico. Se ho un piano inclinato, è inevitabile che un oggetto vi scivoli. Più o meno velocemente, secondo il grado dell’inclinazione, ma l’oggetto scivolerà.

Qualcuno obietta, affermando che una catena di accadimenti propizi o infausti si spezza a causa del karma. Che bella obiezione! Molto efficace! Si tenta di sciogliere un nodo concettuale, intrecciando un altro nodo inestricabile. E’ come se si volesse illustrare ad uno studente italiano un complesso teorema in cinese, dopo che non è stato compreso usando la lingua madre.

Altri sostengono che, quando una persona nasce (o rinasce), essa si sceglie un fato che le consentirà di “evolvere”, di “maturare”. Tuttavia davvero può scegliere o qualcuno o qualcosa impone l’opzione? Se rinasce, la scelta è condizionata dal karma, quindi non è libera. Se nasce, essa definisce un tracciato da percorrere di cui, una volta precipitata sulla terra, l’anima non ricorderà alcunché. Da una decisione inconsapevole può scaturire una consapevole azione lungo il proprio cammino?

Non sto disconoscendo l’influsso del pensiero sull’esistenza, ma credo che esso sia confinato nell’interiorità: può aiutare a tollerare la sorte rea, persino a cogliervi un disegno (inventato?). Si può diventare “saggi”, imparando ad attribuire il giusto valore alle cose, ad essere riconoscenti per quanto ci è stato elargito, a collocare l’esperienza umana nei limiti in cui essa è circoscritta. Reputo, invece, che creare il proprio destino con il potere dell’intenzione sia una chimera.

Invano cercheremo nei filosofi classici e moderni, negli artisti una posizione univoca rispetto al problema. Al Suae quisque fortunae faber “Ciascuno è artefice della propria sorte” di Appio claudio Cieco, si oppone il Fata volentes ducunt, nolentes trahunt, “Il destino conduce chi non oppone resistenza, trascina chi si ribella” di Seneca.

Si nota uno sviluppo, pur con alcune “retromarce”: mentre nei pensatori e poeti più antichi prevale il convincimento circa la necessità (emblematico il convincimento di Sofocle), in quelli successivi comincia a delinearsi l’idea del libero arbitrio che culmina con la "condanna ad essere liberi" di Sartre.

Anche il magistero evangelico è lacerato dalla contraddizione. In Matteo 10:30 è scritto: “Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono contati”. Luca 12:7 rincalza: “Anzi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati”. Questi versetti proclamano una chiara visione per cui la vita umana è decisa ab aeterno. Altri passi evangelici, invece, puntano sulla scelta, quindi sulla libera adesione all’insegnamento del Messia.

Non se ne esce: la Provvidenza e la Grazia sono, alla resa dei conti, inconciliabili con il libero arbitrio. Pertanto o si ricorre ai soliti sofismi ed al triplo salto mortale carpiato di certi teologi che provano a salvare capra e cavoli, oppure si nega in modo reciso uno dei due termini con tutte le conseguenze facilmente immaginabili.

Esiste il destino come zoccolo duro che nulla e nessuno può scalfire? Lo vedremo nella prossima parte, considerando il tema del tempo e la questione della “frattura”.


Monday, November 19, 2012

Epos


http://zret.blogspot.it/2012/11/epos.html

Epos

Paradossi e scosse dell’affabulazione


Che cosa spinge quasi tutti noi a raccontare quanto ci è accaduto? Si noti: molti ci trattengono per snocciolare episodi insignificanti e, non paghi di avercene resi partecipi una volta, ripetono l’insulsa storia ogni qual volta trovano l’appiglio idoneo. [parola di esperto di storie insulse] Non sono soltanto gli anziani ad amare la rievocazione di vicende o aneddoti del “buon tempo andato”, sebbene con il passare degli anni l’inclinazione affabulatoria si intensifichi.

Che cosa significa allora raccontare? Anzi, qual è lo scopo recondito? Ognuno ha il suo épos personale, pallidissima ombra dell’épos antico dove la diegesi di eventi archetipici assurge a simbolo, si eterna nella regione intangibile del mito. Quale differenza rispetto alla squallida e noiosa cronaca in cui si è intorpidito l’istinto narrativo! L’esposizione esemplare è stata eclissata dalla chiacchiera (Heidegger) in cui l’intreccio si sfilaccia, si sfibra. Secoli fa l’eco solenne dell’aedo scivolava nel mégaron sulle calde onde di luce che si sprigionavano dal focolare, oggi il borborigmo della chat

“In principio era il Lògos”... che è anche racconto. Dio narra a sé stesso il suo sogno infinito, ne dipana i fili che ora si aggrovigliano ora strangolano le galassie, i sistemi solari, le creature. L’universo è un grandioso romanzo senza né capo né coda, il delirio mistico di un febbricitante.

Quando ci ritroviamo a ripercorrere un evento del passato, nel nostro piccolo, strappiamo al tempo inesorabile un brandello di significato. Ci illudiamo di averlo strappato all’esistenza che è diaspora, entropia. Essa corre a rompicollo verso il decadimento e la senescenza, verso la fine.

Dio stesso non sarà roso da una struggente nostalgia per la condizione primigenia, prima che Egli si immergesse nel sangue dello spazio, prima che Egli si incarnasse nel tempo?

Un racconto di sapore ancestrale: narra il mito ellenico che Crono (il Tempo?), [che cazzo d'interrogativo è, in greco chronos significa tempo] spodestando il genitore, Urano (il Cielo, lo Spazio?), [altro interrogativo del cazzo: ouranos vuol dire cielo] lo evirò con un falcetto. Il Tempo è lo strazio del Cielo, il supremo sacrificio compiuto dalla “fondazione del mondo”. Il sangue dell’evirazione si spande per tutto l’universo, sino nei suoi angoli più remoti, si addensa e si impasta alla sofferenza ed alla morte. Il sangue è simbolo dell’èros, della vita e dell’espiazione ed è inutile piangere sul sangue versato. [ma non era il latte?] Così solo da un nume mutilato può nascere la generazione successiva delle divinità, sorgere la creazione. Il seme deve spaccarsi e perire affinché germogli. Il cosmo può esistere solo come carneficina, anzi come fallito suicidio per opera di Dio. La morte abbraccia la vita che alla fine è strozzata in un amplesso fatale.

Sotto un portico al freddo, Dio, affamato, la barba incolta, batte i denti guasti: non ricorda chi fu né perché abbia deciso di lanciarsi nel vuoto senza paracadute. [eh?????]
Descrivere, riferire, esprimere, comunicare… per ognuno di noi viene il giorno in cui finalmente potremo raccontare non un caso rilevante, ma l’avvenimento per eccellenza.

Quel giorno, però, dalla bocca non uscirà neppure un suono. Smaniosi di raccontare a chicchessia l’unico accidente che davvero merita di essere raccontato, non troveremo nessuno che ci possa ascoltare. [allegria!]





Wednesday, November 14, 2012

Reliquie del QI a una cifra di Zret


http://zret.blogspot.it/2012/11/reliquie.html

Reliquie

Quante volte ci scopriamo a rincorrrere coincidenze, sincronismi, ombre di sensi, pensando che la misera vita umana, con tutto i suoi insostenibili fardelli, sia la linea, per quanto breve e tenue, di un disegno più vasto, persino di una composizione grandiosa. Alcuni affermano, però, che la verità, è un’altra: tutto è casuale, siamo alla mercé di una sorte assurda che mena fendenti alla cieca. Dio, il senso, il fine non esistono.

Gianfranco De Turris, nella prefazione all’incolore libro di Walter Kafton-Minkel, “Mondi sotterranei Il mito della Terra cava”, riporta una riflessione del saggista che pontifica: “Gli scienziati ci spiegano com’è fatto l’universo, indipendentemente dai bisogni e dai disegni umani e ci insegnano i segreti della natura (sic). I creatori di miti ci dicono come noi, con bisogni e desideri ben definiti, reagiamo al mondo e quindi ci parlano di noi stessi”.

Codesta visione così ingenuamente dicotomica ed antiquata lascia il tempo che trova. Anzi, la scienza accademica non ha neppure sfiorato gli enigmi dell’universo, ammanendoci, nel migliore dei casi, spiegazioni che sono mappe semplificate e bidimensionali di un territorio multiforme. Per gli scientisti la natura è un cadavere da anatomizzare, qualcosa di morto e di estraneo al soggetto che la seziona, come se l’uomo medesimo non fosse parte della natura che è molto più di quel che appare.

Vero è che nel deserto dell’assurdo si può solo raccogliere qualche reliquia di significato: un legame tra visioni oniriche di due sognatori, un nome o un numero che ci perseguitano come per comunicarci una verità ulteriore, un brandello d’intonaco, ultima traccia di un mirabile affresco…

E’ vero: ci aggiriamo in un paesaggio di rovine, ma tra questi ruderi, sotto un cielo desolato, si ostina a crescere qualche ciuffo d’erba. Anche il vento grigio, che risucchia in mulinelli la polvere ed i detriti, per un istante porta l’eco radiosa di un futuro magnifico… Si spera.



Tuesday, March 20, 2012

Il problema del libero arbitrio in Searle (seconda ed ultima parte)

http://zret.blogspot.co.uk/2012/03/il-problema-del-libero-arbitrio-in.html

Il problema del libero arbitrio in Searle (seconda ed ultima parte)

Leggi qui la prima parte.

Come si vede, il problema rimane. Si deve osservare che il filosofo pone la questione in termini essenziali, bilaterali, evitando di ricorrere a categorie ed enti non indispensabili. Qui intendo seguire il suo esempio di ragionamento, pur con il rischio di qualche schematismo. Mi chiedo se il modello del cervello quantistico possa essere il presupposto del libero arbitrio: ci troviamo di fronte alla solita frattura tra il microcosmo ed il macrocosmo. Le particelle subnucleari, intrinsecamente anarchiche, dovrebbero, attraverso una serie di processi che ci sono ignoti, organizzarsi in modo da generare situazioni razionali e requisiti adatti all’esplicazione della libera volontà. Come ciò possa avvenire, ammesso che possa accadere, è un enigma. Si potrebbe congetturare che le suddette particelle siano dotate di libero arbitrio, come gli uomini: questa supposizione, però, non chiarisce, tra le altre cose, per quale motivo il cosiddetto mondo fisico sia inquadrato in “leggi” inderogabili. Quando un grave cade, precise condizioni ne determinano velocità, accelerazione, direzione. Non mi risulta che una pietra possa decidere di deviare il percorso di caduta o addirittura di salire, anziché di precipitare. Si dovrebbe postulare che, per una ragione misteriosa, il libero arbitrio si manifesta insieme con la coscienza: purtroppo non solo non sappiamo che cosa sia la coscienza né come e perché emerga, ma dovremmo poi assegnare la volizione non determinata almeno agli animali superiori, con inevitabili ripercussioni filosofiche.

Non è bastevole invocare la persuasione della libertà per fondarla: se così fosse, dovremmo affermare che i colori hanno un’esistenza reale, perché siamo sicuri che esistono nel mondo là fuori, attaccati agli oggetti. Il libero arbitrio potrebbe essere un’illusione della mente, come le illusioni ottiche generate da certe figure. Appellarsi al senso comune è ingannevole: il common sense ci induce a sentirci liberi, come ci spinge a credere che la materia sia una “cosa” esterna, concreta, oggettiva, mentre di ciò non si può essere certi. Molte credenze sono assimilate a verità, ma non è così. Se il libero arbitrio esiste, lo si potrebbe giudicare una deviazione rispetto ai processi naturali del macrocosmo che, per quanto ne sappiamo, presentano una sostanziale regolarità. L’origine ed il fine della deviazione, però, risultano oscuri, invece la coscienza (l’identità, l’io) e la fede nella volizione non condizionata potrebbero costituire una concomitanza, un’illusione nell’illusione. Questa credenza è simile a quella che ci stimola a vivere, come se fossimo immortali (e non lo siamo) o alle ingenue idee dei bambini che pensano di poter spostare gli oggetti con il pensiero.

Searle, pur assai severo con molti orientamenti materialistici, per non tradire il monismo di cui è assertore, reputa che gli stati cerebrali siano alla base degli stati mentali. Se non ci si discosta da questa interpretazione, riesce arduo spiegare come un substrato biologico possa estrinsecare una condizione che, se non è immateriale, appare comunque irriducibile, sul piano ontologico, alla sua essenza organica. Lo scotto che si deve pagare è, però, il dualismo, con tutte le disastrose dicotomie tra res cogitans e res extensa che la dualità cartesiana comporta. Di converso, abbiamo già visto quante e quali siano le antinomie e le incongruenze che infirmano i sistemi, di stampo monista, idealistici e para-idealistici. Veramente, come chiosa Searle, “il problema del libero arbitrio ci accompagnerà ancora per molto tempo. I vari tentativi di aggirarlo, come il compatibilismo, ottengono solo di farlo riemergere in un’altra forma”. Per quanto mi riguarda, sarei incline, da un punto di vista meramente teorico, a non ammettere l’esistenza del libero arbitrio. E’ impossibile dimostrarne l’esistenza e quindi costruire un’etica per di più apodittica. Né si può derivare la libera volizione da un decreto di Dio, poiché bisognerebbe introdurre un’ipostasi non accertabile per giustificare un’idea non accertabile. Sarebbe come aggiungere un anello ad una catena per tener legato un cane, ma senza attaccare la catena ad un palo.

Ammetto comunque che è arduo pronunciare l’ultima parola circa tale vexata quaestio, di fatto indecidibile, sebbene sia più facile addurre argomenti contro il libero arbitrio che a favore.

Friday, December 2, 2011

L'anima e il suo destino

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L'anima e il suo destino

“L’anima e il suo destino” è il titolo di un saggio del teologo Vito Mancuso. Il libro ha suscitato infuocate polemiche, poiché l’autore, pur dichiarandosi cattolico, mette in discussione alcuni dogmi di Santa Madre Chiesa. In effetti, mi domando per quale motivo Mancuso continui ad aderire al Cattolicesimo, visto che ne contesta gran parte della discutibile dottrina. Non intendo qui recensire il volume che non è privo di qualche pregio, benché costruito su premesse scientifiche e filosofiche alquanto farraginose. E’, però, lodevole che l’autore si interroghi circa i novissimi, sull’orizzonte ultraterreno dell’uomo, accantonate le questioni sociali o pseudo-etiche cui indulgono in modo corrivo sacerdoti e vescovi dal pulpito e soprattutto in televisione.

Il saggio in oggetto è dunque uno sprone per collocare tra parentesi temi insulsi e cercare risposte sul nostro destino. Il tema dell’immortalità dell’anima, dibattuto sin dagli albori della filosofia, è oggi per lo più ignorato: la scienza quasi sempre identifica l’anima con il cervello, dichiarandone de facto la caducità; la filosofia preferisce esplorare altri territori. Resta, però, ineludibile la domanda: che cosa ci attende, dopo che sarà conclusa l’esperienza su questo pianeta? Le risposte sono sostanzialmente tre: il nulla, l’esistenza in un altro corpo, un’altra vita in una realtà non fisica.

Tutto sommato, la prima ipotesi non è poi così indesiderabile, viste le torture e le storture della condizione umana, tormenti che non sappiamo se la morte cancellerà ipso facto o no.

A proposito della seconda possibilità, mi sono già espresso nell’articolo “
Reincarnazione” cui rimando.

Bisogna ora sfiorare la terza congettura. Qui mi comporto da avvocato del diavolo e riconosco che, nonostante gli studi condotti sulle near death experiences ed il lascito di antiche, venerande tradizioni, a tutt’oggi l’idea di immortalità dell’anima resta labile ed affidata alla fede del singolo, a meno che non si abbia esperienza delle sfere invisibili. I racconti dei “ritornati in vita”, pur essendo indizi significativi, di per sé non dimostrano molto: potrebbero essere, infatti, il risultato di ricordi e di immagini introdotti dall’”esterno”. Il tanatologo Cesare Boni, convinto assertore dell’immortalità dell’anima, asserisce che i defunti ed i luoghi scorti da chi varca il limitare tra la dimensione terrena ed il regno oltremondano sono generati dalla coscienza stessa: non sono dunque “oggettivi”, essendo archetipi sedimentati nell’inconscio che l’io desta nel momento cruciale del trapasso. Di per sé non provano che, dopo il momento fatale, si dipani un’altra vita e ci si inoltri in una plaga metafisica.

Comunque stiano le cose, è palese che l’uomo difficilmente rinuncia a nutrire la speranza che la sua identità non si perda, una volta scritta la parola “fine”.

Alcuni confidano nella resurrezione del corpo, credenza probabilmente di matrice persiana che, se non si intende il soma come un quid trascendente la pura materialità (il corpo glorioso di Shaul), rischia di sdrucciolare in una concezione grossolana, prefigurando per gli eletti un paradiso simile ad un noioso villaggio turistico. Si è che l’eternità non è nel tempo, mentre il corpo (anche rigenerato) è nello spazio-tempo, ossia in uno stato incompatibile con la beatitudine. Vogliamo forse vagheggiare un mondo in cui si conservino indefinitamente le spoglie fisiche?

Se l’anima esiste, non è ilica: così è libera dal carcere spazio-temporale, causa di ogni patimento. Il suo stato è forse contiguo ad un sereno nulla o, per lo meno, ad un’estasi leggera, eterea, impalpabile. Se l’anima non esiste, l’individualità si sbriciola con il soma e… morta lì.

Esiste la vita dopo la morte? E’ questa la domanda che echeggia nel vuoto della nostra ignoranza.

Un altro interrogativo è forse, però, più abissale: esiste la vita dopo la nascita?


Monday, September 19, 2011

Rancore

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Rancore

Strange world people kill and people hate and people talk and people kill and still I wonder wonder why why. (Ke)

Dalle incomprensioni e dalle inezie provengono i mali maggiori.

Qualche giorno addietro è morto nel mare prospiciente Ventimiglia un giovane. Stava compiendo una battuta di pesca in apnea, quando, per tentare di liberare la fiocina rimasta incagliata sul fondale, arpione con cui aveva uncinato uno scorfano, è stato colto da una sincope sicché non è potuto tornare in superficie. E’ purtroppo una delle tante tragedie che gettano nella disperazione parenti ed amici. Il luttuoso evento è poi tanto più atroce, se si considera che è una fine prematura.

Eppure questa disgrazia unisce, sebbene – lo ammetto – in un rapporto squilibrato, due vittime: anche lo scorfano arpionato ha incontrato una morte orribile, dopo una lunga agonia. Dobbiamo riconoscere che un unico inspiegabile destino di sofferenza affratella gli esseri viventi, carnefici e vittime, a tal punto che il carnefice di oggi è la vittima di domani o viceversa, a tal punto che non si sa più chi possa reputarsi davvero innocente. Così, forse, prima o dopo, come sostiene qualcuno, pagheremo il fio con usura dei nostri sbagli ed è plausibile che alcuni paghino lo scotto (anche di altre esistenze?) in anticipo. Del giovane ligure resteranno le fotografie che lo immortalano, l’espressione orgogliosa, con i suoi sanguinari trofei di pesca.

In verità, agli uomini non è concesso sconfiggere il male che domina la Terra: è solo possibile tentare di alleviare qualche sofferenza e cercare di rendere il mondo un po’ migliore di quanto non sia, anche con piccoli gesti, se non è dato compiere atti decisivi ed eroici. Tuttavia siamo alacremente impegnati proprio nelle azioni contrarie! Nota giustamente William Golding che “l’uomo produce il male, come le api producono il miele”. Così al danno ontologico, ineliminabile, aggiungiamo altri danni. Nella sventura ci accapigliamo, dando il peggio di noi stessi, come ci insegna quel grande moralista che fu Alessandro Manzoni, con l’icastica descrizione dei capponi di Renzo. Nella buona sorte il nostro egoismo si accentua in modo parossistico; nella cattiva ci dividiamo. Nessuna etica ha mai cambiato né mai cambierà lo stato delle cose.

Un filo sottile connette l’epica catastrofe, che miete migliaia di vittime, al dissapore familiare che ci avvelena intere giornate. Siamo sempre di fronte al granitico mistero del dolore, in tutte le sue manifestazioni, con tutta la sua gamma: dalla semplice contrarietà alla disperazione, passando per la delusione, il patimento psicologico, l’amarezza, lo sconforto, il cruccio. Paradossalmente un’immane tragedia talora è più facile da tollerare del rancore sordo di chi pensavamo non fosse capace di nutrire tale acredine, del tradimento di un amico(?): in fondo, la nostra vita scorre “tranquilla” come prima, se non fosse che dentro, qualcosa si è rotto... per sempre.[1]

E’ una sofferenza invisibile che traspare solo in alcuni momenti, in uno sguardo velato di tristezza, nell’improvvisa increspatura della fronte. E’ uno strazio tanto più intollerabile, perché sovente originato da motivi futili. Lascia un solco profondo nell’animo: possiamo perdonare, non dimenticare. L’esperienza non insegna alcunché. Riusciamo a rovinare tutto con il puntiglioso orgoglio.

Ancora più della malvagità annichilisce e delude la meschinità che molti uomini dimostrano: se la scelleratezza ci rende figli del Diavolo, la miseria morale testimonia un vuoto disarmante. Invano abbiamo cercato l’umanità nell’umanità: neppure si può postulare l’esistenza di un dio secondario, genitore di un’umanità tanto arida.

È come se la vita ci fosse stata data in prestito, ma ci comportiamo, quasi ne potessimo disporre ad libitum per sempre, ripetendo errori e ripicche, in una sequenza che non sembra aver fine.

Uomini siffatti da tempo non credono più in Dio: non credono in nulla, se non nel denaro e nell’ego. Neppure Dio – se esiste – crede più in codesti suoi figli. Come dargli torto?


[1] Nietzsche scrive che “gli uomini magnanimi sono incapaci di risentimento”: ha ragione, ma penso che si contino sulle dita di una mano… monca.

Wednesday, September 7, 2011

Le radici dell’esserci in Jaspers: qualche nota

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Le radici dell’esserci in Jaspers: qualche nota

Per il filosofo tedesco Karl Jaspers, l’esistenza è sempre in situazione. La situazione è l’orizzonte in cui si trova l’esistenza, in quanto Dasein, esserci, essere qui ed ora. L’uomo tende a percepire la vita come un quid che sempre trascende la condizione data, in cerca della realizzazione delle proprie possibilità. In questo senso, l’esistenza è libertà: il termine, però, non va inteso nel senso di “libero arbitrio”, come indifferenza tra molteplici opportunità equivalenti, ma come amor fati, presa di responsabilità del proprio Dasein, entro confini precisi.

Le situazioni-limite (sofferenza, senso di colpa, lotta e morte) esprimono in modo ancora più cogente la responsabilità della vita di fronte a sé stessa: gli abissi che si spalancano ad ogni passo impongono una scelta che non può essere elusa. E’ una scelta radicale: o si accetta la situazione-limite o si precipita nell’autoannientamento. L’esistenza è condanna a decidere, ma l’opzione non è un "poter essere", piuttosto "un non poter non essere".

In modo lapidario, Jaspers compendia la sua visione fatalista nell’aforisma: "Posso, perché sono costretto". Ognuno di noi assomiglia a Sisifo che spinge, con spasmi orrendi, il ponderoso macigno. Incastrato in una condizione storica ed esistenziale prestabilita e limitata, l’individuo si illude di essere libero, ma può soltanto prendere su di sé il peso del proprio destino. L’uomo non può non morire, non può non essere colpevole, non può non lottare: il naufragio delle azioni e delle opportunità dichiara la totale impossibilità di essere.

Scrive il pensatore nell’opera "Filosofia": "Io sono sempre in situazioni, io non posso vivere senza lotta e dolore. Fatalmente sono destinato alla morte… Tali situazioni sono immutabili, definitive, incomprensibili, irriducibili, non trasformabili, soltanto chiarificabili. Sono come un muro contro cui urtiamo fatalmente".

Eroico ed ostinato, l’uomo continua ad urtare contro il muro, metafora dell’inscalfibilità e dell’irrazionalità. Chi può comprendere o spiegare l’assurdo?

Mi pare che Jaspers tenda a sovrapporre al Dasein il senso di colpa: non è una colpa motivata da un errore di cui comunque non siamo responsabili, ma è stessa mancanza di fondamento dell’esistenza. La colpa è nell’esserci: per questo motivo, si traduce in una sensazione oscura, si condensa in un’ombra che accompagna la vita. E’ un’ipoteca non riscattabile, un debito che non può essere saldato. Nelle circostanze vertiginose, si radica la profondità dell’esistere: "Il mio trovarmi in una situazione sempre determinata significa che io esisto tanto più decisamente, quanto più esercito la mia azione nella situazione unica ed irripetibile".

Le esperienze abissali ci mettono in contatto, in comunicazione con il possibile senso dell’essere che, comunque, resta sempre "altro" ed "oltre", come le immani radici di un albero secolare di cui vediamo solo poche propaggini.

Wednesday, August 3, 2011

Cuore sacro

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Cuore sacro

“Cuore sacro” è il quinto episodio della saga “The secret”. Adam Mack è preso nel turbine di avventure rocambolesche sino al sacrificio di sé, pure in senso letterale o quasi: l’intreccio, sorretto da una sceneggiatura arguta, ci porta nel mondo dei Maya cosmici con le loro conturbanti tradizioni, gli oscuri oracoli, l’ossessione per il tempo.

Giuseppe Di Bernardo sa armonizzare la cronaca più truculenta con le ombre della storia occulta, in un racconto serrato dove il raffinato umorismo si alterna alla riflessione sull’ultima epoca. Così, da un lato sono sceneggiate le gustose battute tra l’eccentrico Conrad Malcor ed il quadrato Adam Mack (la sinergia tra disegno e testo genera effetti esilaranti) dall’altro sono tratteggiate situazioni labirintiche che ci spingono ad interrogarci sulla natura del reale, sulla continuità-discontinuità tra la nostra dimensione ed altri livelli di esistenza.

Mentre i piani narrativi si inclinano in un paio di analessi, tra understatement e moniti sul “tempo che stringe”, in questo numero diventa cruciale il ruolo di Soul (nomen omen), la fidanzata del protagonista, come il contrappunto ironico del carlino, una sorta di daimon socratico.

“The secret” è un albo colto e non tanto per le citazioni ed i riferimenti filosofici e scientifici che lo punteggiano, quanto per lo spessore dell’ispirazione che lo anima, per l’ampiezza delle vedute e la forza visionaria, quella che i critici sprezzanti ed incauti chiamano “complottismo”.

Questo numero lo conferma. Pur nell’intento di intrattenere, Di Bernardo, con il prezioso ausilio di Fabrizio Galliccia, artista dal tratto preciso e straordinario disegnatore di espressioni, non rinuncia a suggerire scenari ed orizzonti possibili: il ruolo preminente della Chiesa cattolica nelle congiure, l’importanza del passato che si incanala nel presente, l’esacerbazione del conflitto tra la Luce e le Tenebre, la speranza in un’umanità che possa ritrovare finalmente la propria anima.

E’ una speranza che l’autore affida all’aiutante dell’eroe, la giovane ed attraente Mayahuel: “Questi libri contengono molte profezie, ma l’uomo è dotato di libero arbitrio ed è padrone del suo destino. Per questo le profezie non si avverano mai. Sono solo indicazioni, avvertimenti.”

Se, però, non ascolteremo certi avvertimenti, abbiamo l’impressione che il destino, volenti o nolenti, si compirà.

Monday, July 25, 2011

La teoria dell’universo olografico: alcune implicazioni filosofiche

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La teoria dell’universo olografico: alcune implicazioni filosofiche

Per teoria dell’universo olografico si intende un modello interpretativo della realtà, secondo cui il mondo fenomenico è una proiezione priva di consistenza “oggettiva” ed in cui ogni parte contiene il tutto. Formulata dallo scienziato David Bohm, ripresa, con qualche variante da altri ricercatori, tale sistema è, mutatis mutandis, radicato in antiche concezioni (si pensi ai Veda) e dottrine filosofiche. Il visionario scrittore statunitense Philip K. Dick ne elaborò un’originale interpretazione.

Non approfondisco i capisaldi di tale teoria e di visioni contigue, perché li ho già discussi in parecchi articoli cui rimando, ma vorrei qui puntualizzarne alcune implicazioni.

E’ opportuna in primo luogo una riflessione linguistica: la materia è illusione (maya). Ora il termine “illusione” vale letteralmente “gioco interno” (da in e ludere): ne consegue che gli oggetti “là fuori” sono in verità nel nostro cervello. Nel cervello, che non è colpito dalla luce (fotoni), si formano le immagini delle cose che erroneamente collochiamo fuori di noi.

Sino a qui la teoria, pur contraria al senso comune che non solo distingue tra interno ed esterno, ma che attribuisce all’esterno autonomia rispetto alla coscienza, è ancora intuitiva. Diventa, però, contro-intuitiva nel momento in cui lo stesso cervello viene assimilato a tutti gli altri “oggetti”, poiché l’encefalo è visto come un elemento fallace proiettato da un quid che Bohm definisce “ordine implicito”.

Non è quindi il cervello a generare la “realtà”, ma una sorta di coscienza transpersonale: è come se Dio proiettasse le figure e gli eventi di un sogno (o incubo?). Figure ed eventi sono simulacri che gli uomini scambiano per oggetti e fatti “concreti”. Gli uomini si limitano ad osservare la pellicola quadridimensionale della creazione.

Vogliamo trarne alcune inevitabili conclusioni? Il libero arbitrio non esiste, giacché non è l’uomo con il suo cervello a generare una porzione di realtà, ma è un’unica coscienza (affine ad un elaboratore organico?) che la produce. Non solo, l’individuo non può in nessun modo incidere sugli avvenimenti e le cose. Ogni sua azione, sebbene egli non ne sia consapevole, è simile a quella di uno spettatore che in una sala cinematografica pensasse di poter interagire con gli attori del film, rivolgendosi loro, o di poter cambiare l’intreccio, magari tentando di strappare la pistola al marito-attore che sta per uccidere la moglie-attrice, rea di averlo tradito con un altro.

La teoria dell’universo olografico quindi consuona con la forma più radicale di fatalismo che si possa immaginare. Introdurre il concetto di libera volontà significherebbe disintegrarne la logica, dunque costruire un modello incompatibile con quello di cui in parola.

In questo modo l’etica risulta compromessa per due motivi: ogni azione è agita da Qualcos’altro estraneo al soggetto percipiente. Ogni azione plasma e modifica un mondo non solo già plasmato e modificato da un Altro, ma persino di per sé inconsistente ed inesistente. Intervenire su tale realtà è ininfluente, privo di significato morale, perché la realtà materiale non esiste. Parafrasando Dostoevskij, si potrebbe scrivere: “Se non esiste la materia, tutto è lecito”. E’ come se una persona fosse incarcerata per aver ucciso un suo nemico in un sogno! Come si può essere moralmente responsabili di aver assassinato un essere che è solo un’ombra?

Sono situazioni paradossali che, però, non si possono ignorare, se si vuole analizzare ed illustrare la teoria dell’universo olografico in modo rigoroso. Non è facile ignorare tale sistema che scaturisce da un’indagine coerente dell’infinitamente piccolo, cosmo rarefatto ed impalpabile, quasi sull’orlo del nulla, oltre che da una convergenza con molte dottrine tradizionali, senza dimenticare alcune conferme empiriche.

Ne consegue che l’etica si può solo basare su un postulato della ragion pratica e su un rifiuto della teoria dell’universo olografico. Tale rifiuto implica l’elaborazione di un sistema dualista con tutte le aporie che le filosofie dualiste implicano, benché anche i modelli monisti (come la teoria dell’universo olografico) incorrano in sfide concettuali non meno ostiche.

Molti altri aspetti meriterebbero di essere almeno sfiorati: qual è la natura della dimensione onirica all’interno di un cosmo olografico? Come inscrivere i sogni nel Sogno? E’ possibile conciliare tale teoria con altre che attengono alla sfera fenomenica? Se sì, a quale prezzo? Dove si situa il male in questo asettico, perfetto disegno concettuale? Altri potrà provare a rispondere a questi ed altri quesiti vertiginosi che snocciolo come altrettante sciarade.

Va rilevato che questo sistema è l’unico, tra gli schemi scientifici, che tenta di inoltrarsi nel non-manifesto, di cui non sappiamo in verità nulla e sul quale si possono formulare solo ipotesi non falsificabili. Quindi da teoria scientifica tende a configurare una dottrina filosofica.

Alla fine, lo scetticismo di Pirrone, che andava a sbattere contro gli alberi, non disponendo di un criterio di verità da cui arguire che gli alberi esistono e che sono lì dove li vediamo, pare inevitabile. Infatti non sappiamo né possiamo sapere se l’albero esista né se sia lì né perché né come etc.

Il nostro tragico destino è quello di andare a sbattere contro la vita, assai più dura e ruvida degli alberi pirrroniani.


[1] Differente è la terminologia con cui i diversi scienziati individuano questo quid: ad esempio l’italiano Sergio Corbucci lo chiama “vuoto quantomeccanico”. Giustamente Luigina Marchese preferisce definirlo “nulla”: è il nulla, infatti, a partorire il tutto. Come ciò possa avvenire, in violazione del principio del terzo escluso, con l’equazione 0 = 1, non possiamo né comprendere né spiegare, ma è un dato che può essere solo constatato.


[2] L’essere è: nessuno ha mai chiarito in modo persuasivo “perché l’essere, invece del non essere”.

Qui un'ampia e perspicua descrizione della teoria.


Wednesday, April 20, 2011

La profondità della superficie

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La profondità della superficie

Anni fa lessi di un padre ed una madre che, perduta prematuramente l’adorata figlia, notarono con sorpresa nella targa dell’automobile appartenuta alla giovane, le date della di lei morte. Fu una combinazione o il destino era scritto a tal punto che le cifre ferali furono indicate nei numeri della targa? Quante volte ci scopriamo ad individuare in lettere di insegne, in numeri di targhe, in mille frammenti di scritte ed immagini, dei segni, dei messaggi sibillini, eppure così chiari per noi, perché collegati ad una data cruciale! Qui leggiamo le iniziali della persona mancata, quivi la data del suo compleanno; addirittura un suono, affiorando dal mare dei rumori, accenna le prime note di una melodia per noi tanto pregnante. Ne traiamo presagi, conferme, ammonizioni. Sono corrispondenze casuali o tracce di un mondo ulteriore che i sensi e l’intelletto, di solito sopiti, ma ora aguzzati da un evento decisivo sino ad una percezione iperbolica, ossessiva, ci permettono di scorgere?

Quante volte le lettere di un libro che stiamo leggendo, simili a sciami di piccoli insetti, si staccano dalla pagina per attaccarsi ad una parola udita, in una concomitanza inspiegabile!

E’ arduo stabilire se, dietro il caos (apparente?) delle parvenze, si celi una trama segreta, un disegno capace di motivare quanto sembra illogico, stocastico, assurdo persino. Se è così, quale valore assumono le cifrate cifre che costellano i giorni dell’esistenza? Porsi tale domanda significa pure interrogarsi su che cosa si annidi nel numero, magico scrigno di cui abbiamo perso la chiave. Le coincidenze significative passano attraverso insignificanti sincronicità. E’ compito impari tentare di interpretarle.

Charles Baudelaire scrive che “la Natura è una foresta di simboli”: ci perdiamo in questa fitta foresta, dove a tratti un dardo di luce rischiara pochi fili d’erba. Decriptare i messaggi e poi? Si rischia di inclinare al fatalismo: così fu, perché doveva essere, come se il libero arbitrio introducesse una dose di entropia e di gratuità in un universo intimamente coeso, nonostante la frammentarietà dei fenomeni. Non sappiamo se e dove la libertà si saldi in modo inconcepibile per la nostra limitata capacità di comprendere, all’organizzazione implicita, finanche alla Provvidenza.

Le date della scomparsa incise sulla targa sono e restano un enigma, simili alle sillabe spezzate di una lingua ignota, alle lettere scalpellate su un minuscolo frammento di una tavoletta fittile.



Monday, January 10, 2011

Appunti sull'Idealismo di ieri e di oggi (terza parte)

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Appunti sull'Idealismo di ieri e di oggi (terza parte)

Leggi qui la seconda parte.

L’esperimento di Libet rischia di causare il crollo delle concezioni idealiste e neo-idealiste. Benjamin Libet è stato un fisiologo noto segnatamente per aver ideato un test in cui si voleva osservare la relazione tra azione pre-cosciente e decisione volontaria. I risultati ottenuti dal suo esperimento sembrerebbero dimostrare che il libero arbitrio non esiste.

Infatti colui che monitora il nostro cervello attraverso un sistema a scansione è in grado di sapere prima di noi ciò che noi decideremo circa mezzo secondo dopo, perché qualcuno o qualcosa, là tra i meandri dei neuroni appartenenti all’encefalo, sembra averlo pre-stabilito. Stando ai risultati di tale esperienza, l’uomo può solo decidere ciò che è già stato deciso da un quid che agisce prima che si esplichi la volizione.

E’ ovvio che l’esperimento di Libet non ha carattere conclusivo: è solo un piccolo contributo nello sforzo di lumeggiare una questione assai ostica e che si può riassumere nel dualismo tra libertà e predestinazione, tema che tanto assillò intere generazioni di teologi e di filosofi tesi a cercare di conciliare l’inconciliabile: la Provvidenza e la responsabilità umana, la “fortuna” e la “virtù” (Machiavelli), magari attribuendo in modo del tutto soggettivo delle percentuali di forza all’una o all’altra. Fortuna 50 per cento, virtù idem oppure fortuna 30 e virtù 70… Ognuno si inventa la sua percentuale, secondo il capriccio del momento: l’importante è assegnare al destino le sventure e le sconfitte, alle proprie decisioni i successi e la prosperità. Una visione molto profonda ed obiettiva!

L’uomo rinuncerebbe alla felicità, ma mai al convincimento di essere faber fortunae suae (Appio Claudio Cieco), artefice della propria sorte. Questa cieca fiducia, distintiva soprattutto della cultura occidentale, è alla base della fede dei “nuovi credenti”: non solo la libertà ci consente di operare delle scelte, ma essa si rafforza a tal punto da plasmare, almeno in una certa misura, la realtà. Anzi, la realtà stessa si assottiglia, si svuota per diventare un contenitore dell’io.

Si ripete così che siamo co-creatori: il pensiero umano contribuisce a determinare lo sviluppo degli eventi, a modellare le sembianze del flusso fenomenico. Come ciò avvenga, non è molto chiaro, ma di solito ci si appella al potere dell’intenzione, alla focalizzazione sull’obiettivo, alla legge dell’attrazione: sono tutti concetti di notevole complessità filosofica che, nei libri di improvvisati guru e di scalcinati, ma scaltri maestri, diventano formulette da applicare nella pausa post-prandium.

Purtroppo tutti questi concetti, depauperati e sovente strumentalizzati a fini commerciali, non sono indagati nelle loro valenze filosofiche. Per di più sono mischiati con ingredienti di “darwinismo cosmico e psicologico” che riassumerei nel modo seguente: l’universo duale è emanato da una Coscienza che per acquisire coscienza di sé (?) (o Conoscenza?) deve evolvere. Per evolvere è necessario che sia posto un ostacolo (il Male o qualcosa di affine: qui si nota una somiglianza con l’Idealismo di Fichte che concepiva il Non-Io, la natura come impedimento situato dall’Io, per affermare sé stesso e la sua libertà). Gli uomini sono parte della Coscienza e, attraverso esperienze oppositive diluite in diverse vite, alla fine acquisiranno la piena coscienza e la conoscenza superiore. Siamo dei. Se non lo siamo, lo diventeremo.