L'immensa sputtanata a Zelig

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Scopo del Blog

Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.

Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.

Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.

Ciao e grazie della visita.

Il contenuto di questo blog non viene piu' aggiornato regolarmente. Per le ultime notizie potete andare su:

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Tuesday, September 11, 2012

Lo scarto (titolo autobiografico)


http://zret.blogspot.com/2012/09/lo-scarto.html

Lo scarto

Abbiamo oggi tutte le risposte, anche quelle agli interrogativi abissali [tanto quanto la tua ASSOLUTA ignoranza in ogni campo dello scibile umano]. Taluni ci spiegano, infatti, che come esistono particelle di carica positiva e particelle di carica negativa, così si contrappongono, ma si conciliano, il bene ed il male. Il Dao (leggi Tao) [e allora SCRIVI Tao, no?] è lì a dimostrarlo. Senza colpo ferire, i concetti spesso controversi della fisica [Diobòno, ma quante e quante volte bisogna ripetertelo? M E C C A N I C A, NON FISICA!!!]  quantistica vengono trasferiti nel macrocosmo e persino nell’etica. [qui, un 'che cazzo stai dicendo?', ce lo metto io]

Forse si dimentica che le cariche delle particelle sono tali perché così definite, mentre non credo che la distinzione tra bene e male sia del tutto arbitraria, come fossero due princìpi intercambiabili. [che cosa minchia c'entrano cariche positive e negative col bene e il male lo sanno solo i tuoi due neuroni sciancati] L’ignavia, ostentata come somma virtù, [DA CHI? Ah, già ma parliamo di esperti mondiali del ramo, dalle parti degli straccioni del terrazzino] chiamata spesso [QUANTO spesso?] “superamento del dualismo”, è la cifra degli pseudo-spiritualisti. [ha parlato lo pseudo-intelligente] Non sappiamo quale sia l’origine del male, ma asserire o che non esiste o che è sinonimo perfetto di bene, è forse un po’ audace. [il termine più adatto mi pare MINCHIATA]

I sensisti (e lo stesso Leopardi con ben maggiore acume) [del tuo, ma è troppo facile, come esempio sarebbe andato bene anche un protozoo], se non altro, distinsero tra piacere (bene) e dolore (male): oggi troveremo chi contesterà questa ovvia separazione. [CHI?]

E’ vero che la morale non trova fondamenti indiscutibili, poiché, per giovarsene, deve a sua volta presupporre un caposaldo altrettanto assoluto (Dio), ma anche un bambino, anche un animale rifuggono dalle cause di sofferenza, perseguendo, invece, il soddisfacimento dei propri desideri naturali. Questa congenita inclinazione verso le sorgenti della gratificazione dimostra che, anche ad un livello di impulsi elementari, bene e male non sono identici. [minchia, che riflessione... Anche gli adulti tendenzialmente agiscono così. 'bene e male non sono identici'... Grazie, e va' Hgare]


Se si allarga il discorso a sfere più elevate, anche qui ci si accorge che creazione e distruzione, bello e brutto, vita e morte, amore ed odio, salute e malattia, intelligenza e stoltezza non sono commutabili, ancorché un polo possa sfumare indefinitamente nell’altro. Bisognerebbe capire come e perché, ad un certo punto, nell’universo che di per sé non è né morale né amorale, sia emerso quel quid che, anche in modo istintivo e profondo, spinge gli esseri viventi a discernere tra gli opposti. L’etica affiora quando si prende coscienza della natura dell’universo? Potrebbe l’etica essere una sovrastruttura umana in un cosmo in cui tutto accade come deve accadere, dove tutto è compiuto? Questa possibilità mi pare implausibile, tuttavia non si può, se si vuole essere spassionati, rigettarla a priori.

Se, seguendo Kant, postuliamo una ragion pratica, siamo costretti ad aggiungere anche l’assioma del libero arbitrio, poiché non ci si può riferire ad una condotta lodevole o deprecabile, escludendo la possibilità di scegliere. Paradossalmente gli anti-dualisti etici di solito sono assertori del libero arbitrio e persino della capacità di co-creare.[1]

Sono temi spinosi, su cui abbiamo già indugiato: qui evidenziamo la contradditorietà [italiano questo sconosciuto] dell’assunto. In un mondo che è “il migliore dei mondi possibili”, che senso hanno le azioni, l’evoluzione della coscienza, le scelte? E’ necessario sia introdotto un ostacolo, affinché si inneschi il movimento che non è necessariamente progressivo. Eppure gli pseudo-spiritualisti negano che tale ostacolo si trovi anche nella realtà empirica, ribadendo che tutto, proprio tutto è perfetto così com’è, giacché il male è solo il risultato di una visione limitata e distorta. Se così fosse, però, donde scaturiscono le questioni che diventano lancinanti nelle situazioni estreme? Sono il frutto di fantasticherie o davvero qualcosa non quadra? Se è corretta la seconda ipotesi, che cosa non quadra e perché?

E’ evidente che le domande pullulano. [e tu hai polluzioni mentre spari queste cazzate] Sono quesiti giganteschi che fagocitano le piccole, timide risposte sull’enigmatica, ambigua natura dell’essere.

[1] La questione è assai controversa. Se è indubbio che, in casi eccezionali, la mente può influire in qualche modo sui fenomeni, affermare che il pensiero (ma il pensiero di chi?) [il tuo no di certo, oltretutto dimostri quotidianamente di essere INCAPACE di pensare] può ipso facto creare e plasmare la realtà, poiché a livello di particelle subatomiche l’osservatore (attraverso uno strumento) interagisce con l’osservato, è di nuovo una semplificazione ed un triplo salto mortale. E’ comunque un’idea che va collocata in una teoria filosofica congruente al suo interno e non espressa a vanvera. [ecco, giusta conclusione: ha ri-parlato l'esperto di cazzate a vanvera]

Thursday, July 5, 2012

"Marco e Mattio": omaggio ai vinti

http://zret.blogspot.co.uk/2012/07/marco-e-mattio-omaggio-ai-vinti.html

"Marco e Mattio": omaggio ai vinti

“Marco e Mattio”, libro di Sebastiano Vassalli, narra le peripezie di Mattio, figlio del calzolaio di Zoldo, borgo del Bellunese. A Zoldo comincia il viaggio del protagonista verso l’insania, itinerario che culmina a Venezia nel tentativo di crocifiggersi, novello Cristo, per redimere l’umanità.

Più dell’opera a tesi e manichea “La chimera”, “Marco e Mattio” impone un confronto con “I promessi sposi”: il modello manzoniano è ineludibile per Vassalli che (ri)costruisce gli eventi principali sulla base di documenti d’epoca. E’ un romanzo storico dunque, purché si consideri la storia umana come un inferno in cui l’autore si inoltra per strappare ai dannati la dichiarazione della loro, in qualche caso, eroica sconfitta. “Ogni sconfitta è insieme testimonianza e protesta, assoluta e senza speranza, che viene insinuata qua e là nei confronti della realtà di oggi, a chiarire come i tempi cambino, ma il mondo proceda sempre uguale”.

La comparazione verte in primo luogo sullo stile e sulle strategie narrative: alcune trascuratezze linguistiche incrinano la prosa altrimenti tornita, venata di un pàthos contenuto. Le tecniche coincidono per lo più con i moduli della narrativa tradizionale, manzoniana in primis. Il narratore onnisciente è, però, è più partecipe, persino dolente. L’ironia è spesso amara, ma senza la degnazione aristocratica del Manzoni.

Il raffronto, alla fine – so che sarò considerato eretico, ma tant’è… – è a vantaggio di Vassalli, il cui nichilismo e sfiducia nell’umanità, mitigati da una sincera adesione alle sofferenze dei “vinti”, sono un antidoto contro gli schemi delle ideologie. “I promessi sposi”, pur apprezzabili per tanti motivi, sono comunque un’opera cattolica o, meglio, cristiano-giansenista: l’Ideenkleid agisce da filtro e da abbellimento sicché, anche scavando nella realtà più turpe, se ne offre un’interpretazione consolatoria. Quando il Manzoni si interroga sul male, ha già le risposte, parziali e perplesse quanto si vuole, ma le ha. In alcune circostanze più del credo religioso, agisce un residuo illuminista che, se consente di gettare uno sguardo lucido e razionale sulle cose, preclude una visione mistica della natura e della vita.

Il Manzoni, nel suo lirismo, non si innalza oltre il cielo di Lombardia, “così bello quando è bello”, laddove Vassalli squaderna alcuni brani cosmici in cui si fondono turbamento e meraviglia. Il primo ignora, nel suo antropocentrismo, i patimenti degli animali; l’altro si china compassionevole sulle torture inflitte loro: “L’urlo silenzioso di quella carne macellata che reclamava vendetta ad un Creatore indifferente e lontano”.

Vassalli, che non è cristiano né razionalista, riesce ad aderire al corpo nudo della verità per mostrarne i pori, le rughe, le macchie… Come in una sorta di visione iperrealista, i personaggi schiacciano, con le loro dimensioni eccessive, il lettore: un parroco spilorcio (erede di don Abbondio, ma senza alcun tratto umoristico), una santa anoressica, un falsario di monete, un padre, quello di Mattio, infoiato, un attante misterioso, Marco, incarnazione del mito dell’Ebreo errante… Le loro vicende più che intrecciarsi con la storia, collidono con essa. Gli echi dei lumi settecenteschi arrivano fiochi e non scalfiscono la miseria e le malattie, alleggeriscono, ma solo per un breve periodo, il giogo dei privilegi. I luoghi poi non sono descritti, ma visti attraverso lo sguardo allucinato di Mattio: Zoldo, stretto nella morsa della fame e delle ripide montagne, Venezia, nella sua splendida decadenza, la pianura brumosa… assumono i connotati di un sogno (conturbante) ad occhi aperti.

“Marco e Mattio” vuole essere un tributo ai matti, come scritto nella dedica e nella premessa. La follia è, in primo luogo, irrazionalità del destino e sono i “folli” che lucidamente la riconoscono, mentre i “sani”, non essendone coscienti, sono terribili nella loro passiva accettazione della sorte e dello status quo. E’ proprio all’assurdo, accolto come normale, che Mattio si ribella, tentando di immolarsi sulla croce: il sacrificio di uno solo può salvare l’umanità o tutte le azioni, anche le più nobili, sono vane? Vassalli conosce la risposta: “Mi piace perdermi col pensiero in quel pulviscolo di sistemi solari che si vedono tra una costellazione e l’altra e in quel buio dove si muovono inutilmente milioni di mondi. Soffermarmi a riflettere sull’infinità di quello sperpero che chiamiamo universo mi fa bene e mi aiuta a stare bene. Che altro sono le nostre impercettibili vite e le nostre microscopiche storie, se non sperpero nello sperpero?” A Vassalli, con la sua narrativa amara ma solidale, il merito di aver compensato, anche se in piccolissima misura, questo sperpero.

Thursday, May 3, 2012

Eclisse del Dio unico

http://zret.blogspot.co.uk/2012/05/eclisse-del-dio-unico.html

Eclisse del Dio unico

“Eclisse del Dio unico”: questo il titolo del libro di Ferruccio Parazzoli. Non è un saggio, ma un inventario di folgoranti aneddoti, sapidi racconti, apoftegmi sull’enigma. Si capisce: su Dio si è ragionato a lungo per collocarlo sul trono dell’universo, spodestarlo, annichilirlo, farlo risorgere… ma le argomentazioni sono deboli. Così ai gracili ragionamenti (pro e contro l'Eterno) si supplisce con la potenza della fantasia e con le metafore. Si ricorre alle immagini, in quelle circostanze in cui sarebbe necessaria una definizione letterale, stigmatizzante per catturare un’idea che, per sua natura, non si lascia catturare.

Non inganni il titolo per nulla originale: secondo Parazzoli, il Dio unico non si è temporaneamente nascosto, ma è tramontato per sempre. Il testo è stato bollato da porporati di Santa Romana Chiesa, vista l’abiura dela fede cattolica, come uno slittamento nel più melenso credo New age. Complice soprattutto l’ampia prefazione di Vito Mancuso, vi si è visto un approdo al panteismo.

Parazzoli ripropone le domande di sempre su Dio e sul “deserto del mondo” per accontentarsi di una celebrazione della natura e dell’energia? In parte. L’autore, ex cattolico, più che aderire, rifiuta. “Rifiuta il teismo ed il nichilismo: dopo la morte di Dio, l’emancipazione dal nulla è data dal pensiero, dal linguaggio, dall’atto artistico, dalla scrittura che decodifica il mondo”.(B. Vergani).

Si apprezza il volume come testimonianza estrema, vestigiale dell’uomo contemporaneo, cui non dicono più nulla né i miti classici, fondanti l’anima della civiltà, né l’antropomorfismo etnocentrico di YHWH. L’uomo d’oggi, almeno quello ancora in grado di pensare e soffrire (ma pensiero e sofferenza sono quasi sinonimi), si aggira stordito ed ebbro di niente, in una landa profanata. La fede, si ripete, è cieca. Tuttavia non perché essa sia credenza in enti invisibili, ma in quanto non vede l’inferno del reale.

I chiericuti, che hanno strapazzato Parazzoli per la sua apostasia, tuonano contro un’umanità degenere: essa si è allontanata dal Creatore, essa ha peccato, essa merita il male che la attanaglia. Sarà... Non sarà che se gli uomini hanno obliato Dio, anche Dio si è come ritratto? E’ suprema presunzione ritenere di poter comprendere l’Essere supremo ed i suoi piani imperscrutabili. E’, però, arroganza ancora più detestabile vendere i dogmi del Cattolicesimo come verità assolute per colpevolizzare sempre e solo l’uomo, dimenticando l’irredimibile contraddizione del tutto.

Vero è che se il travaglio della coscienza, le torturanti domande sul male sfociano nel panteismo, allora non si cava neppure il classico ragno dal buco. Meglio un perplesso ateismo o la ricerca inesausta, anche se probabilmente vana di Dio, che l’ultima spiaggia delle religioni New age.

Tuesday, March 6, 2012

Necessità e male in un saggio di Simone Weil

http://zret.blogspot.com/2012/03/necessita-e-male-in-un-saggio-di-simone.html

Necessità e male in un saggio di Simone Weil

Il saggio di Simone Weil (1909-1943) “La Grecia e le intuizioni precristiane” avvince, anche se convince solo in parte. La pensatrice francese prova a dipanare la matassa della necessità e del male.

Scrive la Weil: “La scienza in tutti i suoi rami, dalla matematica alla sociologia, ha per oggetto l’ordine del mondo. Essa non lo vede sotto l’aspetto della necessità, poiché ogni considerazione di convenienza e finalità deve essere rigorosamente esclusa, ad eccezione della nozione stessa d’ordine universale. Più la scienza è rigorosa, precisa, dimostrativa, strettamente scientifica, più risulta manifesto il carattere essenzialmente provvidenziale dell’ordine del mondo. Ciò che chiamiamo il o i Disegni, il o i piani della provvidenza, non sono che immaginazioni fabbricate da noi.

Autenticamente provvidenziale, provvidenza stessa, è proprio questo ordine del mondo che è il tessuto, la trama di tutti gli eventi e che, sotto uno dei suoi aspetti, è il meccanismo spietato e cieco della necessità. Perché una volta per tutte la necessità è stata vinta dalla saggia persuasione dell’Amore. Questa saggia persuasione è la provvidenza. Questa sottomissione senza violenza della necessità alla sapienza amante, è la bellezza. La bellezza esclude i fini particolari. Quando in una poesia è possibile spiegare che quella tal parola è stata messa dal poeta là dov’è per produrre tale o tal altro effetto, per esempio una rima ricca, un’allitterazione, una certa immagine e via di seguito, la poesia è di second’ordine. Di una poesia perfetta non si può dire nulla, se non che la parola è la dov’è, e che è assolutamente necessario che vi sia.

E’ lo stesso per tutti gli esseri, noi compresi, per tutte le cose, per tutti gli eventi che si inseriscono nel corso del tempo. Quando rivediamo, dopo una lunga assenza, un essere umano ardentemente amato ed egli ci parla, ogni parola è infinitamente preziosa, non per il suo significato, ma perché la presenza di colui che amiamo si fa sentire in ogni sillaba. Anche se per caso soffriamo in quel momento di un mal di testa così violento che ogni suono fa male, quella voce che fa male non per questo è meno infinitamente cara e preziosa, poiché racchiude quella presenza. Allo stesso modo colui che ama Dio non ha bisogno di rappresentarsi il tale o tal altro bene suscettibile di derivare da un evento accaduto. Ogni evento che si compie è una sillaba pronunciata dalla voce dell’Amore stesso”.

E’ impossibile riassumere un libretto tanto ispirato e sofferto, perciò, oltre al passo sopra riportato, estraggo qualche altro diamante tagliente che l’autrice cava nella miniera della sua anima.

“La Creazione, l’Incarnazione, la Passione costituiscono la follia di Dio”: audace e quasi blasfema asserzione.

“La necessità fa di noi una poltiglia informe”: fatale sensazione di chi si sente schiacciato, umiliato e che nell’umiliazione trova la sua più alta dignità.

“Accettare l’esistenza di tutto ciò che esiste, compreso il male, eccettuata la porzione di male che noi abbiamo la possibilità e l’obbligo di impedire”: amor fati, ma pure scatto etico e quasi ribellione ad un dominio assurdo.

“Noi siamo frammenti staccati da Dio”: senso di scissione, acuminato dall’angoscia.

“Attraverso tre fori passa il soffio di Dio: la scienza teorica, pura; la bellezza dell’arte; la sventura”: tentativo di riunire il diviso per mezzo di esperienze abissali, al confine della dismisura. E’ nell’eccesso, nella dismisura che si può intravedere una paradossale speranza di salvezza?

“Ciascun mattino l’anima si mutila di ogni aspirazione, perché il pensiero non può viaggiare nel tempo senza traversare la morte”: tra le pieghe della vita quotidiana si addensano le ombre di un comune destino.

Così la Weil scava nella condizione umana lacerata tra disperazione ed anelito, tra ineluttabilità e Grazia, tra il ghiaccio della rassegnazione ed il fuoco della fede più folle. Se le parole sul martirio che strazia la vita, suonano alla maniera di una fra le tante teodicee persino con venature masochiste – il dolore è autoflagellazione più che catarsi – la visione del cosmo che è assottigliamento, regressione di Dio, persino croce cui sono inchiodati il Creatore e le creature, si radica nel terreno di un pensiero chiaroveggente. Così l’insondabile(?) ma suggestivo frammento di Anassimandro rimbalza nelle pagine del saggio per porci innanzi al senso ultimo di una realtà senza apparente significato.

Dilaniata tra ammirazione per la bellezza della natura e coscienza dell’irrazionalità del mondo, la Weil si spinge fra le fenditure della logica per dimostrarne la manifesta incongruità. Celebra la scienza teorica, per denunciarla come orditura necessitante del cosmo. Strappa al silenzio di Dio una sillaba balbettante ed erige un muro invalicabile tra gli uomini e l’Essere supremo. Soprattutto, con il suo lirismo teso, spezzato (la filosofia assurge ad arte, quando, esorcizzando il male, lo decanta e lo lascia come sedimento ormai inerte), l’autrice sgomenta e consola (ma il veleno delle parole è nel loro intento consolatorio), per scolpire la contraddizione, non del pensiero ma dell’essere.

Nella contraddizione s'incarna la più disperata, dura verità, si raggruma il buio più accecante.

Monday, September 19, 2011

Rancore

http://zret.blogspot.com/2011/09/rancore.html

Rancore

Strange world people kill and people hate and people talk and people kill and still I wonder wonder why why. (Ke)

Dalle incomprensioni e dalle inezie provengono i mali maggiori.

Qualche giorno addietro è morto nel mare prospiciente Ventimiglia un giovane. Stava compiendo una battuta di pesca in apnea, quando, per tentare di liberare la fiocina rimasta incagliata sul fondale, arpione con cui aveva uncinato uno scorfano, è stato colto da una sincope sicché non è potuto tornare in superficie. E’ purtroppo una delle tante tragedie che gettano nella disperazione parenti ed amici. Il luttuoso evento è poi tanto più atroce, se si considera che è una fine prematura.

Eppure questa disgrazia unisce, sebbene – lo ammetto – in un rapporto squilibrato, due vittime: anche lo scorfano arpionato ha incontrato una morte orribile, dopo una lunga agonia. Dobbiamo riconoscere che un unico inspiegabile destino di sofferenza affratella gli esseri viventi, carnefici e vittime, a tal punto che il carnefice di oggi è la vittima di domani o viceversa, a tal punto che non si sa più chi possa reputarsi davvero innocente. Così, forse, prima o dopo, come sostiene qualcuno, pagheremo il fio con usura dei nostri sbagli ed è plausibile che alcuni paghino lo scotto (anche di altre esistenze?) in anticipo. Del giovane ligure resteranno le fotografie che lo immortalano, l’espressione orgogliosa, con i suoi sanguinari trofei di pesca.

In verità, agli uomini non è concesso sconfiggere il male che domina la Terra: è solo possibile tentare di alleviare qualche sofferenza e cercare di rendere il mondo un po’ migliore di quanto non sia, anche con piccoli gesti, se non è dato compiere atti decisivi ed eroici. Tuttavia siamo alacremente impegnati proprio nelle azioni contrarie! Nota giustamente William Golding che “l’uomo produce il male, come le api producono il miele”. Così al danno ontologico, ineliminabile, aggiungiamo altri danni. Nella sventura ci accapigliamo, dando il peggio di noi stessi, come ci insegna quel grande moralista che fu Alessandro Manzoni, con l’icastica descrizione dei capponi di Renzo. Nella buona sorte il nostro egoismo si accentua in modo parossistico; nella cattiva ci dividiamo. Nessuna etica ha mai cambiato né mai cambierà lo stato delle cose.

Un filo sottile connette l’epica catastrofe, che miete migliaia di vittime, al dissapore familiare che ci avvelena intere giornate. Siamo sempre di fronte al granitico mistero del dolore, in tutte le sue manifestazioni, con tutta la sua gamma: dalla semplice contrarietà alla disperazione, passando per la delusione, il patimento psicologico, l’amarezza, lo sconforto, il cruccio. Paradossalmente un’immane tragedia talora è più facile da tollerare del rancore sordo di chi pensavamo non fosse capace di nutrire tale acredine, del tradimento di un amico(?): in fondo, la nostra vita scorre “tranquilla” come prima, se non fosse che dentro, qualcosa si è rotto... per sempre.[1]

E’ una sofferenza invisibile che traspare solo in alcuni momenti, in uno sguardo velato di tristezza, nell’improvvisa increspatura della fronte. E’ uno strazio tanto più intollerabile, perché sovente originato da motivi futili. Lascia un solco profondo nell’animo: possiamo perdonare, non dimenticare. L’esperienza non insegna alcunché. Riusciamo a rovinare tutto con il puntiglioso orgoglio.

Ancora più della malvagità annichilisce e delude la meschinità che molti uomini dimostrano: se la scelleratezza ci rende figli del Diavolo, la miseria morale testimonia un vuoto disarmante. Invano abbiamo cercato l’umanità nell’umanità: neppure si può postulare l’esistenza di un dio secondario, genitore di un’umanità tanto arida.

È come se la vita ci fosse stata data in prestito, ma ci comportiamo, quasi ne potessimo disporre ad libitum per sempre, ripetendo errori e ripicche, in una sequenza che non sembra aver fine.

Uomini siffatti da tempo non credono più in Dio: non credono in nulla, se non nel denaro e nell’ego. Neppure Dio – se esiste – crede più in codesti suoi figli. Come dargli torto?


[1] Nietzsche scrive che “gli uomini magnanimi sono incapaci di risentimento”: ha ragione, ma penso che si contino sulle dita di una mano… monca.

Thursday, September 8, 2011

Angelology

http://zret.blogspot.com/2011/09/angelology.html

Angelology

Può l’orrore irradiare luce? In che cosa risiede la fascinazione del male? Sono le domande che, come proiettili, colpiscono il lettore di “Angelology”, opera prima dell’italo-statunitense Danielle Trussoni. L’autrice, con questo romanzo fastidioso e coinvolgente, irrigidito nei cliché, eppure in parte insofferente dei soliti steccati, ci conduce nel sulfureo regno degli angeli prigionieri.

E’ naturale: bisogna chiedersi che senso oggi abbia il genere, ormai scaduto nell’intrattenimento più volgare ed effimero o, di converso, (ma è un’antitesi apparente) nei prodotti cervellotici ed ottusi di Umberto Eco, il cui ultimo conato, “Il cimitero di Praga”, è il cimitero di ogni speranza in una resurrezione del romanzo.

La letteratura contemporanea, se veramente affonda in questi tempi martoriati e folli, aborre dalla narrativa, perché non è possibile raccontare l’iterazione del non-senso che semmai si può affidare ad una fotografia, eternatrice della morte.

Così ci accontentiamo di abbozzi, di quasi-testi che, nella loro incompiutezza, spalancano abissi di pensieri. Ci beiamo di saghe interrotte oppure di opere come “Angelology”, il cui valore è nei frammenti che scheggiano gli specchi di consolidate percezioni e concezioni. Dimentichiamo dunque gli angeli tradizionali, quelli che finiscono, con tanto di diafane ali e di tuniche elegantemente drappeggiate, nei libri della New age. Figuriamoci, invece, creature (i Nefilim, gli Anakim ed i Gibborim) in cui una bellezza sfolgorante si congiunge ad una malvagità assoluta, quasi il divino (sia pure un divino decaduto) ed il diabolico si compenetrassero. Dimentichiamo i celestiali cori angelici sovrastati dalla musica che incanta ed uccide.

A differenza di molti autori d’oggi, la Trussoni non massacra la lingua (ma il verbo “posizionare” è una scelta delittuosa dei traduttori), anzi manifesta una certa vena poetica, quando indugia nella descrizione di New York, raggelata nei rigori invernali, nella pittura di interni ora sontuosi ora disadorni. La sensibilità muliebre le consente di evocare emozioni, intensità di sguardi e chiaroscuri di sfondi naturali, anche se la citazione delle marche (di scarpe, abiti, accessori) è fatuo snobismo.

Dopo alcuni capitoli psicologici, il romanzo si immette nel solco del thriller storico. I cerchi concentrici delle analessi e la decorosa costruzione di alcuni personaggi si innestano talvolta (e sono le parti migliori) sulla riflessione che ha al centro la ferocia del male, giunto sulla terra con gli alati Nefilim.

Per affrontare il tema vertiginoso delle tenebre che incombono sul mondo, occorre una tempra che la Trussoni non possiede, ma in alcune pagine l’autrice riesce a far vibrare le corde dello Spannung, mentre la melodia terribile della lira appartenuta ad Orfeo echeggia nelle pagine che dipingono la metamorfosi di Evangeline, la protagonista.

L’avventura può ora assurgere ad un volo tanto imponente, quanto solitario e pericoloso.

Ringrazio l'amica Lavinia per avermi consentito di venire al corrente del romanzo, grazie alla sua recensione su "X Times".

Saturday, July 9, 2011

Leopardi satanista o ottimista? (prima parte)

http://zret.blogspot.com/2011/07/leopardi-satanista-o-ottimista-prima.html

Leopardi satanista o ottimista? (prima parte)

Giacomo Leopardi era un satanista. E’ questa la vulgata con cui si bolla l’ultima fase poetica del Recanatese. Lo strale critico centra, come è noto, l’incompiuto Inno ad Arimane, il componimento dove l’autore celebra con feroce sarcasmo il dio delle tenebre. Si vede nell’Inno l’approdo di una filosofia “pessimista” che appunto culmina nell’empio panegirico della divinità incarnante, nella tradizione mazdea, il male.

Lo sostiene, ad esempio nell’articolo "Leopardi, cantore di Arimane, è il campione di un satanismo disperato, ma lucido e coerente", 2008, il Professor Francesco Lamendola. E’ di un parere simile Lorenzo Venza nel breve testo intitolato Leopardi arimanico e l’inno alla religione exoterica, 2011. Va riconosciuto che, come sempre, il Professor Lamendola avvince, con la sua prosa efficace, anche se non mi convince del tutto, laddove il Dottor Venza, a causa di un andamento e di un linguaggio sciancati, non mi persuaderebbe neanche qualora io pensassi possa aver ragione.

A mio avviso, il carattere frammentario del cantico, onde non sappiamo come Leopardi l’avrebbe compiuto, già scagiona almeno in parte l’autore dalla taccia di satanismo. Sarebbe come giudicare le capacità artistiche di uno scultore solo da una statua da lui abbozzata. Inoltre l’amara ironia con cui è incensato Arimane è la prova che il Nostro allude il contrario di quanto scrive.

Alcuni versi poi sono inequivocabili: “Ma l'opra tua rimane immutabile, perché p. natura dell'uomo sempre regneranno. L'ardimento e l'inganno e la sincerità e la modestia resteranno indietro e la fortuna sarà nemica al valore, e il merito non sarà buono a farsi largo e il giusto e il debole sarà oppresso ec. ec….Pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà ec. Ma io non mi rassegnerò ec”.

Vi immaginate un adoratore del demonio che ne tesse l’elogio in modo beffardo o che ne decanta i demeriti, interpretandoli come tali e non come luciferine virtù? Vi immaginate un adoratore del demonio che ne maledice il nome e che non intende rassegnarsi al suo funesto potere? Ancora una volta, vi vedrei il titanismo leopardiano, la virile ed eroica sfida alla Natura che connota, verbigrazia, il canto "La Ginestra" ed il "Dialogo della Natura e di un Islandese".

Non si può negare che tra le righe dell’Inno serpeggi alcunché di blasfemo. Il Professor Lamendola nota a tale proposito: “Quella delineata nell'inno Ad Arimane, si badi, non è semplicemente una forma di adorazione del Diavolo: è la proclamazione che solo il Diavolo esiste, e che la creazione è totalmente e interamente malvagia. Non si tratta né di nichilismo, né di satanismo contrapposto al teismo, ma di un monoteismo diabolico, che esclude qualunque idea di bene dalla faccia del mondo”.

Così il “pessimismo” (logora categoria, ma tant’è) di Leopardi sfocerebbe in un “monoteismo diabolico”, nella descrizione di un universo in cui non balugina neppure una speranza di redenzione. Si è che Leopardi fu, checché ne opinino altri, pensatore potentissimo (alcune sue analisi della società massificata, allo stadio embrionale a cavallo tra XVIII e XIX secolo, sono esemplari e profetiche): il suo inno è il sigillo di un ateismo, ma di un ateismo problematico e, come quello di Nietzsche, torturato da una nostalgia del divino che si palesa con un’implacabile irrisione della fede.

In verità Leopardi fotografa, per mezzo di una costruzione metaforica, questa realtà, questa dimensione e chi potrebbe contestare che le cose si svolgono grosso modo come egli le immortala?

“Produzione e distruzione ec. per uccidere partorisce ec. sistema del mondo, tutto patimen. Natura è come un bambino che disfa subito il fatto. Vecchiezza. Noia o passioni piene di dolore e disperazioni: amore. […] taccio le tempeste, le pesti, ec. tuoi doni, che altro non sai donare. Tu dai gli ardori e i ghiacci.

E il mondo delira cercando nuovi ordini e leggi e spera perfezione. Ma l'opra tua rimane immutabile, perché p. natura dell'uomo sempre regneranno. L'ardimento e l'inganno, e la sincerità e la modestia resteranno indietro, e la fortuna sarà nemica al valore, e il merito non sarà buono a farsi largo, e il giusto e il debole sarà oppresso ec. ec.[…] Animali destinati in cibo. Serpente Boa. Nume pietoso ec.[…]


Perché, dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? L'amore? Per travagliarci col desiderio, col confronto degli altri e del tempo nostro passato ec.?”

Chi – ribadisco – potrebbe contestare che la natura, di là dalle sue parvenze amene, non è basata su un ciclo di creazione- distruzione? Chi potrebbe negare la presenza del male nelle forme evocate dal poeta che si spinge persino a demolire il sogno di un rinnovamento sociale utopico e ferale? “E il mondo delira cercando nuovi ordini e leggi e spera perfezione”.


Saturday, July 2, 2011

Scettici e dogmatici (prima parte)

http://zret.blogspot.com/2011/07/scettici-e-dogmatici-prima-parte.html

Scettici e dogmatici (prima parte)

So che alcuni oggi cercano a tastoni e non sanno più di chi fidarsi. A costoro dico: credete a chi cerca la verità, non credete a chi la trova. (A. Gide)

Il termine “scettico”, contrariamente a quanto pensa il volgo, non significa “incredulo”, “proclive a dubitare di tutto”, ma derivando dal verbo greco “sképtomai”, scrutare, cercare, indagare... designa chi è dedito all’osservazione critica. [veramente scettico deriva da skeptikos - vedi qui]

Lo “skeptikòs” è quindi agli antipodi non solo del dogmatico, che dispensa una verità preconfezionata (scientifica, religiosa etc.), ma anche dell’agnostico. Costui, infatti, rifiuta per principio di occuparsi di problemi che la ragione umana non può comprendere ed analizzare. L’agnostico considera inconoscibile quanto oltrepassa i dati empirici studiati con il metodo delle "scienze" positive. Quanto siano ingenue le posizioni degli agnostici è evidente: in verità essi, nel momento in cui postulano, una realtà là fuori (che esista e che sia indipendente dalla coscienza sono idee indimostrabili), confluiscono nella stessa genia degli assiomatici religiosi contro cui spesso si avventano.

Il vero scettico dunque è un Suchende, un cercatore: egli mostra un’attitudine euristica né ritiene che solo il raziocinio possa essere utile per esplorare i vari campi dello scibile. Egli non si perita di accostarsi a temi delicati: la coscienza, il cosmo, Dio. Pur ricorrendo ai più disparati strumenti interpretativi e ad una gran copia di fonti, le conclusioni dello scettico possono essere soltanto provvisorie, dubitative, aperte a revisioni e calibrature.

Lo scettico non è ateo: l’ateo è un credente con il segno meno. Come il credente, possiede una certezza apodittica, da cui discendono vari teoremi. E’ invidiabile la vita del miscredente e dell’uomo dalla fede tetragona: nessuna perplessità può turbare la loro olimpica calma. I fenomeni più grandiosi, nel bene o nel male, non possono scalfire la loro visione del mondo: l’ateo attribuisce le meraviglie dell’universo al caso, all’evoluzione naturale; il credente le ascrive a Dio. Il male assurdo, incomprensibile, irrazionale… conferma il primo nella sua negazione di Dio; costringe l’altro a miliardi di funambolismi, quando non ha la sicumera di affermare che il male non esiste.

Per quanto mi riguarda, non posso asserire di essere miscredente, perché, in tal caso, diventerei un dogmatico. Tuttavia mi pare che l’universo e Dio siano molto elusivi. Con il passare del tempo, ho come l’impressione che Dio si sia eclissato. Chissà: abbiamo forse sempre sbagliato a concepire il Creatore. Egli non è come lo immaginiamo. Distratto ed indolente, osserva il cosmo e le civiltà che lo popolano da una lontananza abissale. Non si spiegherebbe diversamente il diluvio di mali che ci inonda da tempo immemorabile. Non mi si tedii con la logora storia del “libero” arbitrio, di Eva che mangiò il frutto proibito (in verità ella non lo mangiò!), del serpente tentatore. E’ come se un matematico tentasse di spiegare complesse equazioni ad un bambino di tre anni: intercorre uno scarto irriducibile.

In un’opera misconosciuta ma pregevole di Flaubert (la gloria di molti autori è affidata sovente a libri sopravvalutati, nella fattispecie “L’educazione sentimentale”), “La tentazione di Sant’Antonio”, una specie di tragico e sontuoso affresco della condizione umana, nella visionaria parte finale, è inscenato il botta e risposta tra l’eremita ed il Diavolo. Il Maligno, posto l’anacoreta sul dorso, lo trasporta in un’ascensione vertiginosa tra gli spazi siderali per incalzarlo con le sue affilate argomentazioni. Lucifero mostra al santo “il firmamento che è soltanto un tessuto di stelle, la luna che pare un pezzo di ghiaccio rotondo, piena di una luce immobile, tra crateri spenti, sotto un cielo completamente nero… gli astri si moltiplicano, brillano, la Via Lattea allo zenith si dispiega come un’immensa cintura. … Vede gli astri giungere da lontano e sospesi come pietre di una fionda, descrivere le orbite, spingere su le orbite…”


Saturday, June 25, 2011

Il bene ed il male

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Il bene ed il male

“Il bene e il male: che cos’è”(?) è un volume in cui sono raccolti gli interventi di una conferenza tenuta da Pietro Archiati. Il titolo, che esibisce un soggetto tanto vitale, mi ha subito catturato, ma la delusione è stata pari, se non superiore, alla curiosità dei primi istanti.

Archiati si professa discepolo di Rudolf Steiner, di cui riprende, in verità semplificandole e volgarizzandole, alcune idee. Come si nota dal titolo, il tema è tra i più impegnativi, eppure l’autore, sicuramente persona in buona fede e simpatica, lo affronta in modo alquanto superficiale. Nel volume, che punta molto sulla libertà (data come postulato, non dimostrata nonché almeno in parte in contraddizione con la dottrina del karma) e sulla creatività dell’uomo, sulla necessità di emanciparsi dalle regole per costruire un’etica genuina, non manca qualche gemma, ma l’impressione generale è di deprimente piattezza e banalità.

E’ lodevole che Archiati abbia deciso di prendere le distanze dalla chiesa cattolica e dalle sue storte dottrine pseudo-cristiane; la sua critica dello scientismo è motivata e la diagnosi dell’insoddisfazione come assillo dell’uomo contemporaneo è calzante, ma al vino cattivo si sostituisce un vino annacquato.

In fondo, il libro è simile a mille altri testi edificanti: lasciano il tempo che trovano e la realtà non è meno dura, se la descriviamo con belle parole. Si sfiora poi il ridicolo, quando, nel goffo tentativo di giustificare il male ed il karma, si comincia un astruso computo di anime incarnatesi o disincarnatesi che sembra una specie di riffa: “il calcolo dei dadi più non torna”. Al limite tutti questi numeri vanno bene per giocarseli al lotto.

Rispetto alle pagine scritte dal venerato maestro che ebbe un’acuta e lungimirante visione delle Tenebre, concepite come una realtà oscura e maleficentissima, si resta disarmati di fronte a così dozzinali spiegazioni ed inviti deamicisiani al “volemose bene”. Le sofferenze inaudite di un’umanità straziata nel corpo e nell’animo, di una natura torturata sono anestetizzate con quattro scialbi predicozzi da prete di campagna.

E’ inutile diffondersi oltre su un libercolo che, nonostante le buone intenzioni dell’autore, è poco più di un catechismo steineriano. Di fronte al male, come abbiamo più volte scritto, o si dimostra caratura intellettuale per gettare un barlume sull’interrogativo per antonomasia o è meglio tacere, poiché se la teodicea è di per sé audace, una teodicea così sciocca è addirittura sacrilega.

Che cos’è il male? Archiati si cimenta in questo compito improbo, in una “impossibile mission”, ma la missione è fallita!

Ringrazio M.B., che credo concorderà con questo mio giudizio del tutto scevro di acrimonia, per la segnalazione.

Saturday, April 16, 2011

Apologia del male (seconda ed ultima parte)

http://zret.blogspot.com/2011/04/apologia-del-male-seconda-ed-ultima.html

Apologia del male (seconda ed ultima parte)

Leggi qui la prima parte.

Il compito della teodicea fu assolto nello stesso momento in cui essa scomparve, non per averlo fallito, ma per esserci riuscita in pieno. In ultima analisi, essa fece sparire la nozione stessa di male. (M. Sgalambro, Dialogo teologico)

E’ abominevole non il male in sé, che può essere formidabile occasione di apprendimento e talora di ispirazione, ma la teodicea. Così, sebbene pensiamo che finalmente ci siamo liberati dal fardello della morale cattolica, quell’etica condensabile nella frase di padre Cristoforo “Dio vi ha visitate”, con cui il cappuccino evoca il concetto di sofferenza come premessa per un’elevazione, come prova, siamo ricaduti in quest’etica consolatoria, senza, però, più le perplessità di Manzoni, senza il suo “tragico ottimismo”. Se l’autore dei “Promessi sposi” vagheggia una “provvida sventura” (ma non sarà spesso solo sventura?) , alcuni new agers affermano che la “grande messe” può avvenire solo con colossali sacrifici umani. La retorica del sacrificio, con tutte le sue dismisure sadiche e masochistiche, assurge a Diktat, a condicio sine qua non per passare nella “quarta dimensione” (sic!). Naturalmente i sacrifici riguardano solo gli uomini comuni: i trainers e gli eletti se ne stanno sereni e tranquilli.

Si oblia l’archetipo della vittima innocente che è innocente proprio perché subisce un male di cui non ha alcuna colpa: anche coloro che non sono cristiani riconoscono in Cristo la figura mitopoietica (esistono comunque dèi pagani che adombrano valori molto simili: si pensi ad Osiride) dell’Uomo che è immolato ingiustamente, immagine potente di un’ingiustizia umana tanto scandalosa da richiedere lo scandalo della Croce. Cristo è l’emblema di un male insensato.

Non so se la materia sia un errore cosmico (come pensavano i diffamati Buoni uomini, vulgo Catari, che, esclusi gli eccessi di alcuni Perfetti, seppero in non pochi casi contemperare il disprezzo per il mondo con una vita integra nel mondo) o se sia una necessità. Credo sia comunque un limite, se ci si riferisce alla materia caduca, corruttibile, imprigionante. Dunque la celebrazione della vita non è la venerazione dell’esistenza, del suo freddo sarcofago, ma di quanto di radioso brilla nell’involucro di carne. E’ una venerazione che conduce all’accanimento terapeutico, alla fanatica preservazione di un soma in disfacimento, alla santificazione di una sopravvivenza agonica, dimentichi della scintilla che sola dà senso all’essere. E’ un materialismo cattolico, ammantato di ipocriti discorsi sulla sacralità della vita.

Non so se il cosmo sia in toto perfetto, nonostante le sue palesi pecche o se sia la conseguenza di un errore (errare) primigenio, errore destinato ad essere riparato, ma che ora ci costa sudore, lacrime e sangue. Propenderei, però, per la seconda possibilità.

Ogni fine è un confine: gli stessi traumi, tragici spartiacque del cammino umano, insegnano e danno il senso della prospettiva, ma la legittimazione del male per giunta nelle sue forme assurde, parossistiche, estreme, è spregevole oltre che insostenibile sul piano filosofico e teologico. Disgustosa è la teodicea che concepisce il male come una vendetta divina per colpe più o meno gravi commesse da uomini comuni che non sono perfetti, ma neppure dei demoni. Se esiste una giustizia superiore, essa è distante anni luce dalle simmetriche e meccaniche espiazioni della “giustizia” umana.

Si abbia la compiacenza di rispondere agli strazianti interrogativi sul Male con l’unica parola che non risulterà falsa, stonata, insincera: il silenzio.



Saturday, March 12, 2011

Testamento

http://zret.blogspot.com/2011/03/testamento.html

Testamento

Una conversazione, non un trattato teologico.

Tempo fa, discorrevo con un amico sul motivo che avrebbe spinto Dio a creare o ad emanare questo universo meravigliosamente sciancato. Alla fine ipotizzammo che fu il senso di solitudine. E’ ovvio che tale congettura prescinde da un ragionamento teologico rigoroso, poiché Dio, comprendendo tutto in sé, non dovrebbe essere afflitto dalla solitudine, ma, in fondo, in questa maniera lo si umanizza.

Così immaginiamo che, nel modo in cui uno scrittore costruisce i suoi personaggi per poi muoverli nel bosco della narrazione, così Dio ha creato il cosmo con i suoi abitanti, per sentirsi in compagnia. Come il narratore delinea figure ed inventa intrecci che, un po’ alla volta, prendono vita propria – si pensi al dramma “Sei personaggi in cerca d’autore” - in guisa analoga Dio ha dato vita ad esseri in carne ed ossa per animare uno spazio altrimenti vuoto.

E’ incredibile come una disciplina per molti versi arida e pedantesca, quale la narratologia (qui narrateologia), si riveli ricca di spunti non solo per interpretare testi non imperniati sul racconto, i sogni e la stessa vita, ma pure per bizzarre (forse non tanto) riflessioni sull'Eterno. Dio è una specie di narratore onnisciente: disegna i personaggi, ne sonda l’interiorità e sovente li giudica. Questo tipo di narratore fa e disfa, manipola la dimensione cronotopica, inventa e reinventa… Se non è soddisfatto del manoscritto, lo getta nel fuoco. Evidentemente, Dio, gratificato o no, dagli uomini da lui creati, ha deciso di tenerseli con i loro difetti, moltissimi, ed i loro pregi, pochi, nonostante qualche ripensamento. Forse distruggere il genere umano implica una mutilazione di Dio. Distruggerne per sempre anche uno solo che cosa comporterebbe? Foss’anche un essere infimo, detestabile?

Aristotele scrive che “solo gli animali e gli dei possono vivere in solitudine”: gli dei sì, ma forse ciò non vale per Dio. Certamente gli uomini, se escludiamo gli eremiti ed i saggi, non ci riescono: essi cercano gli altri, si circondano di conoscenti, di amici, dapprincipio per condividere con loro frammenti di vita, poi per tormentarli e tormentarsi in un crescendo che può tramutare l’amicizia e l’amore (ma esisteranno mai l’amicizia e l’amore?) in gelosia, risentimento, discordia. Non si comprende per quale motivo si tenti di rompere il cerchio dell’isolamento, se alla fine ci si accorge che si stava meglio, quando si stava peggio.

“L’inferno sono gli altri”, chiosa gelido, Sartre: gli altri, tante celle infernali in cui si aprono inattesi scorci verso il paradiso, qualche rarissima volta. Viceversa, che cosa ci induce ad amare di un affetto appassionato, sincero e nobilissimo, coloro con cui eravamo entrati tante volte in attrito, quando, però, è ormai tardi, troppo tardi? Siamo un groviglio inestricabile di contraddizioni.

Ci piaccia o no, siamo interdipendenti e stridenti, ma gli studiosi inclini a credere che antichi popoli fossero capaci di vivere in perfetta armonia, probabilmente idealizzano delle società mediterranee definite “gilaniche”. Pare che, come pensano Bachofen ed altri, le culture matriarcali fossero concordi e prospere, poi subentrarono gli Indoeuropei con i loro principi e la loro società tripartita in guerrieri, sacerdoti e lavoratori. La situazione mutò. E’ una ricostruzione di un lontano passato, una delle tante: non so quanto sia plausibile.

Alcuni autori addirittura suppongono che gli uomini migliaia di anni addietro potessero intercomunicare. Chi considera in modo obiettivo la storia, deve solo concludere che, accantonato il falso mito del progresso, l’umanità decadde (in modo improvviso?) da una condizione eccelsa fino a sdrucciolare nell’imbastardimento odierno. E’ uno fra gli insegnamenti della Philosophia perennis, quella che la rende invisa ad evoluzionisti vecchi e nuovi. Evidentemente intervenne un cambiamento ontologico o un errore di trascrizione, quasi in senso genetico, causò, di generazione in generazione, un progressivo deterioramento della specie Homo. Dunque non dovremmo stupirci se il mondo attuale è tanto corrotto ed iniquo, ma restare esterrefatti, quando incontriamo la rettitudine e la nobiltà d’animo. Allo stesso modo un fiore bellissimo può nascere in una discarica mefitica.

Le attuali generazioni sono l’ultimo stadio di un processo degenerativo: se ancora nascono bimbi, non è perché i genitori, tranne qualche eccezione, abbiano in mente un progetto di vita, ma poiché essi obbediscono ad un impulso o per mero conformismo (sposarsi e farsi una famiglia). Che poi alcuni genitori, responsabili-non responsabili, si pentano delle loro decisioni è macigno che ricade sui figli, pronti quasi sempre a ripetere errori tanto biasimati.

Questo istinto è l’estrema degradazione di un’inclinazione a (pro)creare che George Stirner, in un bellissimo saggio, “Grammatiche della creazione”, analizza intrecciando la trama estetica e l’ordito teologico.

Così Dio stesso crea non solo perché solo, ma soprattutto in quanto stimolato da un desiderio di estrinsecazione, il medesimo irrazionale desiderio che spinge l’artista a plasmare, scrivere, dipingere, lo stesso scienziato ad elaborare teorie ed ipotesi, persino l’adolescente a tracciare graffiti sui muri o sui banchi.

Anche quando l’artefice decide di distruggere la sua opera, ne resta qualche traccia, per lo meno, il ricordo. Ecco: questa è la dannazione, il ricordo, come rimpianto, rimorso, rammarico, abitudine a rivangare. Dobbiamo, invece, abituarci a diventare palinsesti, ad abradere il passato che, bello o brutto che sia, è un’ipoteca sul presente. Almeno, in questo modo, il passato, pur continuando ad esistere, non è più visibile. Meglio che niente.

Forse un giorno gli errori cosmici saranno riparati: il male allora non sarà giustificato, ma almeno chiarito e cancellato. La gomma in tasca.




Appunti sull'Idealismo di ieri e di oggi (quarta parte)

http://zret.blogspot.com/2011/03/appunti-sullidealismo-di-ieri-e-di-oggi.html

Appunti sull'Idealismo di ieri e di oggi (quarta parte)

Leggi qui la terza parte.

L’autore del blog “Coscienza evoluta” ben sintetizza questa interpretazione nell’articolo intitolato “Risvegliarsi come Uno”: “L'esistenza umana, intesa come permanenza nell'universo materiale, ha come scopo l'esperienza. L'esperienza fisica può aver luogo solo in un universo duale ed è il mezzo che porta alla conoscenza; la conoscenza condiziona principalmente l'intelletto, la sua capacità decisionale ed interpretativa, perfezionando le azioni e infine la consapevolezza di sé stessi. Un circolo virtuoso che, attraverso questi passaggi, conduce di riflesso all'espansione della coscienza. In un simile sistema, il punto focale è l'uomo, unico vero strumento di misura di sé stesso, che, grazie al libero arbitrio, conferisce la necessaria "imprevedibilità" al complesso intreccio di esperienze che prende comunemente il nome di "vita". Immaginatevi un mondo in equilibrio totale, dove tutti gli opposti si neutralizzano, dove tutto è quieto, prevedibile e capirete che verrebbe a mancare l'elemento fondamentale per giungere alla conoscenza, il contrasto. Semplificando il concetto: contrasto > esperienza degli opposti > conoscenza > consapevolezza”

Il discorso è congruente, ma, come si può con agio constatare, ancorato all’idea di “libero arbitrio”. Se togliamo questa idea, anzi postulato di per sé indimostrabile, l’intera costruzione, più fideistica che filosofica, naufraga miseramente. Che poi la fisicità sia l’unico modo per maturare delle esperienze e che la dualità sia prerogativa dell’universo materiale mi pare opinabile. Si pensi agli angeli che, stando ad alcune tradizioni, decisero di optare per il Male, ribellandosi a Dio. Gli angeli sono o dovrebbero essere creature spirituali e la dualità (l’antitesi tra Bene e Male, il bivio della scelta) preesiste alla materia ed alla caduta.

Altre nozioni andrebbero chiarite: che cosa s’intende per fisicità? Esistono diverse densità della materia e, se sì, esse sono tutte condizioni in cui si possono maturare delle esperienze? Per quale motivo la Coscienza deve acquistare coscienza? Non è già cosciente? Come si spiega che, dopo innumerevoli vite, gli uomini sono sempre più stupidi ed incoscienti? Questo circolo virtuoso, invero tautologico, porta all’espansione di una coscienza che, di per sé, è già espansa, altrimenti non sarebbe coscienza che letteralmente è già presenza a sé stessi, consapevolezza, comprensione e percezione di sé. Espandere la coscienza è un po’ come aggiungere un punto ad una retta già composta da infiniti punti.

Si potrebbe interpretare diversamente questo pensiero, introducendo il concetto di Semicoscienza che, attraverso diversi passaggi, diventa consapevole, a guisa di un uomo che dal dormiveglia del mattino, destandosi percepisce forme, colori, odori, suoni in modo sempre più chiaro e distinto.