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zret puppa
Scopo del Blog
Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.
Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.
Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.
Ciao e grazie della visita.
Il contenuto di questo blog non viene piu' aggiornato regolarmente. Per le ultime notizie potete andare su:
http://indipezzenti.blogspot.ch/
https://www.facebook.com/Task-Force-Butler-868476723163799/
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Sunday, September 20, 2015
Thursday, July 5, 2012
"Marco e Mattio": omaggio ai vinti
http://zret.blogspot.co.uk/2012/07/marco-e-mattio-omaggio-ai-vinti.html
"Marco e Mattio": omaggio ai vinti

“Marco
e Mattio”, libro di Sebastiano Vassalli, narra le peripezie di Mattio,
figlio del calzolaio di Zoldo, borgo del Bellunese. A Zoldo comincia il
viaggio del protagonista verso l’insania, itinerario che culmina a
Venezia nel tentativo di crocifiggersi, novello Cristo, per redimere
l’umanità.
Più dell’opera a tesi e manichea “La chimera”, “Marco e Mattio” impone un confronto con “I promessi sposi”: il modello manzoniano è ineludibile per Vassalli che (ri)costruisce gli eventi principali sulla base di documenti d’epoca. E’ un romanzo storico dunque, purché si consideri la storia umana come un inferno in cui l’autore si inoltra per strappare ai dannati la dichiarazione della loro, in qualche caso, eroica sconfitta. “Ogni sconfitta è insieme testimonianza e protesta, assoluta e senza speranza, che viene insinuata qua e là nei confronti della realtà di oggi, a chiarire come i tempi cambino, ma il mondo proceda sempre uguale”.
La comparazione verte in primo luogo sullo stile e sulle strategie narrative: alcune trascuratezze linguistiche incrinano la prosa altrimenti tornita, venata di un pàthos contenuto. Le tecniche coincidono per lo più con i moduli della narrativa tradizionale, manzoniana in primis. Il narratore onnisciente è, però, è più partecipe, persino dolente. L’ironia è spesso amara, ma senza la degnazione aristocratica del Manzoni.
Il raffronto, alla fine – so che sarò considerato eretico, ma tant’è… – è a vantaggio di Vassalli, il cui nichilismo e sfiducia nell’umanità, mitigati da una sincera adesione alle sofferenze dei “vinti”, sono un antidoto contro gli schemi delle ideologie. “I promessi sposi”, pur apprezzabili per tanti motivi, sono comunque un’opera cattolica o, meglio, cristiano-giansenista: l’Ideenkleid agisce da filtro e da abbellimento sicché, anche scavando nella realtà più turpe, se ne offre un’interpretazione consolatoria. Quando il Manzoni si interroga sul male, ha già le risposte, parziali e perplesse quanto si vuole, ma le ha. In alcune circostanze più del credo religioso, agisce un residuo illuminista che, se consente di gettare uno sguardo lucido e razionale sulle cose, preclude una visione mistica della natura e della vita.
Il Manzoni, nel suo lirismo, non si innalza oltre il cielo di Lombardia, “così bello quando è bello”, laddove Vassalli squaderna alcuni brani cosmici in cui si fondono turbamento e meraviglia. Il primo ignora, nel suo antropocentrismo, i patimenti degli animali; l’altro si china compassionevole sulle torture inflitte loro: “L’urlo silenzioso di quella carne macellata che reclamava vendetta ad un Creatore indifferente e lontano”.
Vassalli, che non è cristiano né razionalista, riesce ad aderire al corpo nudo della verità per mostrarne i pori, le rughe, le macchie… Come in una sorta di visione iperrealista, i personaggi schiacciano, con le loro dimensioni eccessive, il lettore: un parroco spilorcio (erede di don Abbondio, ma senza alcun tratto umoristico), una santa anoressica, un falsario di monete, un padre, quello di Mattio, infoiato, un attante misterioso, Marco, incarnazione del mito dell’Ebreo errante… Le loro vicende più che intrecciarsi con la storia, collidono con essa. Gli echi dei lumi settecenteschi arrivano fiochi e non scalfiscono la miseria e le malattie, alleggeriscono, ma solo per un breve periodo, il giogo dei privilegi. I luoghi poi non sono descritti, ma visti attraverso lo sguardo allucinato di Mattio: Zoldo, stretto nella morsa della fame e delle ripide montagne, Venezia, nella sua splendida decadenza, la pianura brumosa… assumono i connotati di un sogno (conturbante) ad occhi aperti.
“Marco e Mattio” vuole essere un tributo ai matti, come scritto nella dedica e nella premessa. La follia è, in primo luogo, irrazionalità del destino e sono i “folli” che lucidamente la riconoscono, mentre i “sani”, non essendone coscienti, sono terribili nella loro passiva accettazione della sorte e dello status quo. E’ proprio all’assurdo, accolto come normale, che Mattio si ribella, tentando di immolarsi sulla croce: il sacrificio di uno solo può salvare l’umanità o tutte le azioni, anche le più nobili, sono vane? Vassalli conosce la risposta: “Mi piace perdermi col pensiero in quel pulviscolo di sistemi solari che si vedono tra una costellazione e l’altra e in quel buio dove si muovono inutilmente milioni di mondi. Soffermarmi a riflettere sull’infinità di quello sperpero che chiamiamo universo mi fa bene e mi aiuta a stare bene. Che altro sono le nostre impercettibili vite e le nostre microscopiche storie, se non sperpero nello sperpero?” A Vassalli, con la sua narrativa amara ma solidale, il merito di aver compensato, anche se in piccolissima misura, questo sperpero.
Più dell’opera a tesi e manichea “La chimera”, “Marco e Mattio” impone un confronto con “I promessi sposi”: il modello manzoniano è ineludibile per Vassalli che (ri)costruisce gli eventi principali sulla base di documenti d’epoca. E’ un romanzo storico dunque, purché si consideri la storia umana come un inferno in cui l’autore si inoltra per strappare ai dannati la dichiarazione della loro, in qualche caso, eroica sconfitta. “Ogni sconfitta è insieme testimonianza e protesta, assoluta e senza speranza, che viene insinuata qua e là nei confronti della realtà di oggi, a chiarire come i tempi cambino, ma il mondo proceda sempre uguale”.
La comparazione verte in primo luogo sullo stile e sulle strategie narrative: alcune trascuratezze linguistiche incrinano la prosa altrimenti tornita, venata di un pàthos contenuto. Le tecniche coincidono per lo più con i moduli della narrativa tradizionale, manzoniana in primis. Il narratore onnisciente è, però, è più partecipe, persino dolente. L’ironia è spesso amara, ma senza la degnazione aristocratica del Manzoni.
Il raffronto, alla fine – so che sarò considerato eretico, ma tant’è… – è a vantaggio di Vassalli, il cui nichilismo e sfiducia nell’umanità, mitigati da una sincera adesione alle sofferenze dei “vinti”, sono un antidoto contro gli schemi delle ideologie. “I promessi sposi”, pur apprezzabili per tanti motivi, sono comunque un’opera cattolica o, meglio, cristiano-giansenista: l’Ideenkleid agisce da filtro e da abbellimento sicché, anche scavando nella realtà più turpe, se ne offre un’interpretazione consolatoria. Quando il Manzoni si interroga sul male, ha già le risposte, parziali e perplesse quanto si vuole, ma le ha. In alcune circostanze più del credo religioso, agisce un residuo illuminista che, se consente di gettare uno sguardo lucido e razionale sulle cose, preclude una visione mistica della natura e della vita.
Il Manzoni, nel suo lirismo, non si innalza oltre il cielo di Lombardia, “così bello quando è bello”, laddove Vassalli squaderna alcuni brani cosmici in cui si fondono turbamento e meraviglia. Il primo ignora, nel suo antropocentrismo, i patimenti degli animali; l’altro si china compassionevole sulle torture inflitte loro: “L’urlo silenzioso di quella carne macellata che reclamava vendetta ad un Creatore indifferente e lontano”.
Vassalli, che non è cristiano né razionalista, riesce ad aderire al corpo nudo della verità per mostrarne i pori, le rughe, le macchie… Come in una sorta di visione iperrealista, i personaggi schiacciano, con le loro dimensioni eccessive, il lettore: un parroco spilorcio (erede di don Abbondio, ma senza alcun tratto umoristico), una santa anoressica, un falsario di monete, un padre, quello di Mattio, infoiato, un attante misterioso, Marco, incarnazione del mito dell’Ebreo errante… Le loro vicende più che intrecciarsi con la storia, collidono con essa. Gli echi dei lumi settecenteschi arrivano fiochi e non scalfiscono la miseria e le malattie, alleggeriscono, ma solo per un breve periodo, il giogo dei privilegi. I luoghi poi non sono descritti, ma visti attraverso lo sguardo allucinato di Mattio: Zoldo, stretto nella morsa della fame e delle ripide montagne, Venezia, nella sua splendida decadenza, la pianura brumosa… assumono i connotati di un sogno (conturbante) ad occhi aperti.
“Marco e Mattio” vuole essere un tributo ai matti, come scritto nella dedica e nella premessa. La follia è, in primo luogo, irrazionalità del destino e sono i “folli” che lucidamente la riconoscono, mentre i “sani”, non essendone coscienti, sono terribili nella loro passiva accettazione della sorte e dello status quo. E’ proprio all’assurdo, accolto come normale, che Mattio si ribella, tentando di immolarsi sulla croce: il sacrificio di uno solo può salvare l’umanità o tutte le azioni, anche le più nobili, sono vane? Vassalli conosce la risposta: “Mi piace perdermi col pensiero in quel pulviscolo di sistemi solari che si vedono tra una costellazione e l’altra e in quel buio dove si muovono inutilmente milioni di mondi. Soffermarmi a riflettere sull’infinità di quello sperpero che chiamiamo universo mi fa bene e mi aiuta a stare bene. Che altro sono le nostre impercettibili vite e le nostre microscopiche storie, se non sperpero nello sperpero?” A Vassalli, con la sua narrativa amara ma solidale, il merito di aver compensato, anche se in piccolissima misura, questo sperpero.
Pubblicato da
Zret
Monday, November 2, 2009
Minimalismo
Un post deflagrante d'o'professore
http://zret.blogspot.com/2009/11/minimalismo.html
Esprimere l'infinità dell'istante essenziale, lapidario. Concentrare in fulminee illuminazioni il senso degli eventi o la follia dell'altro. Togliere, sfrondare, sfoltire, persino ossificare per restituire alla parola la sua nuda presenza. Porre le domande fondamentali in modo che inceneriscano le impossibili risposte.
Intrecciare la vita e la morte come la trama e l'ordito di un tessuto, in maniera inestricabile. Rendere la prospettiva e la tridimensionalità, non incidendo linee, con le sfumature e le proporzioni, ma fondendo il bianco con il nulla fino a quando risalti la profondità ottica nelle forme non più vedute, ma costruite dalla mente, come avviene in certi quadri dell'Iperrealismo, dove la realtà si dà per sottrazione, gelida monocromia ed assenza. Il bianco è colore della morte, il velo sugli occhi che scende inavvertito.
Ancora, spegnere le emozioni per respirare solo il loro ineffabile, struggente profumo nell'aria. Replicare con uno sguardo sfuggente. Illimpidire la pupilla nell'iride. Allontanarsi nell'ombra dell'indifferenza. Ascoltare suoni vuoti per lasciare che fluiscano nel deserto dell'origine... Questo è minimalismo.
Con grazia e concisione tutta orientale, che è spontaneità, leggiadria, distacco, malinconica coscienza del mondo e della sua imperturbabile vanità, soprattutto di fronte al destino più duro, un pilota giapponese scrisse questo haiku.
Se solo potessimo cadere
come i fiori dei ciliegi in primavera,
così puri, così luminosi.
http://zret.blogspot.com/2009/11/minimalismo.html
Minimalismo

Intrecciare la vita e la morte come la trama e l'ordito di un tessuto, in maniera inestricabile. Rendere la prospettiva e la tridimensionalità, non incidendo linee, con le sfumature e le proporzioni, ma fondendo il bianco con il nulla fino a quando risalti la profondità ottica nelle forme non più vedute, ma costruite dalla mente, come avviene in certi quadri dell'Iperrealismo, dove la realtà si dà per sottrazione, gelida monocromia ed assenza. Il bianco è colore della morte, il velo sugli occhi che scende inavvertito.
Ancora, spegnere le emozioni per respirare solo il loro ineffabile, struggente profumo nell'aria. Replicare con uno sguardo sfuggente. Illimpidire la pupilla nell'iride. Allontanarsi nell'ombra dell'indifferenza. Ascoltare suoni vuoti per lasciare che fluiscano nel deserto dell'origine... Questo è minimalismo.
Con grazia e concisione tutta orientale, che è spontaneità, leggiadria, distacco, malinconica coscienza del mondo e della sua imperturbabile vanità, soprattutto di fronte al destino più duro, un pilota giapponese scrisse questo haiku.
Se solo potessimo cadere
come i fiori dei ciliegi in primavera,
così puri, così luminosi.
Pubblicato da Zret
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