Filologia
Sono sufficienti due esempi: Nietzsche e Michelstaedter. Entrambi si imbatterono nella filologia per negarla. Nietzsche pubblicò la sua prima opera, "La nascita della tragedia dallo spirito della musica", nel 1879: nell'opuscolo l'approccio filologico alla genesi della tragedia greca è già in gran parte superato nella direzione della filosofia. Michelstaedter scrisse “La persuasione e la rettorica”, una singolare tesi di laurea che invece di vertere su questioni erudite, le trascende in un saggio che è una dolorosa, quanto appassionata, analisi della vita e delle sue pungenti contraddizioni.
La filologia, tranne qualche esito eccezionale, è materia da topi di biblioteca, una mummificazione ante mortem. Di fronte alle terribili meraviglie dell'universo, quanti scelgono la via larga del "sapere" inerte ed inutile! L’erudizione fine a sé stessa diventa quasi uno schema di "pensiero", un modo di porsi e di essere, anzi di non essere. Oggi anche quasi tutti gli studiosi e "scienziati" sono filologi: esaurito l'elan, smarrito lo stupore di fronte al mondo, gli scienziati misurano, catalogano, computano. L'indagine muore nella quantità e nella statistica: crolla l’orizzonte umano. Nessuna modanatura filosofica attraversa il gelido mausoleo della "scienza".
Scrive a tale proposito Koiré in "Newtonian studies", 1965: “La scienza abbatté le barriere che separavano cielo e terra: essa realizzò tale unificazione, sostituendo al nostro mondo della qualità e delle percezioni sensibili, il mondo che è il teatro della nostra vita, delle nostre passioni e della nostra morte, un altro mondo, il mondo della quantità, della geometria reificata, nel quale sebbene vi sia posto per ogni cosa, non vi è posto per l’uomo”.
Agli antipodi della filologia, si slargano le terre avventurose dell'Arte, ma la via che conduce in quelle regioni è stretta, ripida ed accidentata. L'Arte esige disciplina sino all'ascesi, solitudine ed abnegazione, pure annullamento di sé per dar voce all'Idea. I veri artisti sono mistici che plasmano il silenzio e ne cavano echi di infinito. Sono scalatori che, toccata la vetta, spaziano con lo sguardo oltre il confine dell'invisibile.
Sulla china si inerpicano i filosofi che, quando oltrepassano il raziocinio, tendono l'arco del pensiero verso l’alto per scoccare il dardo dell'intuizione. Allora la riflessione perde di rigidità per splendere nel fuoco dell'aforisma e della domanda bruciante. La verità, appena proclamata, viene incenerita, l'affermazione provocatoriamente contraddetta.
Il volgo, invece, striscia sul terreno cedevole dei dogmi, prosternato davanti agli "scienziati", servi dei servi del regime.
La filologia, tranne qualche esito eccezionale, è materia da topi di biblioteca, una mummificazione ante mortem. Di fronte alle terribili meraviglie dell'universo, quanti scelgono la via larga del "sapere" inerte ed inutile! L’erudizione fine a sé stessa diventa quasi uno schema di "pensiero", un modo di porsi e di essere, anzi di non essere. Oggi anche quasi tutti gli studiosi e "scienziati" sono filologi: esaurito l'elan, smarrito lo stupore di fronte al mondo, gli scienziati misurano, catalogano, computano. L'indagine muore nella quantità e nella statistica: crolla l’orizzonte umano. Nessuna modanatura filosofica attraversa il gelido mausoleo della "scienza".
Scrive a tale proposito Koiré in "Newtonian studies", 1965: “La scienza abbatté le barriere che separavano cielo e terra: essa realizzò tale unificazione, sostituendo al nostro mondo della qualità e delle percezioni sensibili, il mondo che è il teatro della nostra vita, delle nostre passioni e della nostra morte, un altro mondo, il mondo della quantità, della geometria reificata, nel quale sebbene vi sia posto per ogni cosa, non vi è posto per l’uomo”.
Agli antipodi della filologia, si slargano le terre avventurose dell'Arte, ma la via che conduce in quelle regioni è stretta, ripida ed accidentata. L'Arte esige disciplina sino all'ascesi, solitudine ed abnegazione, pure annullamento di sé per dar voce all'Idea. I veri artisti sono mistici che plasmano il silenzio e ne cavano echi di infinito. Sono scalatori che, toccata la vetta, spaziano con lo sguardo oltre il confine dell'invisibile.
Sulla china si inerpicano i filosofi che, quando oltrepassano il raziocinio, tendono l'arco del pensiero verso l’alto per scoccare il dardo dell'intuizione. Allora la riflessione perde di rigidità per splendere nel fuoco dell'aforisma e della domanda bruciante. La verità, appena proclamata, viene incenerita, l'affermazione provocatoriamente contraddetta.
Il volgo, invece, striscia sul terreno cedevole dei dogmi, prosternato davanti agli "scienziati", servi dei servi del regime.
Pubblicato da Zret
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