Scopo del Blog
Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.
Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.
Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.
Ciao e grazie della visita.
Il contenuto di questo blog non viene piu' aggiornato regolarmente. Per le ultime notizie potete andare su:
http://indipezzenti.blogspot.ch/
https://www.facebook.com/Task-Force-Butler-868476723163799/
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Sunday, April 10, 2016
Monday, August 25, 2014
Dietro i veli
http://zret.blogspot.ch/2014/08/dietro-i-veli.html
Dietro i veli

N.B.
Le traduzioni dei testi sacri all’interno del presente articolo sono
state eseguite da studiosi autorevoli. Si declina ogni responsabilità in
caso di versione inesatta da un punto di vista filologico e
linguistico.
E' più facile nei tempi dilaniati da forti contrapposizioni che i pregiudizi si radichino in modo assai tenace. Bene o male, assistiamo almeno dall'inside job del giorno 11 settembre 2001, ad una demonizzazione indiscriminata dell'Islam. Ora, premesso che tutte le fedi si possono ritenere dei soffi spirituali cristallizzati, se non, in talune circostanze, delle costruzioni ideologiche più dannose che ininfluenti, è disdicevole criminalizzare in toto espressioni culturali in cui si trova pure qualche gemma, per di più per ragioni di Realpolitik. Guido Gozzano osserva che un credo nasce puro, ma presto esso degenera in idolatria. Come dargli torto?
Si ripete che le donne, all'interno del mondo musulmano, sono succube degli uomini, essendo costrette tra l’altro a portare il velo. Consideriamo solo la questione del velo. Scrive Francesca Zamboni: "In origine il chādor indicava lo status sociale di una donna, poiché il suo impiego serviva loro per distinguersi da quelle che non lo adoperavano, ovvero le cortigiane e le ancelle. I sovrani persiani si servivano di questo mezzo di identificazione così come era abituale tra i Greci ed i Bizantini, le cui mogli non potevano mostrarsi in pubblico con il viso completamente scoperto. Una pratica pre-islamica, questa, che ha trovato il suo seguito sia nel chādor sia nell’hijāb (drappo di seta sul viso). [...] Il niqāb, altro tipo di velo appartenente alla tradizione islamica ed indossato in Arabia Saudita, Iran e Marocco, copre, a differenza dello chādor, tutto il corpo della donna, lasciando scoperti solo gli occhi.
L'apice della segregazione e sottomissione femminile è, però, rappresentato da due tipi di burqa: il primo, di colore blu, copre completamente il corpo ed il volto della donna e qualche volta è provvisto di una piccola rete per favorire la visibilità; il secondo è un velo che copre interamente la testa, lasciando liberi gli occhi. [...] Si tratta di un'estremizzazione dei precetti coranici classici, poiché il Libro sacro considera il velo lo strumento tramite cui le donne possono distinguersi dalle concubine. Quindi l’uso del velo presuppone la possibilità, per il Corano, di essere riconosciute”.
Mentre nel mondo maomettano si è assistito ad un progressivo inasprimento di molti precetti, nel Cristianesimo, in particolare nel Cattolicesimo ed in molte chiese cosiddette evangeliche, pristine norme sono state addolcite o rimosse. Paolo (o chi per lui) ordina: "Perché se una donna non si mette il velo, si tagli anche i capelli. Ora, se è cosa vergognosa per una donna avere i capelli tagliati o essere rasata, allora si copra il capo con un velo. L'uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna, invece, è gloria dell'uomo. E infatti non l'uomo deriva dalla donna, ma la donna dall'uomo; né l'uomo fu creato per la donna, ma la donna per l'uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a causa degli angeli”. (Corinzi, I, 11: 6)
Due passaggi del Corano ampliano quest’obbligo, tipico di molti popoli medio-orientali sin dall'antichità. “E di’ alle credenti (...) di lasciar scendere i loro veli fin sul petto.” (Corano, 24: 31) “O Profeta, di’ alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli: è per loro il miglior modo per farsi conoscere e per non essere offese. Dio è veramente Giusto e Misericordioso.” (Corano, 33: 59).
Perché l'obbligo del velo durante le assemblee (attualmente messe) è oggi eluso nel Cristianesimo, se si esclude il caso di qualche devota anziana, specialmente nell'Italia meridionale ed insulare? La misoginia paolina, sulle cui motivazioni si potrebbe disquisire a lungo, fu recepita nei primi secoli dell'era volgare da Tertulliano. Nel De virginibus velandis l’apologeta considera la donna un essere inferiore che deve indossare sempre il velo.
Allargando il discorso, ci si chiede per quale ragione le norme della Torah non siano rispettate all'interno delle chiese cristiane, quando il Messia ammonisce: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Torah o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure uno yod o un segno dalla Torah, senza che tutto sia compiuto".
Per fortuna certe regole del Pentateuco non sono osservate, soprattutto mercé l'Apostolo dei gentili [1]. Egli si adoperò per una spericolata quadratura del cerchio, ossia conciliare Antico e Nuovo Testamento, erigendo un nuovo edificio su fondamenta che mal si adattavano al suo manufatto architettonico. Tuttavia le fondamenta non si vedono ed andò bene così.
[1] Ad esempio, in Deuteronomio 22:22,23 (vedi in calce), è stabilita la pena per gli adulteri, ossia la lapidazione, ma non mi risulta che i Cristiani applichino tale regola. Nel Corano, invece, non si reperisce neanche un cenno alla lapidazione.
22 "Quando si troverà un uomo a giacere con una donna maritata, ambedue morranno: l’uomo che s’è giaciuto con la donna e la donna. Così toglierai via il male di mezzo ad Israele. 23 Quando una fanciulla vergine è fidanzata ed un uomo, trovandola in città, si giace con lei, 24 condurrete ambedue alla porta di quella città e li lapiderete sì che muoiano: la fanciulla, perché essendo in città, non ha gridato; e l’uomo perché ha disonorato la donna del suo prossimo. Così toglierai via il male di mezzo a te".
E' più facile nei tempi dilaniati da forti contrapposizioni che i pregiudizi si radichino in modo assai tenace. Bene o male, assistiamo almeno dall'inside job del giorno 11 settembre 2001, ad una demonizzazione indiscriminata dell'Islam. Ora, premesso che tutte le fedi si possono ritenere dei soffi spirituali cristallizzati, se non, in talune circostanze, delle costruzioni ideologiche più dannose che ininfluenti, è disdicevole criminalizzare in toto espressioni culturali in cui si trova pure qualche gemma, per di più per ragioni di Realpolitik. Guido Gozzano osserva che un credo nasce puro, ma presto esso degenera in idolatria. Come dargli torto?
Si ripete che le donne, all'interno del mondo musulmano, sono succube degli uomini, essendo costrette tra l’altro a portare il velo. Consideriamo solo la questione del velo. Scrive Francesca Zamboni: "In origine il chādor indicava lo status sociale di una donna, poiché il suo impiego serviva loro per distinguersi da quelle che non lo adoperavano, ovvero le cortigiane e le ancelle. I sovrani persiani si servivano di questo mezzo di identificazione così come era abituale tra i Greci ed i Bizantini, le cui mogli non potevano mostrarsi in pubblico con il viso completamente scoperto. Una pratica pre-islamica, questa, che ha trovato il suo seguito sia nel chādor sia nell’hijāb (drappo di seta sul viso). [...] Il niqāb, altro tipo di velo appartenente alla tradizione islamica ed indossato in Arabia Saudita, Iran e Marocco, copre, a differenza dello chādor, tutto il corpo della donna, lasciando scoperti solo gli occhi.
L'apice della segregazione e sottomissione femminile è, però, rappresentato da due tipi di burqa: il primo, di colore blu, copre completamente il corpo ed il volto della donna e qualche volta è provvisto di una piccola rete per favorire la visibilità; il secondo è un velo che copre interamente la testa, lasciando liberi gli occhi. [...] Si tratta di un'estremizzazione dei precetti coranici classici, poiché il Libro sacro considera il velo lo strumento tramite cui le donne possono distinguersi dalle concubine. Quindi l’uso del velo presuppone la possibilità, per il Corano, di essere riconosciute”.
Mentre nel mondo maomettano si è assistito ad un progressivo inasprimento di molti precetti, nel Cristianesimo, in particolare nel Cattolicesimo ed in molte chiese cosiddette evangeliche, pristine norme sono state addolcite o rimosse. Paolo (o chi per lui) ordina: "Perché se una donna non si mette il velo, si tagli anche i capelli. Ora, se è cosa vergognosa per una donna avere i capelli tagliati o essere rasata, allora si copra il capo con un velo. L'uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna, invece, è gloria dell'uomo. E infatti non l'uomo deriva dalla donna, ma la donna dall'uomo; né l'uomo fu creato per la donna, ma la donna per l'uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a causa degli angeli”. (Corinzi, I, 11: 6)
Due passaggi del Corano ampliano quest’obbligo, tipico di molti popoli medio-orientali sin dall'antichità. “E di’ alle credenti (...) di lasciar scendere i loro veli fin sul petto.” (Corano, 24: 31) “O Profeta, di’ alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli: è per loro il miglior modo per farsi conoscere e per non essere offese. Dio è veramente Giusto e Misericordioso.” (Corano, 33: 59).
Perché l'obbligo del velo durante le assemblee (attualmente messe) è oggi eluso nel Cristianesimo, se si esclude il caso di qualche devota anziana, specialmente nell'Italia meridionale ed insulare? La misoginia paolina, sulle cui motivazioni si potrebbe disquisire a lungo, fu recepita nei primi secoli dell'era volgare da Tertulliano. Nel De virginibus velandis l’apologeta considera la donna un essere inferiore che deve indossare sempre il velo.
Allargando il discorso, ci si chiede per quale ragione le norme della Torah non siano rispettate all'interno delle chiese cristiane, quando il Messia ammonisce: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Torah o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure uno yod o un segno dalla Torah, senza che tutto sia compiuto".
Per fortuna certe regole del Pentateuco non sono osservate, soprattutto mercé l'Apostolo dei gentili [1]. Egli si adoperò per una spericolata quadratura del cerchio, ossia conciliare Antico e Nuovo Testamento, erigendo un nuovo edificio su fondamenta che mal si adattavano al suo manufatto architettonico. Tuttavia le fondamenta non si vedono ed andò bene così.
[1] Ad esempio, in Deuteronomio 22:22,23 (vedi in calce), è stabilita la pena per gli adulteri, ossia la lapidazione, ma non mi risulta che i Cristiani applichino tale regola. Nel Corano, invece, non si reperisce neanche un cenno alla lapidazione.
22 "Quando si troverà un uomo a giacere con una donna maritata, ambedue morranno: l’uomo che s’è giaciuto con la donna e la donna. Così toglierai via il male di mezzo ad Israele. 23 Quando una fanciulla vergine è fidanzata ed un uomo, trovandola in città, si giace con lei, 24 condurrete ambedue alla porta di quella città e li lapiderete sì che muoiano: la fanciulla, perché essendo in città, non ha gridato; e l’uomo perché ha disonorato la donna del suo prossimo. Così toglierai via il male di mezzo a te".
Vietata la riproduzione - Tutti i diritti riservati
Pubblicato da
Zret
Wednesday, March 27, 2013
Non a sua immagine
http://zret.blogspot.it/2013/03/non-sua-immagine.html
Non a sua immagine
Non uno itinere pervenitur ad tam magnum secretum. Ad un così profondo mistero non si giunge attraverso una sola via. (Simmaco)
Il saggio “Non a sua immagine” di John Lamb Nash nasce da una coraggiosa rilettura della Gnosi antica. Considerata da molti studiosi, per soprammercato militanti cattolici, un’ininfluente diramazione del Cristianesimo, se non un’escrescenza presto asportata, grazie al trionfo dell’”Ortodossia”, Lamb Nash riconduce la Gnosi nell’alveo della Tradizione sciamanica e misterica.[1] L’autore nega che i filosofi gnostici siano dominati da un atteggiamento anticosmico, anzi, in quanto eredi ed ultimi interpreti nel mondo antico del Paganesimo, essi combatterono contro il nichilismo del credo niceno.
“Il dio Pan è morto”: è l’accorato grido che, secondo Plutarco, fu udito, quando la civiltà classica stava ormai per estinguersi. La lugubre vittoria della chiesa ufficiale, scaturita dal fanatismo manicheo degli Zaddikim (i Qumraniti), poi riversato nella religione paolina, è, in primo luogo oblio, anzi stupro della Natura e della sua Anima. Dissacrata la Terra, di cui la Dea Madre è l’alma essenza, la storia umana poteva solo prendere una direzione, quella sbagliata.
Ecco allora il turpe connubio tra Impero e Chiesa, auspice più il settario Teodosio che l’ambiguo Costantino. Ecco allora la Sophia calpestata e l’ignoranza eretta a sistema, benché paludata e ingioiellata di simboli venerandi. Questa fu ed è la Chiesa cattolica: un’istituzione che, se ha custodito qualche veneranda verità, non ha potuto né voluto farne dono al genere umano, defraudato di un prezioso tesoro. Queste furono e sono le varie chiese cristiane. Codeste sono la Massoneria attuale e la scienza accademica. In modo simile un parvenu commissiona la costruzione di una villa dalle forme classicheggianti dove il cattivo gusto vanifica e ridicolizza qualsiasi rivisitazione dell’antico.
Nondimeno non è solo questione di Kitsch. Le religioni patriarcali di cui i telestai (gli iniziati ai Misteri) e gli Gnostici denunciarono la funesta ideologia teocratica, sono le fondamenta di una visione distorta. Il loro lascito è sotto gli occhi di ognuno ed è punto bello. Del tutto isolati, i pensatori gnostici avvisarono gli uomini pure di una minaccia invisibile: il pericolo degli Arconti. Nella parte più inquietante del suo saggio, Lamb Nash identifica gli Arconti con gli Alieni malevoli dei nostri tempi. E’ inevitabile l’apprezzamento per quegli ufologi (Vallée, Keel, Kerner) che hanno reperito nell’antica sapienza la lucerna per gettare un barlume nei nostri tempi bui.[2]
Gli altri capitoli del volume delineano la cosmologia e l’antropologia gnostica, il tema del cedimento per opera di Sophia, indugiano sui protagonisti, gli epigoni e gli estimatori della cultura sofianica, da Ipazia a Giamblico, da Marco Aurelio a Plutarco, da Blake a D.H. Lawrence, da Philip K. Dick a Carlos Castaneda, da Mircea Eliade a Marjia Gimbutas etc.[3] Il discorso si snoda non con l’acribia dell’erudito, ma con la vena appassionata dell'intellettuale engagé. Così alle puntigliose, ma alquanto soporifere dissertazioni tipiche, ad esempio, di un Albrile, il Nostro preferisce il piglio polemico: le iperboli bibliche ed evangeliche, il complesso del redentore, il culto della sofferenza… sono esibiti nella loro grottesca irrazionalità, in quanto di disumano possiedono, quanto più sono antropocentrici.
Chi è l’uomo? Qual è la sua identità? Lo studioso crede di poter rispondere, richiamandosi al pensiero degli Iniziati ai Misteri. L’uomo è tale non nella sua identificazione con Dio (l’arrogante Io-Dio della New age), ma nel suo essere partecipe della Vita universa (Zoe), nella sua specificità di creatura che reca un’impronta, pur labile, della perfezione pleromica.[4]
Ad altre domande prova a rispondere l’autore. Che cosa anima il cosmo? Qual è la genesi del male? Qual è il destino della Terra e dell’umanità? Qui egli accetta delle risposte che, a nostro parere, sono talora fuorvianti. James Lovelock ed il drappello di “scienziati” che Lamb Nash crede interlocutori per una riscoperta del Sacro sono, infatti, di là dalle somiglianze formali con la Weltanschauung classica, dei ciarlatani. Il loro amore per Gaia è zuccheroso sentimentalismo, se non frode mondialista.
Un altro aspetto di “Non a sua immagine” che suscita qualche perplessità è la rescissione rispetto alle intuizioni gnostiche che talora brillano nella cultura vincente: lo stesso D.H. Lawrence, apprezzato da Lamb Nash, riconobbe nel suo opuscolo “Apocalisse” che il nucleo di “Rivelazione” era gnostico, anche se vi si svilupparono bubboni ebraico-paolini.
Nonostante ciò, il saggio in oggetto è apprezzabile. Controverso e, a volte, un po’ avventato ed oscuro, ma ricco di stimoli per chi intenda compiere ulteriori (audaci) ricerche, il testo riporta innumeri ed autorevoli fonti citate nella bibliografia ragionata - mancano stranamente all’appello le opere del rumeno Culianu, uno dei maggiori esperti di Gnosi – e soprattutto offre una vista emozionante sul pensiero pagano, esoterico e gnostico. Se certi particolari sono sfocati, se alcuni confini concettuali restano da tracciare, questo non significa che non sia stato inquadrato il problema. Tutt’altro. Bisogna vedere se e come riusciremo a risolverlo.
[1] Si pensi al testo di Ernesto Buonaiuti, “Lo Gnosticismo: storie di antiche lotte religiose”, Roma, 1907, Milano, 2012. E’ una grossolana apologia della religione paolina ed una diffamazione della Gnosi. A parziale discolpa di Buonaiuti, possiamo ricordare che egli scrisse prima che fossero scoperti nel 1947 i codici di Nag Hammadi.
[2] Lo studioso deplora che l’ufologia abbia quasi sempre ignorato e continui ad ignorare il tema degli Arconti, entità insediate in una dimensione meccanica e meccanici anch’essi, protesi al dominio del sistema Sole-Luna-Terra. In effetti, grava sulle indagini in questo settore l’ipoteca dello scientismo. Esso ci impedisce di vedere oltre e ci imprigiona, con i suoi carcerieri tecnologici, in una realtà virtuale che eclissa la realtà reale.
[3] All’elenco degli intellettuali e degli artisti che sono stati sacerdoti di Sophia, quantunque in modo criptico, aggiungerei Dante Alighieri. La sua preghiera alla Vergine è un’orazione ad Iside, la dea dai mille nomi. Per quanto mi consta, nessuno si è mai cimentato in un’esegesi che prenda l’abbrivo da tale possibilità.
[4] Si potrebbe qui introdurre la differenza tra Zoe, la vitalità pura ed immortale, distinta da bios, l’esistenza caduca ed inconsapevole. Come mi chiedevo tempo fa: il vocabolo greco “bios” è collegato a "bia", “violenza”? Il Dasein come strappo da una condizione di beatitudine primigenia?
Il saggio “Non a sua immagine” di John Lamb Nash nasce da una coraggiosa rilettura della Gnosi antica. Considerata da molti studiosi, per soprammercato militanti cattolici, un’ininfluente diramazione del Cristianesimo, se non un’escrescenza presto asportata, grazie al trionfo dell’”Ortodossia”, Lamb Nash riconduce la Gnosi nell’alveo della Tradizione sciamanica e misterica.[1] L’autore nega che i filosofi gnostici siano dominati da un atteggiamento anticosmico, anzi, in quanto eredi ed ultimi interpreti nel mondo antico del Paganesimo, essi combatterono contro il nichilismo del credo niceno.
“Il dio Pan è morto”: è l’accorato grido che, secondo Plutarco, fu udito, quando la civiltà classica stava ormai per estinguersi. La lugubre vittoria della chiesa ufficiale, scaturita dal fanatismo manicheo degli Zaddikim (i Qumraniti), poi riversato nella religione paolina, è, in primo luogo oblio, anzi stupro della Natura e della sua Anima. Dissacrata la Terra, di cui la Dea Madre è l’alma essenza, la storia umana poteva solo prendere una direzione, quella sbagliata.
Ecco allora il turpe connubio tra Impero e Chiesa, auspice più il settario Teodosio che l’ambiguo Costantino. Ecco allora la Sophia calpestata e l’ignoranza eretta a sistema, benché paludata e ingioiellata di simboli venerandi. Questa fu ed è la Chiesa cattolica: un’istituzione che, se ha custodito qualche veneranda verità, non ha potuto né voluto farne dono al genere umano, defraudato di un prezioso tesoro. Queste furono e sono le varie chiese cristiane. Codeste sono la Massoneria attuale e la scienza accademica. In modo simile un parvenu commissiona la costruzione di una villa dalle forme classicheggianti dove il cattivo gusto vanifica e ridicolizza qualsiasi rivisitazione dell’antico.
Nondimeno non è solo questione di Kitsch. Le religioni patriarcali di cui i telestai (gli iniziati ai Misteri) e gli Gnostici denunciarono la funesta ideologia teocratica, sono le fondamenta di una visione distorta. Il loro lascito è sotto gli occhi di ognuno ed è punto bello. Del tutto isolati, i pensatori gnostici avvisarono gli uomini pure di una minaccia invisibile: il pericolo degli Arconti. Nella parte più inquietante del suo saggio, Lamb Nash identifica gli Arconti con gli Alieni malevoli dei nostri tempi. E’ inevitabile l’apprezzamento per quegli ufologi (Vallée, Keel, Kerner) che hanno reperito nell’antica sapienza la lucerna per gettare un barlume nei nostri tempi bui.[2]
Gli altri capitoli del volume delineano la cosmologia e l’antropologia gnostica, il tema del cedimento per opera di Sophia, indugiano sui protagonisti, gli epigoni e gli estimatori della cultura sofianica, da Ipazia a Giamblico, da Marco Aurelio a Plutarco, da Blake a D.H. Lawrence, da Philip K. Dick a Carlos Castaneda, da Mircea Eliade a Marjia Gimbutas etc.[3] Il discorso si snoda non con l’acribia dell’erudito, ma con la vena appassionata dell'intellettuale engagé. Così alle puntigliose, ma alquanto soporifere dissertazioni tipiche, ad esempio, di un Albrile, il Nostro preferisce il piglio polemico: le iperboli bibliche ed evangeliche, il complesso del redentore, il culto della sofferenza… sono esibiti nella loro grottesca irrazionalità, in quanto di disumano possiedono, quanto più sono antropocentrici.
Chi è l’uomo? Qual è la sua identità? Lo studioso crede di poter rispondere, richiamandosi al pensiero degli Iniziati ai Misteri. L’uomo è tale non nella sua identificazione con Dio (l’arrogante Io-Dio della New age), ma nel suo essere partecipe della Vita universa (Zoe), nella sua specificità di creatura che reca un’impronta, pur labile, della perfezione pleromica.[4]
Ad altre domande prova a rispondere l’autore. Che cosa anima il cosmo? Qual è la genesi del male? Qual è il destino della Terra e dell’umanità? Qui egli accetta delle risposte che, a nostro parere, sono talora fuorvianti. James Lovelock ed il drappello di “scienziati” che Lamb Nash crede interlocutori per una riscoperta del Sacro sono, infatti, di là dalle somiglianze formali con la Weltanschauung classica, dei ciarlatani. Il loro amore per Gaia è zuccheroso sentimentalismo, se non frode mondialista.
Un altro aspetto di “Non a sua immagine” che suscita qualche perplessità è la rescissione rispetto alle intuizioni gnostiche che talora brillano nella cultura vincente: lo stesso D.H. Lawrence, apprezzato da Lamb Nash, riconobbe nel suo opuscolo “Apocalisse” che il nucleo di “Rivelazione” era gnostico, anche se vi si svilupparono bubboni ebraico-paolini.
Nonostante ciò, il saggio in oggetto è apprezzabile. Controverso e, a volte, un po’ avventato ed oscuro, ma ricco di stimoli per chi intenda compiere ulteriori (audaci) ricerche, il testo riporta innumeri ed autorevoli fonti citate nella bibliografia ragionata - mancano stranamente all’appello le opere del rumeno Culianu, uno dei maggiori esperti di Gnosi – e soprattutto offre una vista emozionante sul pensiero pagano, esoterico e gnostico. Se certi particolari sono sfocati, se alcuni confini concettuali restano da tracciare, questo non significa che non sia stato inquadrato il problema. Tutt’altro. Bisogna vedere se e come riusciremo a risolverlo.
[1] Si pensi al testo di Ernesto Buonaiuti, “Lo Gnosticismo: storie di antiche lotte religiose”, Roma, 1907, Milano, 2012. E’ una grossolana apologia della religione paolina ed una diffamazione della Gnosi. A parziale discolpa di Buonaiuti, possiamo ricordare che egli scrisse prima che fossero scoperti nel 1947 i codici di Nag Hammadi.
[2] Lo studioso deplora che l’ufologia abbia quasi sempre ignorato e continui ad ignorare il tema degli Arconti, entità insediate in una dimensione meccanica e meccanici anch’essi, protesi al dominio del sistema Sole-Luna-Terra. In effetti, grava sulle indagini in questo settore l’ipoteca dello scientismo. Esso ci impedisce di vedere oltre e ci imprigiona, con i suoi carcerieri tecnologici, in una realtà virtuale che eclissa la realtà reale.
[3] All’elenco degli intellettuali e degli artisti che sono stati sacerdoti di Sophia, quantunque in modo criptico, aggiungerei Dante Alighieri. La sua preghiera alla Vergine è un’orazione ad Iside, la dea dai mille nomi. Per quanto mi consta, nessuno si è mai cimentato in un’esegesi che prenda l’abbrivo da tale possibilità.
[4] Si potrebbe qui introdurre la differenza tra Zoe, la vitalità pura ed immortale, distinta da bios, l’esistenza caduca ed inconsapevole. Come mi chiedevo tempo fa: il vocabolo greco “bios” è collegato a "bia", “violenza”? Il Dasein come strappo da una condizione di beatitudine primigenia?
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Friday, November 23, 2012
Uno o due Messia? (prima parte)
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Uno o due Messia? (prima parte)
Chi legga in modo spassionato i Vangeli deve convenire che non di un solo Messia sono narrate le vicende ed è riferita la predicazione, ma di due. Poco importa se essi furono personaggi storici o no: le religioni germinano attorno ad un’idea che può essere incarnata da una figura carismatica realmente esistita, ma pure coincidere con una prodigiosa mitopoiesi.Saremmo propensi a vedere nei Messia evangelici (compresi quelli tratteggiati nei libelli apocrifi) due uomini che veramente vissero in Palestina tra il I sec. a. C. ed il I secolo dell’era volgare. Per ironia (o frode?) della storia al Cristo politicizzato è stato attribuito un messaggio di amore ecumenico, mentre la placida figura del Messia di Aronne (Yeshua - Gesù bar Abba) è stata o appannata o svilita in malfattore, a tal punto che il vocabolo “barabba” è assurto a sinonimo di “briccone”.
Che cosa induce molti studiosi ad ipotizzare che i Messia fossero due? Gli indizi non mancano: gli Esseni, confraternita nel cui milieu o ai margini del quale si sviluppò il movimento ebionita, attendevano due Messia: uno regale ed uno sacerdotale. La congiunzione Giove-Saturno, che fu forse la stella di Betlemme, adombra la distinzione menzionata. Il Vangelo di Matteo contiene una genealogia regale, laddove Luca riferisce l’ascendenza levitica.
Non solo. I Vangeli di Matteo e Marco riportano due distinti episodi in cui Gesù moltiplicò pani e pesci per sfamare la moltitudine che lo aveva seguito: nel primo (Matteo 14,13-21, Marco 6,30-44) con cinque pani e due pesci rifocillò cinquemila persone; nel secondo (Matteo 15,32, 45, 44. Marco 8,1-10) con sette pani e "pochi pesciolini" il Salvatore ristorò quattromila seguaci.
La prima moltiplicazione è riportata anche da Luca (9,10-17) e Giovanni (6,1-14). E’ probabile che i due pesci siano i due Messia; i cinque pani, in tale contesto, dovrebbero simboleggiare i cinque libri della Torah.
Più di queste tracce è, però, la dicotomia diegetica e descrittiva a deporre a favore della congettura in oggetto. Coesistono nei Vangeli un Cristo combattivo ed uno mite: le loro vicende procedono desultorie non solo per i tagli, le cuciture e le ricuciture del tessuto narrativo, ma anche poiché lo scrittore pare seguire due itinerari, dipingere due attanti principali. La regia è piuttosto scaltrita, ma gli stacchi, le incongruenze affiorano: il montaggio è di tipo sovrano per necessità (e per la difficoltà ad armonizzare ed incastrare sequenze eteroclite) e non per scelta estetica.
Così si giustappongono episodi discordanti e proclami onestamente inconciliabili. Matteo 10, 34-38 scrive: “Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace, ma la spada. Perché sono venuto a dividere il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell’uomo saranno i suoi familiari.”
Luca è ancora più bellicoso, anzi incendiario: “Sono venuto a portare fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso! Devo ricevere un battesimo e quanto mi sento angustiato, finché non sia compiuto. Credete che io sia venuto a mettere pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. Perché d’ora in poi cinque persone in una casa saranno divise, tre contro due e due contro tre. Saranno divisi il padre contro il figlio, il figlio contro il padre, la madre contro la figlia, la figlia contro la madre, la suocera contro sua nuora, la nuora contro la suocera.” (Luca 12, 49-53)
Luca 35-38 riporta un dialogo dove all’ordine messianista è stata aggiunta una pacifica coda paolina: "Quando vi ho mandato senza borsa né bisaccia né sandali vi è forse mancato qualcosa?". Risposero: "Nulla". Ed egli soggiunse: "Ma ora, chi ha una borsa la prenda e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. 37 Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine". 38 Ed essi dissero: "Signore, ecco qui due spade". Ma egli rispose "Basta!"
Ecco che ci si sbizzarrisce con le esegesi metaforiche, simboliche, allegoriche… Spesso sono letture molto brillanti: peccato che brillino di una luce da oggetto di bigiotteria. Piaccia o no, siamo al cospetto di contenuti politici anti-romani maldestramente aggiustati, a guisa di un abito rappezzato alla bell’e meglio. Il Cristo depoliticizzato piaceva a Paolo: faceva alla sua bisogna. I dissidi con Giacomo, fratello del Signore, e gli altri Nazirei erano inevitabili, ma la propaganda nicena li cancellò: fu come propiziare la pace tra Eteocle e Polinice. Tanto chi conosce Eteocle e Polinice e chi era ed è al corrente delle dispute tra l’apostolo dei Gentili e gli Ebioniti?
Pubblicato da Zret diegetico acconguagliato cornigero
Thursday, February 17, 2011
Corpus hominis
http://zret.blogspot.com/2011/01/corpus-hominis.html
Corpus hominis

Il corpo: come considerarlo? La duplicità, che non è necessariamente dualismo, implica un movimento di attrazione-repulsione. Forse le anime, come sostengono alcune tradizioni, furono attratte dalla materia in cui restarono imprigionate: il corpo diventa un sarcofago da cui l’anima anela disperatamente a liberarsi, di vita in vita. È una caduta per concupiscenza, poiché le anime desiderano esperire, attraverso i sensi, il mondo della densità. L’attrazione per la materia, una volta conosciuto il suo destino di disfacimento, si inverte in ripulsa, ma ormai è tardi. Troppo tardi.
Le correnti gnostiche, di cui alcuni princìpi confluirono nei sistemi dei Bogomili e dei Catari, enfatizzando la differenza tra Spirito e materia, negano ogni possibile conciliazione. E’ tragicamente ironico che il persecutore degli Albigesi, Innocenzo III, nel De contemptu mundi, mostrò una visione del soma e delle sue ribrezzose impurità non dissimile da quella dai Buoni uomini.
E’ necessario il corpo per maturare dei vissuti? La seduzione della conoscenza lato sensu ebbe il sopravvento: fu la rovina. Le voluttà dei sensi sono più inebrianti del piacere della sfera intelligibile, ma il loro scotto è alto, ossia scendere in una dimensione dove, ad un breve periodo di vigoria, subentra una fase di progressivo, irreversibile decadimento.
Duplicità, si diceva: da un lato l’organismo si rivela un “congegno” strabiliante nella sua complessità ed efficienza, dall’altro è un involucro fatiscente. Suscita ammirazione uno strumento come la mano, con le sue articolazioni, le sue possibilità di afferrare gli oggetti e di manipolarli, eppure…
“Un tronco che soffre”: così definì il corpo Giacomo Leopardi con potente, disperata immagine.
Forse è un’astuzia della natura che perpetua ciecamente sé stessa attraverso gli organismi caduchi delle diverse specie: esisterà pure un disegno, ma ce ne sfuggono i connotati più profondi. Era necessario questo addensamento o fu il risultato di uno scarto ontologico? Anche l'avatar discende, ma poi risale; per i comuni mortali l’anabasi è ardua, quasi impossibile.
L’Orfismo, nella tradizione occidentale, palesò un atteggiamento anti-ilico, recepito poi da filosofi come Platone. Un pensiero anti-cosmico si può reputare una radicalizzazione di quella tendenza. Il sentiero dualistico conduce verso il rifiuto del mondo e diventa nichilismo, se, annichilita la natura, non resta nient’altro. Se, infatti, oltre la materia, sia pure una materia sottile, non si estende una dimensione non-fisica, la liberazione dalla schiavitù ilica è oblio, puro nulla. E’ una posizione estrema, agli antipodi di visioni che celebrano il corpo nella sua sensorialità, nella sua prestanza, almeno finché dura: dacché sottentra la senescenza, piena di magagne, il corpo si tramuta in una tomba cui ci aggrappiamo solo per un’irrazionale Wille. Allora il non-essere appare meno spaventoso di un supplizio senza speranza, di un’agonia lacerante.
Il rigetto del corpo si discosta dalla sua stessa mortificazione, poiché movimenti come quello dei Flagellanti umiliano la carne, come pungolo del peccato, non in quanto degradazione. Nel Cristianesimo paolino al corpus Christi è associato il mistero dell’Incarnazione: occorre incarnarsi per redimere, attraverso lo strazio delle membra sulla croce. La sofferenza del corpo (ente del patimento sino alla follia) si sublima nella salvezza, ma la retorica del sacrificio e del sangue è dietro l'angolo. I docetisti non erano d’accordo con tale interpretazione che sfociò nella teofagia con cui il Cristianesimo ci richiama i culti dionisiaci.
L’etimologia ci aiuta ad inquadrare uno scorcio del tema: soma-sema (corpo-sepolcro), dicevano gli Orfici con significativa paronomasia. In inglese “corpse”, dal latino “corpus”, vale “cadavere”: è possibile concludere così, anche se in modo inconcludente.
Le correnti gnostiche, di cui alcuni princìpi confluirono nei sistemi dei Bogomili e dei Catari, enfatizzando la differenza tra Spirito e materia, negano ogni possibile conciliazione. E’ tragicamente ironico che il persecutore degli Albigesi, Innocenzo III, nel De contemptu mundi, mostrò una visione del soma e delle sue ribrezzose impurità non dissimile da quella dai Buoni uomini.
E’ necessario il corpo per maturare dei vissuti? La seduzione della conoscenza lato sensu ebbe il sopravvento: fu la rovina. Le voluttà dei sensi sono più inebrianti del piacere della sfera intelligibile, ma il loro scotto è alto, ossia scendere in una dimensione dove, ad un breve periodo di vigoria, subentra una fase di progressivo, irreversibile decadimento.
Duplicità, si diceva: da un lato l’organismo si rivela un “congegno” strabiliante nella sua complessità ed efficienza, dall’altro è un involucro fatiscente. Suscita ammirazione uno strumento come la mano, con le sue articolazioni, le sue possibilità di afferrare gli oggetti e di manipolarli, eppure…
“Un tronco che soffre”: così definì il corpo Giacomo Leopardi con potente, disperata immagine.
Forse è un’astuzia della natura che perpetua ciecamente sé stessa attraverso gli organismi caduchi delle diverse specie: esisterà pure un disegno, ma ce ne sfuggono i connotati più profondi. Era necessario questo addensamento o fu il risultato di uno scarto ontologico? Anche l'avatar discende, ma poi risale; per i comuni mortali l’anabasi è ardua, quasi impossibile.
L’Orfismo, nella tradizione occidentale, palesò un atteggiamento anti-ilico, recepito poi da filosofi come Platone. Un pensiero anti-cosmico si può reputare una radicalizzazione di quella tendenza. Il sentiero dualistico conduce verso il rifiuto del mondo e diventa nichilismo, se, annichilita la natura, non resta nient’altro. Se, infatti, oltre la materia, sia pure una materia sottile, non si estende una dimensione non-fisica, la liberazione dalla schiavitù ilica è oblio, puro nulla. E’ una posizione estrema, agli antipodi di visioni che celebrano il corpo nella sua sensorialità, nella sua prestanza, almeno finché dura: dacché sottentra la senescenza, piena di magagne, il corpo si tramuta in una tomba cui ci aggrappiamo solo per un’irrazionale Wille. Allora il non-essere appare meno spaventoso di un supplizio senza speranza, di un’agonia lacerante.
Il rigetto del corpo si discosta dalla sua stessa mortificazione, poiché movimenti come quello dei Flagellanti umiliano la carne, come pungolo del peccato, non in quanto degradazione. Nel Cristianesimo paolino al corpus Christi è associato il mistero dell’Incarnazione: occorre incarnarsi per redimere, attraverso lo strazio delle membra sulla croce. La sofferenza del corpo (ente del patimento sino alla follia) si sublima nella salvezza, ma la retorica del sacrificio e del sangue è dietro l'angolo. I docetisti non erano d’accordo con tale interpretazione che sfociò nella teofagia con cui il Cristianesimo ci richiama i culti dionisiaci.
L’etimologia ci aiuta ad inquadrare uno scorcio del tema: soma-sema (corpo-sepolcro), dicevano gli Orfici con significativa paronomasia. In inglese “corpse”, dal latino “corpus”, vale “cadavere”: è possibile concludere così, anche se in modo inconcludente.
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Sunday, December 19, 2010
Grondaie ostruite
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Grondaie ostruite
Che cosa accomuna credenze tanto diverse tra loro: la fede nella rinascita, nella resurrezione e nella sopravvivenza dopo la morte? La proiezione del presente nel futuro. E’ una forma di alienazione: dacché il bene latita in questo mondo, deve esistere una prospettiva in un altro spazio, in un altro tempo.
La dottrina della metempsicosi o, meglio, della metensomatosi, come di solito è intesa, è verosimilmente un radicale travisamento di un’idea originaria. Le inconseguenze della metempsicosi non hanno impedito che tale opinione si diffondesse in modo straordinario, con tutte le idee inerenti, anch’esse sovente volgarizzate, di karma, samsara, nirvana…
Circa la fede nella resurrezione della carne ci erudiscono gli storici delle religioni, ricordandone la probabile scaturigine persiano-mazdea. Si infiltrò poi in alcuni correnti ebraiche, nel Cristianesimo e nell’Islam. Non sarà certo il soma imperfetto a risorgere, bensì il corpo glorioso, incorruttibile animato dal soffio divino.
Promette Paolo: “Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché, se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno, però, nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato ed ogni potestà e potenza. Bisogna, infatti, che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte”. (1 Corinzi 15,20-26)
Il concetto di una sopravvivenza dopo il decesso è, pur nelle diverse accezioni, l’idea di un quid che, compiutosi il trapasso individuale, séguita ad esistere in un’altra realtà. Confortata da una tradizione molto antica e lambita da tenaci studi sulle “near death experiences”, la fede nella sopravvivenza dell’anima pare connaturata nell’uomo, in quanto essere senziente e sofferente, malgrado i proclami nichilisti di scienziati atei e di algidi agnostici.
Come fosse un filosofo, anche l’uomo comune è talvolta accecato dall’idea della morte e se, a differenza di Albert Camus non crede sia necessario dedicare ogni riflessione al suicidio, lo sfiora la sensazione che il gioco, sollazzevole o feroce che sia, debba un giorno finire.
Così, svalutato l’adesso, premuto dal macigno di un’esistenza torturante, gli uomini si pascono di queste amare ed avare speranze, consci che escluso il male, va, anzi andrà tutto bene. Come grondaie ostruite, attendono la pioggia celeste. Bisogna solo saper aspettare: intanto, mentre rimaniamo qui, incollati a ricordi dolorosi o crocifissi all’assurdo, alcuni savants non si peritano di spiegare il Male. Costoro, sempre pronti ad illustrare le loro grandiose teodicee, sono gli stessi che dal Male sono stati al massimo fugacemente sfiorati. Si sa: “Siamo tutti capaci a sopportare le sofferenze altrui” (W. Shakespeare)[1]. Molti non solo le sopportano: ne comprendono i più reconditi significati e risalgono alla loro origine.
Le spiegazioni per ogni malattia, guerra, tragedia, incidente, iniquità… sono lì, già belle e confezionate. L’industria delle risoluzioni non ha nulla da invidiare al mercato dei cellulari.
La porta della felicità è innanzi a noi, ma è sprangata. Tuttavia “domani è un altro giorno” e, chissà perché, si pensa che il futuro sarà migliore.
In questo modo la vita si protende, fidente e malcerta, sull’abisso dell’avvenire, del quale non si sa nulla, ma da cui tutto si spera.
[1] Su William Shakespeare, il cui vero nome fu quasi certamente Guglielmo Crollalanza, si legga l’articolo del Professor Francesco Lamendola, Quel grande punto interrogativo di nome William Shakespeare, 2010
La dottrina della metempsicosi o, meglio, della metensomatosi, come di solito è intesa, è verosimilmente un radicale travisamento di un’idea originaria. Le inconseguenze della metempsicosi non hanno impedito che tale opinione si diffondesse in modo straordinario, con tutte le idee inerenti, anch’esse sovente volgarizzate, di karma, samsara, nirvana…
Circa la fede nella resurrezione della carne ci erudiscono gli storici delle religioni, ricordandone la probabile scaturigine persiano-mazdea. Si infiltrò poi in alcuni correnti ebraiche, nel Cristianesimo e nell’Islam. Non sarà certo il soma imperfetto a risorgere, bensì il corpo glorioso, incorruttibile animato dal soffio divino.
Promette Paolo: “Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché, se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno, però, nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato ed ogni potestà e potenza. Bisogna, infatti, che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte”. (1 Corinzi 15,20-26)
Il concetto di una sopravvivenza dopo il decesso è, pur nelle diverse accezioni, l’idea di un quid che, compiutosi il trapasso individuale, séguita ad esistere in un’altra realtà. Confortata da una tradizione molto antica e lambita da tenaci studi sulle “near death experiences”, la fede nella sopravvivenza dell’anima pare connaturata nell’uomo, in quanto essere senziente e sofferente, malgrado i proclami nichilisti di scienziati atei e di algidi agnostici.
Come fosse un filosofo, anche l’uomo comune è talvolta accecato dall’idea della morte e se, a differenza di Albert Camus non crede sia necessario dedicare ogni riflessione al suicidio, lo sfiora la sensazione che il gioco, sollazzevole o feroce che sia, debba un giorno finire.
Così, svalutato l’adesso, premuto dal macigno di un’esistenza torturante, gli uomini si pascono di queste amare ed avare speranze, consci che escluso il male, va, anzi andrà tutto bene. Come grondaie ostruite, attendono la pioggia celeste. Bisogna solo saper aspettare: intanto, mentre rimaniamo qui, incollati a ricordi dolorosi o crocifissi all’assurdo, alcuni savants non si peritano di spiegare il Male. Costoro, sempre pronti ad illustrare le loro grandiose teodicee, sono gli stessi che dal Male sono stati al massimo fugacemente sfiorati. Si sa: “Siamo tutti capaci a sopportare le sofferenze altrui” (W. Shakespeare)[1]. Molti non solo le sopportano: ne comprendono i più reconditi significati e risalgono alla loro origine.
Le spiegazioni per ogni malattia, guerra, tragedia, incidente, iniquità… sono lì, già belle e confezionate. L’industria delle risoluzioni non ha nulla da invidiare al mercato dei cellulari.
La porta della felicità è innanzi a noi, ma è sprangata. Tuttavia “domani è un altro giorno” e, chissà perché, si pensa che il futuro sarà migliore.
In questo modo la vita si protende, fidente e malcerta, sull’abisso dell’avvenire, del quale non si sa nulla, ma da cui tutto si spera.
[1] Su William Shakespeare, il cui vero nome fu quasi certamente Guglielmo Crollalanza, si legga l’articolo del Professor Francesco Lamendola, Quel grande punto interrogativo di nome William Shakespeare, 2010
Pubblicato da Zret
Friday, August 13, 2010
Lo specchio del destino
http://zret.blogspot.com/2010/08/lo-specchio-del-destino.html
Lo specchio del destino

"Scheggia nella carne" (o "spina" o "pungolo") è l'icastica espressione paolina con cui il filosofo Soren Kierkegaard alluse ad un male oscuro che lo torturò. Come spesso avviene, molti studiosi si sono accaniti per individuare il preciso motivo esistenziale di questa lacerazione, di solito riferendosi alla rottura del fidanzamento con Regine Olsen. E' il consueto appiattimento della filosofia in biografismo. Eppure è l'esistenza in sé (ex-sistenza, ossia apertura verso l'angoscia delle possibilità, la disperazione di fronte all'incognito nonché estromissione dall'essere) a costituire questa scheggia conficcata nel corpo e nell'anima. E' l'esperienza interiore del singolo che, se uomo, beve il calice dell'incomprensibile (benché relativo) sino all'ultima goccia. [1]
Avviene talora che un'improvvisa caduta in un baratro lasci intravedere, dal fondo cupo dell'abisso, il fulgore accecante di una stella: è quanto accadde a Nietzsche, quando introiettò la coscienza della morte di Dio. La morte di Dio non è solo la consapevolezza che le credenze ed i valori tradizionali si sono per sempre eclissati, poiché è la desolante visione del deserto, una volta che si è schiacciati dal peso insostenibile dell'irrazionalità. [2]
E' quanto accadde a Kierkegaard. Con conseguenze simili, anche se sotto un altro cielo, egli dovette soffrire della straziante ferita che non si rimargina. L'aver abbandonato l’astratto e falsamente luminoso Empireo hegeliano per tornare, esule tra la moltitudine, fra gli antri scuri dell'esistere è testimonianza di fedeltà al proprio cuore. L'esistenza è il cuore dell'universo e non la rassicurante dialettica degli opposti che non si oppongono. La vita e la fede sono paradosso: è impossibile aderire a qualsiasi religione positiva, a qualsiasi chiesa-istituzione che pretendono di conciliare l'inconciliabile, di ridurre l'irriducibile in formule "chiare e distinte".
L'alterità ontologica, la distanza incommensurabile tra l'uomo e l'Assoluto implicano un salto disperante, come quello di colui al quale, inseguito da una belva e, senza più vie di fuga, restasse una sola speranza di salvezza: lanciarsi nel vuoto del dirupo innanzi a sé. [3] L'innumerabilità delle scelte fa franare il terreno sotto i piedi. L'incessante movimento delle possibilità genera la paralisi e la stessa libertà umana pare affissarsi nel freddo specchio del destino.
[1] Per Pietro Prini l'acribia dei biografi nel tentativo di individuare la natura di questo dolore kierkegaardiano, nell'ambito di una patologia fisiologica o psichica, non tiene conto del punto più importante della questione. Non era, infatti, la natura del male che poteva costituire una chiave interpretativa del "segreto" di Kierkegaard, ma piuttosto il suo comportamento religioso di fronte ad esso, la sua interpretazione teologico-esistenziale del proprio destino stigmatizzato da quella dolorosa eccezione. Questa "palla di piombo sulle ali" era segnata per lui da un carattere religioso, il senso le derivava dall'essere una realtà cristiana.
[2] Sebbene alcuni interpreti abbiano tentato di dimostrare che la nietzchiana "morte di Dio" non implica la negazione del Creatore, mi pare che non si possa disconoscere che il pensatore tedesco fu ateo.
[3] Si pensi a come è oggi decaduta la riflessione teologica, dimentica della differenza ontologica e della scissione creaturale, là dove Dio è ricondotto ad energia elettromagnetica et similia. Dio è stato trasformato in un cellulare: ironico e conforme approdo per un'umanità che vede nel cellulare un dio.
Avviene talora che un'improvvisa caduta in un baratro lasci intravedere, dal fondo cupo dell'abisso, il fulgore accecante di una stella: è quanto accadde a Nietzsche, quando introiettò la coscienza della morte di Dio. La morte di Dio non è solo la consapevolezza che le credenze ed i valori tradizionali si sono per sempre eclissati, poiché è la desolante visione del deserto, una volta che si è schiacciati dal peso insostenibile dell'irrazionalità. [2]
E' quanto accadde a Kierkegaard. Con conseguenze simili, anche se sotto un altro cielo, egli dovette soffrire della straziante ferita che non si rimargina. L'aver abbandonato l’astratto e falsamente luminoso Empireo hegeliano per tornare, esule tra la moltitudine, fra gli antri scuri dell'esistere è testimonianza di fedeltà al proprio cuore. L'esistenza è il cuore dell'universo e non la rassicurante dialettica degli opposti che non si oppongono. La vita e la fede sono paradosso: è impossibile aderire a qualsiasi religione positiva, a qualsiasi chiesa-istituzione che pretendono di conciliare l'inconciliabile, di ridurre l'irriducibile in formule "chiare e distinte".
L'alterità ontologica, la distanza incommensurabile tra l'uomo e l'Assoluto implicano un salto disperante, come quello di colui al quale, inseguito da una belva e, senza più vie di fuga, restasse una sola speranza di salvezza: lanciarsi nel vuoto del dirupo innanzi a sé. [3] L'innumerabilità delle scelte fa franare il terreno sotto i piedi. L'incessante movimento delle possibilità genera la paralisi e la stessa libertà umana pare affissarsi nel freddo specchio del destino.
[1] Per Pietro Prini l'acribia dei biografi nel tentativo di individuare la natura di questo dolore kierkegaardiano, nell'ambito di una patologia fisiologica o psichica, non tiene conto del punto più importante della questione. Non era, infatti, la natura del male che poteva costituire una chiave interpretativa del "segreto" di Kierkegaard, ma piuttosto il suo comportamento religioso di fronte ad esso, la sua interpretazione teologico-esistenziale del proprio destino stigmatizzato da quella dolorosa eccezione. Questa "palla di piombo sulle ali" era segnata per lui da un carattere religioso, il senso le derivava dall'essere una realtà cristiana.
[2] Sebbene alcuni interpreti abbiano tentato di dimostrare che la nietzchiana "morte di Dio" non implica la negazione del Creatore, mi pare che non si possa disconoscere che il pensatore tedesco fu ateo.
[3] Si pensi a come è oggi decaduta la riflessione teologica, dimentica della differenza ontologica e della scissione creaturale, là dove Dio è ricondotto ad energia elettromagnetica et similia. Dio è stato trasformato in un cellulare: ironico e conforme approdo per un'umanità che vede nel cellulare un dio.
Pubblicato da Zret von Trier
Thursday, February 11, 2010
Paolo e gli Arconti
http://zret.blogspot.com/2010/02/paolo-e-gli-arconti.html
Paolo e gli Arconti

Possiamo considerare Paolo di Tarso un personaggio realmente esistito? In assenza di reperti archeologici (come epigrafi o busti) o testimonianze di autori extra-cristiani che si riferiscano direttamente alla vita ed all'operato di Paolo, la sua esistenza storica è meramente ipotetica. Sul cosiddetto apostolo dei Gentili, sono pullulate le congetture più disparate: tralasciando quegli studiosi che lo considerano una costruzione ideologica, ricorderemo che qualcuno lo ha identificato con Apollonio di Tiana (in effetti, la regione di provenienza ed i viaggi del Cristo pagano ricordano da vicino il milieu culturale e gli itinerari di Paolo; negli Atti è citato anche Damis, un personaggio che porta lo stesso nome del discepolo di Apollonio), altri con un falso discepolo di Gesù (Pincherle), altri con l'Uomo di menzogna (Eisenman), altri con un provocatore alle dipendenze dei Romani, altri con il vero fondatore del Cristianesimo (Calimani et al.) etc. Quasi tutti i biblisti cristiani vedono in lui l'interprete fedele del Vangelo predicato da Cristo.
Secondo la tradizione, nel 38 d.C. circa, sulla via verso Damasco, visse un'esperienza straordinaria (Atti 9, 4) che intese come apparizione del Cristo risorto. Questa esperienza lo condusse ad avvicinarsi alla comunità impropriamente definita giudeo-cristiana, ma subito occorre chiarire che la conversione sulla strada di Damasco è un non-senso, se si pensa alla città della Siria: infatti Damasco è il nome esoterico della comunità qumranita. Ciò dà la misura di un contatto con il magistero degli Esseni (o chi per loro), stranamente assenti nei Vangeli canonici.
Dopo essersi persuasi che Paolo o non esistette o non fu il personaggio dipinto in modo agiografico negli Atti, il rischio è quello di ignorare il corpus delle lettere a lui attribuite (di alcune è esclusa la sua paternità, anche per opera di biblisti cattolici, ortodossi ed evangelici), disdegnando le epistole come anticaglie catechistiche. A mio parere, le lettere attribuite al Tarsiota sono un mélange al cui nucleo originario sapienziale, si agglutinarono poi dottrine eterogenee di ascendenza ebraica ed ellenistica, con spiccati tratti soteriologici. Lo stesso bigottissimo Ernesto Buonaiuti ammette che Paolo deve essere considerato il primo gnostico, salvo poi erigere un muro invalicabile tra Paolo e le multiformi correnti gnostiche, diffamate in modo indiscriminato.
Indubbiamente l'autore che scrisse: "Nessuno degli Arconti di questo mondo ha potuto conoscere la nostra Sapienza: se l'avessero conosciuta non avrebbero crocifisso il Signore della gloria" (I Corinzi 2: 8) nonché: "La nostra lotta non è contro la carne ed il sangue, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori (Arconti) di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male sparsi nell’aria". (Efesini 6. 12 ) fu uomo che concepì una battaglia cosmica e metafisica tra la Luce e le Tenebre.
Inoltre, benché Paolo sia estraneo alle concezioni filosofiche imperniate sulla contrapposizione di anima e corpo, quando menziona il "corpo glorioso" sembra evocare un soma purificato dalle scorie terrene ed arcontiche. Non coincide forse con l' anima, ma le somiglia non poco. D'altronde la resurrezione della carne non può essere intesa in modo letterale e grossolano, ma come il dono di un corpo incorruttibile e "sottile". Il Nostro non considera la condizione dell'uomo dopo la morte, come in generale era trascurata nell'Ebraismo, ma vive in un'attesa apocalittica comune ad altre comunità del I sec. d.C: si pensi agli Ebioniti.
La dottrina della resurrezione è abbinata al rapimento nella Prima lettera ai Tessalonicesi 4, 15-7, dove si legge: "Vi diciamo questo nella parola del Signore, che noi i viventi, i rimasti sino alla venuta del Signore, non precederemo coloro che si sono addormentati: il Signore stesso, con grido, voce di Arcangelo e tromba di Dio, scenderà dal cielo e prima risorgeranno i morti in Cristo, poi i viventi, i rimasti verremo rapiti insieme con loro, nelle nubi, ad incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore".
In questo passo, la risurrezione dei morti (credenza probabilmente di origine persiana poi permeata in alcune sette ebraiche, quindi mutuata da Cristianesimo ed Islam) è evocata, ma non è definita in termini coincidenti con una rigenerazione del soma.
Quello che più interessa, nell'ambito di queste frammentarie note, è cercare di comprendere in che cosa consista la salvezza per gli uomini. Paolo la affida a Cristo, impegnato in una missione salvifica: "Con Cristo, Dio Padre ha dato la vita anche a voi, perdonando tutti i peccati, annullando il documento scritto del nostro debito le cui condizioni erano sfavorevoli. Cristo ha eliminato il debito, inchiodandolo alla croce, avendo privato della loro forza gli Arconti." (Lettera ai Colossesi). Qui è palese che l'autore non pensa al Gesù storico, ma ad un Essere la cui azione è metastorica. La stessa croce è il legno di un supplizio reale o piuttosto il sacrificio della discesa nel mondo e nella storia per redimerli?
Immaginoso, potente e talora oscuro l'estensore delle "Lettere" non costruisce una teologia ed una soteriologia unitarie, a causa del carattere eteroclito delle fonti cui attinse, ma soprattutto poiché il corpus delle epistole, stratificato e complesso, è una commistione feconda, ma non scevra di contraddizioni, una polifonia in cui talora qualche voce stona. Uno dei temi ricorrenti è l'avversione per la Legge: in questo rifiuto si potrebbe individuare il dissapore con la cosiddetta Chiesa di Gerusalemme, guidata, secondo alcune tradizioni, da Giacomo, il fratello del Signore, ma forse pure un malcelato desiderio di recidere i legami tra la nascente chiesa paolina ed il Giudaismo: un atteggiamento assimilabile a quello delle confraternite gnostico-cristiane ostili alle tradizioni ebraiche.
Gnostica (lato sensu) è comunque una certa diffidenza nei confronti del mondo e un pur non estremo dualismo (Angeli contro Arconti tirannici, sottoposti tutti alla potestà di Cristo) che, se da un punto di vista etico, è condivisibile, forse concorre a nutrire le stesse forze oscure, con l'ostinazione a combatterle. Se, infatti, almeno in una certa misura, tali entità malefiche sono egregore negative, non è poi così lontano dal vero Antonio Bonifacio, quando osserva: "Più Paolo si impegnava in questa contrapposizione (contro gli Arconti n.d.r.), più ne alimentava le risorse, in quanto tutte le compagini demoniache che egli menzionava, traevano la propria stessa forza dalla volontà di Paolo di distruggerle, lottando contro di loro".
Secondo la tradizione, nel 38 d.C. circa, sulla via verso Damasco, visse un'esperienza straordinaria (Atti 9, 4) che intese come apparizione del Cristo risorto. Questa esperienza lo condusse ad avvicinarsi alla comunità impropriamente definita giudeo-cristiana, ma subito occorre chiarire che la conversione sulla strada di Damasco è un non-senso, se si pensa alla città della Siria: infatti Damasco è il nome esoterico della comunità qumranita. Ciò dà la misura di un contatto con il magistero degli Esseni (o chi per loro), stranamente assenti nei Vangeli canonici.
Dopo essersi persuasi che Paolo o non esistette o non fu il personaggio dipinto in modo agiografico negli Atti, il rischio è quello di ignorare il corpus delle lettere a lui attribuite (di alcune è esclusa la sua paternità, anche per opera di biblisti cattolici, ortodossi ed evangelici), disdegnando le epistole come anticaglie catechistiche. A mio parere, le lettere attribuite al Tarsiota sono un mélange al cui nucleo originario sapienziale, si agglutinarono poi dottrine eterogenee di ascendenza ebraica ed ellenistica, con spiccati tratti soteriologici. Lo stesso bigottissimo Ernesto Buonaiuti ammette che Paolo deve essere considerato il primo gnostico, salvo poi erigere un muro invalicabile tra Paolo e le multiformi correnti gnostiche, diffamate in modo indiscriminato.
Indubbiamente l'autore che scrisse: "Nessuno degli Arconti di questo mondo ha potuto conoscere la nostra Sapienza: se l'avessero conosciuta non avrebbero crocifisso il Signore della gloria" (I Corinzi 2: 8) nonché: "La nostra lotta non è contro la carne ed il sangue, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori (Arconti) di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male sparsi nell’aria". (Efesini 6. 12 ) fu uomo che concepì una battaglia cosmica e metafisica tra la Luce e le Tenebre.
Inoltre, benché Paolo sia estraneo alle concezioni filosofiche imperniate sulla contrapposizione di anima e corpo, quando menziona il "corpo glorioso" sembra evocare un soma purificato dalle scorie terrene ed arcontiche. Non coincide forse con l' anima, ma le somiglia non poco. D'altronde la resurrezione della carne non può essere intesa in modo letterale e grossolano, ma come il dono di un corpo incorruttibile e "sottile". Il Nostro non considera la condizione dell'uomo dopo la morte, come in generale era trascurata nell'Ebraismo, ma vive in un'attesa apocalittica comune ad altre comunità del I sec. d.C: si pensi agli Ebioniti.
La dottrina della resurrezione è abbinata al rapimento nella Prima lettera ai Tessalonicesi 4, 15-7, dove si legge: "Vi diciamo questo nella parola del Signore, che noi i viventi, i rimasti sino alla venuta del Signore, non precederemo coloro che si sono addormentati: il Signore stesso, con grido, voce di Arcangelo e tromba di Dio, scenderà dal cielo e prima risorgeranno i morti in Cristo, poi i viventi, i rimasti verremo rapiti insieme con loro, nelle nubi, ad incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore".
In questo passo, la risurrezione dei morti (credenza probabilmente di origine persiana poi permeata in alcune sette ebraiche, quindi mutuata da Cristianesimo ed Islam) è evocata, ma non è definita in termini coincidenti con una rigenerazione del soma.
Quello che più interessa, nell'ambito di queste frammentarie note, è cercare di comprendere in che cosa consista la salvezza per gli uomini. Paolo la affida a Cristo, impegnato in una missione salvifica: "Con Cristo, Dio Padre ha dato la vita anche a voi, perdonando tutti i peccati, annullando il documento scritto del nostro debito le cui condizioni erano sfavorevoli. Cristo ha eliminato il debito, inchiodandolo alla croce, avendo privato della loro forza gli Arconti." (Lettera ai Colossesi). Qui è palese che l'autore non pensa al Gesù storico, ma ad un Essere la cui azione è metastorica. La stessa croce è il legno di un supplizio reale o piuttosto il sacrificio della discesa nel mondo e nella storia per redimerli?
Immaginoso, potente e talora oscuro l'estensore delle "Lettere" non costruisce una teologia ed una soteriologia unitarie, a causa del carattere eteroclito delle fonti cui attinse, ma soprattutto poiché il corpus delle epistole, stratificato e complesso, è una commistione feconda, ma non scevra di contraddizioni, una polifonia in cui talora qualche voce stona. Uno dei temi ricorrenti è l'avversione per la Legge: in questo rifiuto si potrebbe individuare il dissapore con la cosiddetta Chiesa di Gerusalemme, guidata, secondo alcune tradizioni, da Giacomo, il fratello del Signore, ma forse pure un malcelato desiderio di recidere i legami tra la nascente chiesa paolina ed il Giudaismo: un atteggiamento assimilabile a quello delle confraternite gnostico-cristiane ostili alle tradizioni ebraiche.
Gnostica (lato sensu) è comunque una certa diffidenza nei confronti del mondo e un pur non estremo dualismo (Angeli contro Arconti tirannici, sottoposti tutti alla potestà di Cristo) che, se da un punto di vista etico, è condivisibile, forse concorre a nutrire le stesse forze oscure, con l'ostinazione a combatterle. Se, infatti, almeno in una certa misura, tali entità malefiche sono egregore negative, non è poi così lontano dal vero Antonio Bonifacio, quando osserva: "Più Paolo si impegnava in questa contrapposizione (contro gli Arconti n.d.r.), più ne alimentava le risorse, in quanto tutte le compagini demoniache che egli menzionava, traevano la propria stessa forza dalla volontà di Paolo di distruggerle, lottando contro di loro".
Pubblicato da Zret
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