Tim Cantor: presenze e presagi
Tim Cantor
è uno scrittore e pittore californiano nato nel 1969. Autodidatta, è a
suo agio con pennelli e tubetti di colori ad olio, sin dalla tenera età
di cinque anni.
La sua arte è una propaggine del Surrealismo, in particolare di quello “figurativo” alla Magritte: le somiglianze iconografiche con il pittore belga sono palesi, ma i paradossi logico-linguistici di Magritte si solidificano in oggetti e simboli inquietanti, in paesaggi di funerea bellezza. Cantor ama raffigurare alberi, fiori, animali esotici, donne esangui: nei suoi quadri, però, essi diventano cose dalla superficie smaltata, enti disanimati.
Le campiture lisce, impeccabili – il Fotorealismo annovera in California i suoi indiscussi archegeti – assieme agli accostamenti incongrui, alla gelida immobilità dei soggetti, generano un effetto di straniamento. Cantor dipinge intingendo l’ispirazione nel pigmento nero e pastoso dell’inconscio. E’ l’inconscio di un’era smagata che non distingue più tra gli incubi onirici e gli incubi ad occhi aperti: così le api e le farfalle di Cantor sono ingegnerizzate, le piante acriliche, mentre dalle teste cave degli uomini sciamano colombe feroci. Una pittura tutt’uno con lo Zeitgeist: le allucinazioni sono gli allucinanti scenari di ogni giorno.
E’ plausibile che gli artisti siano gli oracoli per eccellenza: l’arte è contemplazione dell’idea atemporale, sguardo cieco sul Destino. Così in un suo quadro, “Antique helper”, Cantor sembra presagire ed immortalare un frammento di storia. In primo piano una tigre è accosciata su una sporgenza rocciosa. Lo spuntone è anche una scultura con una testa felina. La belva scruta un candido volatile che si aggira fra rami simili a cavi intrecciati. Oltre è intarsiato un paesaggio fiabesco di taglio quasi russo-ortodosso: vi spiccano delle maschere che coprono volti-uova, gusci per coprire altri gusci. Sullo sfondo edifici (chiese?) con cupole a bulbo o a forma di puntale natalizio, torrioni e due sfere cinte da una sorta di banda zodiacale: i pianeti incastrati in un gioco cosmico. Lo sfondo è invaso dal cielo, cupo come la disperazione, solcato in basso da nuvole di sangue.
La composizione, con il suo gusto teatrale e ludico (gli astri-pailettes, le costruzioni come mattoncini), sembra voler sdrammatizzare il dramma: l’ultimo anelito di una vita, che ancora fluisce nelle vene animali, si oppone al silenzio di un mondo congelato. Si intrecciano gli sguardi, quasi tutti vacui: le orbite sono cieche; la solitudine e l’immobilità intollerabili. Gli stessi colori, con la loro brillantezza, sono l’inutile vernice di una realtà svuotata, di un involucro il cui contenuto, per sempre sparito, non sappiamo nemmeno più che cosa fosse.
La sua arte è una propaggine del Surrealismo, in particolare di quello “figurativo” alla Magritte: le somiglianze iconografiche con il pittore belga sono palesi, ma i paradossi logico-linguistici di Magritte si solidificano in oggetti e simboli inquietanti, in paesaggi di funerea bellezza. Cantor ama raffigurare alberi, fiori, animali esotici, donne esangui: nei suoi quadri, però, essi diventano cose dalla superficie smaltata, enti disanimati.
Le campiture lisce, impeccabili – il Fotorealismo annovera in California i suoi indiscussi archegeti – assieme agli accostamenti incongrui, alla gelida immobilità dei soggetti, generano un effetto di straniamento. Cantor dipinge intingendo l’ispirazione nel pigmento nero e pastoso dell’inconscio. E’ l’inconscio di un’era smagata che non distingue più tra gli incubi onirici e gli incubi ad occhi aperti: così le api e le farfalle di Cantor sono ingegnerizzate, le piante acriliche, mentre dalle teste cave degli uomini sciamano colombe feroci. Una pittura tutt’uno con lo Zeitgeist: le allucinazioni sono gli allucinanti scenari di ogni giorno.
E’ plausibile che gli artisti siano gli oracoli per eccellenza: l’arte è contemplazione dell’idea atemporale, sguardo cieco sul Destino. Così in un suo quadro, “Antique helper”, Cantor sembra presagire ed immortalare un frammento di storia. In primo piano una tigre è accosciata su una sporgenza rocciosa. Lo spuntone è anche una scultura con una testa felina. La belva scruta un candido volatile che si aggira fra rami simili a cavi intrecciati. Oltre è intarsiato un paesaggio fiabesco di taglio quasi russo-ortodosso: vi spiccano delle maschere che coprono volti-uova, gusci per coprire altri gusci. Sullo sfondo edifici (chiese?) con cupole a bulbo o a forma di puntale natalizio, torrioni e due sfere cinte da una sorta di banda zodiacale: i pianeti incastrati in un gioco cosmico. Lo sfondo è invaso dal cielo, cupo come la disperazione, solcato in basso da nuvole di sangue.
La composizione, con il suo gusto teatrale e ludico (gli astri-pailettes, le costruzioni come mattoncini), sembra voler sdrammatizzare il dramma: l’ultimo anelito di una vita, che ancora fluisce nelle vene animali, si oppone al silenzio di un mondo congelato. Si intrecciano gli sguardi, quasi tutti vacui: le orbite sono cieche; la solitudine e l’immobilità intollerabili. Gli stessi colori, con la loro brillantezza, sono l’inutile vernice di una realtà svuotata, di un involucro il cui contenuto, per sempre sparito, non sappiamo nemmeno più che cosa fosse.
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"paesaggi di funerea bellezza"
ReplyDeletelo zret-pensiero condensato in due parole...
Grat-grat... :D
Deletee chi, dei non più giovanissimi lettori di Cucciolo Beppe e Tiramolla, non conosce Giona: con gli occhiali, rotondetto, vi ricorda qualcuno?
Deletema come fa a inventarsi questo mare di cazzate senza riuscire a dire nulla? Io non ci riuscirei
ReplyDeleteLord Dorwin...
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