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Stupore
Al lugubre “Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie", appartenente alle “Operette morali”, Giacomo Leopardi premette un coro di defunti “in cui si esprime l’arcana e tragica fissità del non essere, di una vita, cioè, spogliata d’ogni attesa, d’ogni speranza, d’ogni dolore. E’ quella che il Leopardi immagina dopo la morte: un puro esistere senza tempo né mutamento, un rifluire per l’eternità nel ritmo dell’universo.” (M. Pazzaglia)
Il coro dei morti è una prova altissima della poesia leopardiana, con quell’incedere ieratico di endecasillabi e settenari, tramati di rime cupe, spezzati da dolenti enjambements. I versi del coro sembrano un’eco proveniente da un oscuro antro del cosmo, da un insondabile abisso del tempo. Le parole levigate hanno il gelido candore del marmo. Il canto culmina nell’esterrefatto distico: “Cosa arcana e stupenda/ oggi è la vita al pensier nostro”.
Misticismo senza Dio, esistere senza sensazioni, persino nostalgia senza rimpianto: questo è l’universo silenzioso e desolato in cui si spegne l’anelito di un sogno febbrile.
Pochi versi si imprimono come questi nella memoria, echeggiando a guisa di una vibrazione misteriosa risalente da profondità sconfinate. Nel generico vocabolo “cosa” è incarnata l’inafferrabilità dell’esistenza, ridotta ad un oggetto estraneo raggelato nella vitrea fissità del non senso: veramente succede, in rari momenti di epifania, di scoprire l’assurdo dietro le fragili parvenze della normalità. Se l’aggettivo “arcana” rincalza l’incomprensibilità della vita, definendone l’essenza immotivata e nascosta, il lettore si imbatte nel termine “stupenda”, come fosse un enigma edipico. La vita “stupenda”? Non certo nel significato di “incantevole”, ma di fenomeno che suscita sgomenta meraviglia, sbigottimento. Soprattutto “stupenda” è voce incisiva per il suo timbro stentato e tartagliante, in cui inciampa la lingua.
E’ così: questa parola contiene la stessa radice (assieme alla potenza evocativa di straniti fonemi) dell’inglese “to stumble”, “inciampare”. Veramente ci si imbatte nella vita, si incespica tra i suoi insidiosi ostacoli, nel selciato sconnesso del destino.
A volte si stramazza, per non rialzarsi più.
Il coro dei morti è una prova altissima della poesia leopardiana, con quell’incedere ieratico di endecasillabi e settenari, tramati di rime cupe, spezzati da dolenti enjambements. I versi del coro sembrano un’eco proveniente da un oscuro antro del cosmo, da un insondabile abisso del tempo. Le parole levigate hanno il gelido candore del marmo. Il canto culmina nell’esterrefatto distico: “Cosa arcana e stupenda/ oggi è la vita al pensier nostro”.
Misticismo senza Dio, esistere senza sensazioni, persino nostalgia senza rimpianto: questo è l’universo silenzioso e desolato in cui si spegne l’anelito di un sogno febbrile.
Pochi versi si imprimono come questi nella memoria, echeggiando a guisa di una vibrazione misteriosa risalente da profondità sconfinate. Nel generico vocabolo “cosa” è incarnata l’inafferrabilità dell’esistenza, ridotta ad un oggetto estraneo raggelato nella vitrea fissità del non senso: veramente succede, in rari momenti di epifania, di scoprire l’assurdo dietro le fragili parvenze della normalità. Se l’aggettivo “arcana” rincalza l’incomprensibilità della vita, definendone l’essenza immotivata e nascosta, il lettore si imbatte nel termine “stupenda”, come fosse un enigma edipico. La vita “stupenda”? Non certo nel significato di “incantevole”, ma di fenomeno che suscita sgomenta meraviglia, sbigottimento. Soprattutto “stupenda” è voce incisiva per il suo timbro stentato e tartagliante, in cui inciampa la lingua.
E’ così: questa parola contiene la stessa radice (assieme alla potenza evocativa di straniti fonemi) dell’inglese “to stumble”, “inciampare”. Veramente ci si imbatte nella vita, si incespica tra i suoi insidiosi ostacoli, nel selciato sconnesso del destino.
A volte si stramazza, per non rialzarsi più.
E’ così: questa parola contiene la stessa radice (assieme alla potenza evocativa di straniti fonemi) dell’inglese “to stumble”, “inciampare”. Veramente ci si imbatte nella vita, si incespica tra i suoi insidiosi ostacoli, nel selciato sconnesso del destino.
ReplyDeleteSolo troiate, sai inventare: leggi qui http://tinyurl.com/5u7re6b
stumble (v.) Look up stumble at Dictionary.com
c.1300, "to trip or miss one's footing" (physically or morally), probably from a Scandinavian source (cf. dialectal Norw. stumla, Swed. stambla "to stumble"), probably from a variant of the P.Gmc. base *stam-, source of O.E. stamerian "to stammer," Ger. stumm "dumb, silent." Possibly influenced in form by stumpen "to stumble," but the -b- may be purely euphonious. Meaning "to come (upon) by chance" is attested from 1550s. Stumbling-block first recorded 1526, used in Rom. xiv.13 to translate Gk. skandalon.
Bestiaccia.
A volte si stramazza, per non rialzarsi più.
Ecco, sta' a terra, anellide.
ilpeyote torniamo ai vecchi tempi CIALTRONE VA' A SPACCARE PIETRE CON LA TESTA