L'immensa sputtanata a Zelig

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Scopo del Blog

Raccolgo il suggerimento e metto qui ben visibile lo scopo di questo blog.

Questo e' un blog satirico ed e' una presa in giro dei vari complottisti (sciacomicari, undicisettembrini, pseudoscienziati e fuori di testa in genere che parlano di 2012, nuovo ordine mondiale e cavolate simili). Qui trovate (pochi) post originali e (molti) post ricopiati pari pari dai complottisti al fine di permettere liberamente quei commenti che loro in genere censurano.

Tutto quello che scrivo qui e' a titolo personale e in nessun modo legato o imputabile all'azienda per cui lavoro.

Ciao e grazie della visita.

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Thursday, August 21, 2014

L’uomo è un essere razionale?

http://zret.blogspot.de/2014/08/luomo-e-un-essere-razionale.html

L’uomo è un essere razionale?


L’uomo è un essere razionale? Per rispondere bisognerebbe prima comprendere che cos’è la “ragione”. E’ impresa ardua, se non impossibile. Considerata la “facoltà di pensare stabilendo rapporti e legami fra i concetti di giudicare bene, distinguendo il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto” (Zingarelli), da questa definizione corrente si arguisce che essa abbraccia sia gli intangibili orizzonti logico-conoscitivi sia gli impervi territori dell’etica.

Se risaliamo all’etimologia di “ragione” (dal latino ratio, misura, calcolo, nome collegato al verbo reor, calcolare), vi possiamo scorgere una capacità di computare il rapporto costi-benefici, ogniqualvolta si decide o si deve decidere qualcosa. Ergo il raziocinio, lungi dal possedere tratti nobili, diverrebbe uno strumento volto a favorire il maggior successo possibile nelle proprie azioni. Non sarebbe più dunque prerogativa umana, poiché anche gli animali (almeno quelli definiti "superiori") sono capaci di valutare i pro ed i contro di un comportamento. Si pensi ad un ghepardo che, allorché è in procinto di cacciare una gazzella, deve soppesare una serie di fattori: la preda è troppo veloce? E’ difesa in qualche modo dalle altre gazzelle? Qual è la distanza che separa il predatore dal potenziale pasto?

La tanto celebrata intelligenza, spartiacque tra gli uomini ed i bruti, tra gli uomini e le bestie, potrebbe essere, invece, una giustificazione a posteriori di scelte dettate da desideri e da motivazioni inconsce. La ragione dunque come coonestamento di circostanze irragionevoli? Il filosofo scozzese Hume scrive: “La ragione è schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa di quella di obbedire e servire ad esse”. (D. Hume, Trattato sulla natura umana)

Se diamo... ragione a Hume, siamo inclini a concludere che l’intelletto è solo un inganno volto a sublimare le inclinazioni più basse ed egoistiche. Nietzsche ed altri sarebbero d’accordo. Se osserviamo il genere umano e ciò che esso ha prodotto sino ad oggi, si dubita che vi alberghi alcunché di razionale. Quale potrebbe essere la causa? In fondo il Sapiens, in quanto essere naturale è, per molti rispetti, un prolungamento del mondo in cui vive e il mondo è di per sé contraddittorio. Chi potrebbe negarlo? E’ così spiegata l’irragionevolezza umana, rispecchiamento della non logicità del tutto?

La morale e la giustizia, che è un’etica istituzionale, nonché le religioni vorrebbero sancire dei princìpi universali secondo ragione e secondo l’accordo con le leggi divine. Inutile rammentare che, essendo la morale priva di un fondamento certo ed univoco, causa sovente più danni di quelli che mira ad evitare. Questo vale soprattutto per l’etica imposta (ebraica, cristiana, musulmana etc.) che, tentando di disciplinare una casistica quasi infinita sulla base, per di più, di dogmi, scivola non solo nella coercizione, ma anche nella costante necessità di ridefinire circostanze, limiti, deroghe e punizioni. Alla fine la morale assoluta diventa il relativismo assoluto sottoposto all’arbitrio di chi ha i titoli per interpretare i testi sacri.

Dunque l’uomo è un essere razionale? Lo sono tutti? Si sarebbe tentati di rispondere che è più sensato un sano istinto di una paludata, artefatta ragione.

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Wednesday, June 25, 2014

Trittico di troiate - e una: Appartiene ad un altro…

http://zret.blogspot.it/2014/06/appartiene-ad-un-altro.html

Appartiene ad un altro…

Nella celeberrima lirica “Cigola la carrucola del pozzo”, Eugenio Montale descrive un’avventura della memoria. Il riflesso sulla superficie dell’acqua contenuta in un secchio evoca il volto di una persona amata, ma presto quell’immagine si dissolve. Il ricordo si perde nell’oblio, in un passato irrevocabile, nella distanza dell’incomunicabilità.

Come spesso avviene, le parole più suggestive degli autori sono atrofizzate in interpretazioni banali. Si leggano i seguenti versi: “Accosto il volto a evanescenti labbri: / si deforma il passato, si fa vecchio,/ appartiene ad un altro...” “Appartiene ad un altro” non significa, infatti, che ora la donna condivide la sua esistenza con un altro uomo. Montale è conscio che l’identità individuale è labile, inconsistente, affidata ad una memoria di sé che è il tentativo di strappare alla dimenticanza ed alla fuga del tempo qualche brandello del proprio essere. "Appartiene ad un altro", ossia a qualcuno in cui non ci si riconosce, a chi non è più, al niente…

Che cosa garantisce che siamo gli stessi di un tempo? Solo l’abitudine a percepirci come coincidenza con le esperienze trascorse. Se cancelliamo la memoria, siamo ancora noi stessi? Esiste un substrato su cui alligna la coscienza o l’anima, per dirla con Hume, è un fascio di sensazioni? Una pianta che – si presume – non è dotata di facoltà mnemoniche, è ogni istante un essere nuovo?

Il paradosso della nave di Teseo (leggi Tèseo) esprime la questione metafisica dell'effettiva persistenza dell'identità originaria, per un'ente le cui parti cambiano nel tempo; in altre parole, se un tutto unico rimane davvero sé stesso oppure no dopo che, col passare del tempo, tutti i suoi pezzi componenti sono cambiati con altri uguali o simili.

Si narra che la nave in legno sulla quale viaggiò il mitico eroe greco Teseo fosse conservata intatta nel corso degli anni, sostituendone le parti che via via si deterioravano. Giunse quindi un momento in cui tutte i pezzi adoperati in origine per costruirla erano state sostituite, sebbene la nave stessa conservasse esattamente la sua forma originaria.

Ragionando su tale situazione - la nave è stata completamente rimpiazzata, ma allo stesso tempo essa è rimasta la nave di Teseo - la questione che ci si pone è la seguente: la nave di Teseo si è conservata oppure no? Ovvero l'oggetto, modificato nella sostanza ma senza variazioni nella forma, è ancora il medesimo oggetto o gli somiglia soltanto o è un altro?

Il paradosso si può riferire all'identità della nostra stessa persona che, nel corso degli anni, cambia in modo notevole sia sotto il profilo fisico sia sotto quello psicologico. Nonostante ciò, sembra che un quid individuale sia preservato.

Le attività psichiche (memoria, appercezione, proiezione…) paiono le garanzie di una continuità temporale da cui dipende l’idea della propria identità. Se tuttavia aboliamo il tempo, la concatenazione cronologica, che cosa resta? Siamo solidificati nella coscienza dell’io, ma nulla è più evanescente ed illusorio dell’io, leggero fardello, pesante piuma. L’io è prigione senza sbarre, è una cella i cui muri sono d’aria, una catena i cui anelli si spezzano, non appena si sprofonda nell’estraniamento da sé, nel non essere.

Montale, consapevole che l’identità è inconsistenza, sente il terreno franargli sotto i piedi. L’uomo, nel momento in cui intuisce che l’unico punto stabile e l’instabilità del ricordo (ora inafferabile ora fallace ora sfocato ora unidirezionale) rischia di sdrucciolare nel nulla.

Eppure il senso di vertigine al cospetto dell’abisso è anche estasi sublime, emancipazione dai ceppi dell’ego. Davvero, dato che la vita è questa, “svanire è la ventura delle venture”.


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Monday, May 5, 2014

Un suggerimento a proposito del sincronismo junghiano

http://zret.blogspot.it/2014/05/un-suggerimento-proposito-del.html

Un suggerimento a proposito del sincronismo junghiano


Il sincronismo junghiano è una coincidenza significativa che esula dal nesso di causa-effetto, lasciando trasparire una relazione non locale ed ucronica tra due fenomeni. Teorizzato e studiato, come è noto, dallo psicologo Carl Gustav Jung e dal fisico Wolfgang Pauli, del sincronismo sono state fornite ipotesi interpretative più o meno convincenti, anche se manca una spiegazione che lo situi all’interno di un modello esaustivo del reale.

Tale manifestazione sembra indicarci che il mondo delle cause e delle conseguenze (quindi in una certa misura anche l’idea di libero arbitrio) è soltanto una sottile pellicola che copre un’essenza assai differente, un quid dove il tempo e lo spazio assumono inedite configurazioni. E’ l’universo esplorato, tra gli altri, da alcuni filosofi e dai fisici quantistici. E’ una twilight zone dove le “leggi” naturali del macrocosmo slittano in una dimensione contro-intuitiva. Qui le distanze, anche quelle siderali, perdono di significato; qui la “causa” può precedere l’”effetto” ed il tempo può scorrere dal futuro verso il passato.

Si genera una sintonia tra le cose, si intravede un sottile disegno che unisce le parti di una composizione più ampia, come l’ordito e la trama di un arazzo che, osservati alla giusta distanza, delineano figure e sfondi.

Per quanto mi consta, nessuno ha mai considerato la possibilità di raccogliere i sincronismi che costellano la nostra vita: si tratta di annotare, di volta in volta, la parola o l’espressione che si fissano in un istante sincronico. La successione dei vocaboli o dei sintagmi potrebbe produrre una sequenza significativa, un enunciato dotato di logica? E’ un esperimento che si può compiere agevolmente, magari riportando anche la data e l’ora in cui si incappa nella concomitanza.

Dopo aver ottenuto la frase (si dovranno inserire articoli, preposizioni etc.) e la serie numerica, si potrà tentare di stabilire se esse sono del tutto casuali o se paiono contenere una ratio, suscettibile poi di eventuali ulteriori esegesi ed inquadramenti teorici.[1]

[1] Quale dovrà essere la lunghezza della proposizione? Ricordando che per un singolare concorso in italiano gli enunciati tendono a configurare degli endecasillabi (versi di undici sillabe metriche), si potrebbe costruire una locuzione riconducibile alla misura di un endecasillabo.

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Thursday, February 23, 2012

"Cause"

http://zret.blogspot.com/2012/02/cause.html

"Cause"


Felix qui potuit rerum cognoscere causas": così scrive Virgilio, ossia “Fortunato chi ha potuto conoscere le cause delle cose”. Il poeta di Andes esprime dunque la sua ammirazione di fronte a colui che è stato capace di sviscerare la ragion d’essere del mondo e di penetrare nella loro essenza.

Purtroppo oggi il concetto di causa è stato semplificato: vi si scorge quasi sempre un antecedente di un effetto. Così certo non lo concepiva l’autore latino. Nonostante secoli di filosofia e le intuizioni di qualche scienziato, la “causa” è sic et simpliciter la cosa che accade prima: è tutto molto elementare e riduttivo.

Così, di fronte a fenomeni complessi, ci troviamo inermi, abituati come siamo a ricercare il motivo scatenante, laddove una costellazione di origini può generare una raggiera di conseguenze. [bravo Antonio, e' la teoria del Caos - la farfalla che batte le ali in Cina...]

Paghiamo lo scotto di un approccio tanto superficiale, quando tentiamo di comprendere la scaturigine di una malattia: in verità, la ragione che porta all’insorgenza del problema, può non solo essere molto ramificata, ma avere radici profonde allignate in un sottosuolo (l’inconscio?) di cui non sappiamo nulla o quasi [mi sembra la scaturigine del morgellone...]. Sepolto sotto numerosi strati, il conflitto da cui deflagra spesso ex abrupto la patologia, non affiora, se non con un’opera di scavo che, mentre porta alla luce le radici, rischia di privare la pianta dell’humus vitale.

E’ dunque necessario esplorare le manifestazioni e le matrici della disfunzione ad ampio raggio, senza accontentarsi di instaurare un nesso unilaterale ed univoco tra eziologia e sintomo. L’essere vivente manifesta una notevole complessità, ogni essere è dissimile da tutti gli altri: ha la sua storia, il suo temperamento, il suo vissuto. Una vera anamnesi implica una ricostruzione accurata, l’attitudine a risalire a motivi remoti e reconditi. Giorgio Mambretti sostiene che il retroterra di molte affezioni coincide con la prima infanzia, con la vita prenatale, se non è addirittura abbarbicato alle esperienze dei genitori e degli avi. Si comprende come sia arduo scoprire dei presupposti (traumi, complessi, predisposizioni) di cui non si è consci. Infine interno ed esterno, fisiologia ed ambiente interagiscono in modo continuo sicché non è facile stabilire dove cominci l’influsso dell’una e finisca quello dell’altro.

In ambito scientifico, il meccanico rapporto tra causa ed effetto rischia di sclerotizzare l’indagine. Anche qui occorre molta duttilità, se non si vuole cadere nell’ottuso e dogmatico “metodo scientifico” degli scientisti che costruiscono modelli rigidi in cui i fenomeni sono chiariti e spiegati, ancora prima che siano osservati, sulla base di schemi e di a priori sequenziali. La causa non sempre precede l’effetto, poiché può provenire dal futuro. Il post hoc non è necessariamente il propter hoc: una costellazione di influssi, molti dei quali sottili, tendono ad indirizzare il corso degli eventi, quando non intervengono sovrapposizioni e sincronie che esulano dal legame causale.

Le cosiddette leggi scientifiche non sono norme giuridiche. Nelle concatenazioni gli anelli mancanti sono più degli altri. Il mondo rivela una quintessenza talora controintuiva ed antinomica, insofferente di paradigmi immutabili. E’ necessario rivisitare consolidati modelli interpretativi ed essere disposti ad accettare fratture epistemologiche.

E’ compito immane che solo qualche solitario ha adempiuto ed adempie con abnegazione. Il vero ricercatore non si limita a descrivere il fenomeno, ma tenta di inoltrarsi nella sua natura. Anche della natura ricerca la sorgente, la motivazione primigenia, in un movimento inesausto, anche se spesso destinato a naufragare contro lo scoglio dell’incomprensibile.

Saturday, August 13, 2011

Neuropsicofisiologia: dalla coscienza al bit

http://zret.blogspot.com/2011/08/neuropsicofisiologia-dalla-coscienza-al.html

Neuropsicofisiologia: dalla coscienza al bit

Michele Trimarchi è il fondatore negli anni ‘70 del XX secolo della Neuropsicofisiologia, (d'ora in poi N.) disciplina che integra Neurologia, Psicologia, Fisiologia. Nata dagli studi sulla Fisica dell’informazione, sulle differenze funzionali tra emisfero destro e sinistro e sulle funzioni superiori del cervello umano, mira ad unire mente ed encefalo. Questa branca si prefigge di scoprire la fisiologia della coscienza, cercando di comprendere come si sviluppa l’Io cosciente dell’essere umano, quell’Io che permette di gestire l’esperienza in modo consapevole e creativo, integrando l’attività della mente con il soma nel suo rapporto con l’ambiente.

Semplificando, individuerei alcuni capisaldi della N., basandomi su un articolo del Dottor Trimarchi.

Nel cervello e nella sua espressione non esiste niente che non sia spiegabile con la Fisica, ovvero che non sia materia/energia/informazione. L’elettromagnetismo è la base della fisiologia cerebrale che si manifesta attraverso la realizzazione di circuiti biologici neurali governati dalle stesse leggi che regolano i circuiti elettrici e magnetici prodotti dalla tecnologia. L’emisfero destro palesa un’intelligenza genetica innata ed un’inclinazione all’autoapprendimento con cui conosce sé stesso ed il mondo che lo circonda. L’emisfero sinistro interiorizza i condizionamenti che provengono dall’esterno, inibendo la capacità creativa ed emotiva dell’emisfero destro. Ciò crea squilibri neuropsichici e, al limite, patologie. Ogni processo naturale è un sistema che, regolato da precisi princìpi fisici (causa ed effetto), scambia energia, materia ed informazione con gli altri complessi circostanti. Le norme che regolano la Fisiologia umana, animale e vegetale non sono codificate dall’uomo: la scienza può solo scoprirle, conoscerle e rispettarle. La fisiologia ontogenetica (dell’individuo) prevede centocinquant’anni di vita, purché la conoscenza non confligga con i bioritmi scanditi dall’ontogenesi stessa.

La N. si propone di indagare il dissidio tra la consapevolezza e la creatività, espresse dall’emisfero destro, e la logica del sinistro, per suggerire strategie risolutive basate su un’integrazione dei due sistemi.

Nonostante gli altisonanti titoli e le numerose ricerche di Trimarchi, mi pare che la N. non sia molto innovativa né apprezzabile. Anzi, se si eccettua la valorizzazione delle potenzialità latenti nella parte destra dell’encefalo e la riscoperta di antichi canoni medici inerenti all’importanza dell’equilibrio tra l’uomo e la natura, alcuni fondamenti suscitano forti perplessità.

Sorprende che Trimarchi, con incredibile nonchalance, stabilisca un’equivalenza tra materia-energia-informazione, quando già la corrispondenza tra le prime due è, talora, controversa. Sorprende che lo scienziato postuli la fisicità dell’informazione: l’informazione, infatti, benché passi attraverso un canale fisico, di per sé trascende la materialità. Sorprende ritrovare sic et simpliciter l’obsoleto dogma parascientifico del nesso tra la causa e l’effetto, come se Hume e Kant non fossero mai nati: tale nesso, che irrigidisce l’analisi dell’universo in strutture rigide, è altresì in contraddizione con l’idea di libertà, sottesa al dinamismo dell’emisfero destro. Pontifica lo scienziato: “Ogni ricercatore e scienziato deve sapere che il fenomeno che sta studiando ubbidisce sempre al principio fisico di causa ed effetto, ovvero è deterministico, anche se spesso la complessità del fenomeno cogli aspetti che sembrano probabilistici (sic)”.

Alla fine, questo pastiche di biologismo deterministico, cibernetica, teoria dell’informazione, medicina olistica è una riproposizione, solo con uno svecchiamento linguistico, del solito materialismo volto ad identificare coscienza e cervello e che distingue in modo ingenuo tra esterno ed interno, tra matrice e conseguenza. Ecco l’obiettivo: vivere sino a centotrent’anni anche in buona salute, in armonia con sé e con gli altri. E prima? E dopo? Certo è già un eccellente risultato, ma si esclude dall’orizzonte conoscitivo ogni riflessione e domanda sull’anima, tradotta (ridotta) in segnali bio-elettrici, laddove anche alcuni scienziati, senza citare vari filosofi, ammettono che la mente e la coscienza paiono situarsi al di fuori del cervello, benché tale organo funga da traduttore.

E’ noto che il discorso sull’anima è considerato una romanticheria. Viviamo in un mondo disanimato in cui uomini, animali, piante sono reificati, misurati in base al loro controvalore in denaro. Il termine “anima” appartiene solo al linguaggio fumoso e forviante di qualche superstite metafisico. Il corpo stesso, da tempio dell’interiorità, è ormai degradato in macchina che, non appena non funziona più, si getta in una discarica. Tutto è numero, bit, informazione. Tutto è materiale, ma la materia, lungi dall’essere un flusso vitale, è uno schedario di dati.

L’ideale di una vita oltre il cerchio biologico è sostituito dal progetto di un’esistenza prolungata in cui la Verità, la Giustizia, l’Amore, la Dignità, citati dal Trimarchi, sono parole che suonano come un omaggio formale ad una specie di orientamento para-scientifico con venature New age.

L’idolatria della scienza che tutto spiega, condendo la Neurologia con un filo d’olio di Psicologia, sancisce il definitivo, irreversibile fallimento di una ricerca che, mentre ardita spiega le vele verso l’oceano del futuro, si incaglia nelle secche del Positivismo ottocentesco.

Vedi M. Trimarchi, Neuropsicofisiologia: dal condizionamento alla consapevolezza, in Puntozero, n. 1, 2011

Tuesday, June 14, 2011

Anelli nell'io

Interessante la label "Monismo". L'ho sempre detto che zret e' un mona.

http://zret.blogspot.com/2011/06/anelli-nellio.html

Anelli nell'io

"Anelli nell'io Che cosa c'è al (sic) cuore della coscienza" è il recente saggio di Douglas Hofstadter. L'autore, noto per il ponderoso "Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante" nella nuova fatica "ci offre la summa dei suoi studi, una riflessione sui temi ed i quesiti centrali della filosofia e della spiritualità, dall'anima alla volontà, dal libero arbitrio alla coscienza".

Come si può intuire, Hofstadter, in questo testo più brillante che profondo, mette molta carne al fuoco, tentando di sondare l'enigma dell'identità umana. Hofstadter trae spunto da alcune conclusioni del logico e matematico Gödel per una variegata e spumeggiante indagine, costellata di titoli-calembour, di ingegnose metafore, di giochi linguistici e narrativi, di cerebrali elucubrazioni. Le risposte sull'anima (seità), in un libro tanto pirotecnico sono simili a fuochi d'artificio, scintillanti ma effimeri.

Certamente il saggio è da apprezzare per la crucialità dei temi affrontati: la frattura tra macrocosmo e microcosmo, l'essenza dell'io, la relazione tra cervello e consapevolezza, il rapporto tra sistemi simbolici ed io, la circolarità dell'esperienza umana, l'inconciliabilità di monismo e dualismo. Tuttavia non mi pare che Hofstadter, la cui formazione scientifica è un'ipoteca benché, nella fattispecie, leggera, approdi a lidi molto diversi da quelli cui erano arrivati altri filosofi prima di lui. Per H. L'identità è "un'allucinazione allucinata di un'allucinazione", un po' come per Hume l'anima che il pensatore scozzese reputava un'illusione condensata da mere abitudini percettive. Per il Nostro l'anima è una specie di banconota priva di per sé di valore intrinseco, un epifenomeno dell'encefalo che misteriosamente affiora dal movimento di particelle, dai segnali sinaptici. Che cosa resta dell'individuo dopo la morte? Niente, tranne un patterns di simboli, strutture concettuali che si trasferiscono da un cervello ad un altro. Questi patterns sono comunque destinati a svanire nel nulla prima o poi, come un software nel momento in cui l'hardware è distrutto.

Da materialista quale è, anche se il suo è un materialismo "debole", aperto a prospettive antropologiche, H. nega che possa esistere una mente staccata dal substrato organico, perché tale assunto genera un dualismo, "carico di arbitrarietà e di illogicità". Stimolante per i dubbi sollevati più che per le controverse tesi che "Anelli nell'io" snocciola, siamo indotti a ripensare "solide" certezze: il fondamento dell'etica e la libera volontà. Veramente ci siamo mai chiesti dove, come e perché il moto delle particelle e gli stati quantistici assurgano non solo a coscienza, ma a coscienza libera? Si è costretti a postulare l'esistenza di Dio, garante della morale, con il risultato di rendere un problema già intricato ancora più caotico. Siamo di fronte ad una totale irriducibilità tra fenomeni del micro-cosmo e gli atti che ingenuamente definiamo "liberi": "esigenze e decisioni sono il risultato di eventi fisici dentro le teste? Come possono essere libere? La volontà è una volontà libera? Possiamo sbizzarrirci a desiderare tutto quello che vogliamo, ma il più delle volte il nostro desiderio verrà frustrato". Deo gratias! Finalmente un autore che, rifuggendo da lenocinii, dimostra il coraggio di uccidere una vacca sacra, il libero arbitrio nonché l'assolutezza della morale.

Un altro idolo da abbattere è la fede nell'io come sostanza: non sappiamo se lo sia e, se pure è un arco di pietra, come scrive H., e non un arcobaleno, non possiamo dimostrarlo. In modo paradossale, la seità tanto fugace e labile, è, però, "la cosa più reale per ciascuno di noi": la microscopica coscienza di sé, amplificata dalla sofferenza, occupa tutto l'universo.

Osserva H. che quasi tutti i neuro-scienziati sono, obtorto collo, dualisti, ossia sono costretti ad ammettere che la mente è ontologicamente diversa dal cervello: egli è in totale disaccordo. Sebbene il dualismo sia irto di difficoltà, è la concezione che può salvare l'anima. Il riduzionismo porta ad un cul de sac: che risuoni in questo vicolo cieco una magnifica fuga di Bach è una ben magra e malinconica consolazione. O forse è meglio così.

[1] Il logico e matematico austriaco, naturalizzato statunitense, aveva dimostrato che nei sistemi formali, ad esempio, nei "Principia mathematica" di Russell e Whitehead, si danno proposizioni non dimostrabili o derivabili nel sistema stesso, pur essendo “vere” (incompletezza dell'aritmetica).