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IN MEMORIA DELL'EROE CADUTO
Sul sito di Debora Billi è comparso ieri questo dolente articolo in cui l’autrice, rammaricandosi per l’arresto di Julian Assange, approfitta dell’emozione creata dall’evento per rivolgere alcuni piccati rimproveri a tutti coloro che non si sono ancora bevuti la favola della Wikileaks “libera voce dell’informazione” perseguitata dal potere. Debora Billi è membro dell’ASPO Italia, un’associazione di cui ho già avuto modo di parlare e che fino ad oggi ho ritenuto animata da una dedizione sincera, sebbene alquanto fanciullesca, alle problematiche che porta all’attenzione dell’opinione pubblica. Inizierò tuttavia a tenere d’occhio con maggiore cautela questa congrega di luminari, visto che negli ultimi mesi essa sta fornendo avallo alle bufale più sesquipedali mai diffuse dagli organi della disinformazione globale: dal picco del petrolio, al riscaldamento globale, passando per il martirio di Assange, ultimo arrivato nella lista di pacchianerie metafisiche offerte con contorno di asparagi all’appetito dell’uomo della strada.
L’articolo di Debora Billi inizia con un’affermazione che, se scaturisse da un’analisi accurata della realtà anziché da un volo pindarico di fideistica immaginazione, farebbe tirare a molti di noi un profondo sospiro di sollievo. La Billi infatti, riferendosi al crudele destino di Assange, afferma: “Quando tutto il mondo ti dà la caccia davvero (e non per scena, come accade con i finti terroristi e i veri mafiosi), prima o poi il cerchio si stringe e ti arrestano”.
Ora, se davvero il destino di chi sfida apertamente il potere si riducesse alla probabile prospettiva di sobbarcarsi qualche anno di galera, ciò rappresenterebbe una notizia profondamente rassicurante per tutti noi che abbiamo a cuore le sorti dell’informazione. Purtroppo, a giudicare da quanto è accaduto in infinite occasioni nel passato, quando non dico tutto il mondo, ma anche soltanto un’agenzia d’intelligence di medio livello internazionale, ti dà la caccia perché hai trafugato documenti compromettenti, di solito finisci sotto terra molto prima di finire sulla prima pagina del New York Times. E questo avviene nel silenzio dei media, i quali, se sei un personaggio del tutto privo di visibilità mediatica, si limiteranno a ignorare l’accaduto o a proporlo come episodio di cronaca nera; se invece sei un personaggio di un certo livello, forniranno della tua morte una versione confusa, contraddittoria e rigurgitante di ipotesi contrastanti, tirando in ballo mafia, servizi segreti e criminalità comune, ponendo ogni ipotesi allo stesso livello e facendo ogni sforzo per evitare di fornire al lettore una pista univoca, fino a quando il lettore non capirà più niente e si stuferà di leggere. Non si è mai visto, in tutta la storia degli omicidi politici (che sono stati innumerevoli), che una personalità di alto rilievo politico (come il consulente del primo ministro canadese Stephen Harper) invocasse esplicitamente l’assassinio per un operatore dell’informazione. Gli omicidi politici vengono progettati ed attuati nel silenzio mediatico più assoluto e sono spesso accompagnati da blandizie e dichiarazioni di stima. Quando il silenzio non c’è, vuol dire che non siamo in presenza della progettazione di un assassinio politico. Siamo in presenza di un’azione di propaganda, finalizzata a qualche scopo. Su quale sia lo scopo si può discutere. Sull’azione di propaganda, non esiste il minimo dubbio.
Si noti che Assange non solo non è stato eliminato fisicamente, ma non è neppure stato “arrestato”: è stato lui a presentarsi a Scotland Yard, dopo aver trattato con i suoi avvocati la “resa” e dopo aver predisposto la claque che lo ha accolto al grido di “I love you” all’uscita dal commissariato. Anche in questo caso la costruzione propagandistica, accompagnata dal consueto amplificatore della stampa, è più che evidente. Ed è davvero puerile non domandarsi chi finanzi tutto questo apparato che ha portato Assange a diventare l’eroe del momento: i suoi viaggi, i suoi avvocati, i suoi rifugi sparsi in mezzo mondo, le strutture di Wikileaks, il denaro che servirebbe a “comprare” le informazioni scottanti dai presunti delatori. Per essere un uomo braccato dai servizi segreti, Assange sembra passarsela piuttosto bene ed è incredibile che nessuno si chieda chi gli fornisca il denaro per tenere in piedi tutto questo circo.
Debora Billi scrive che chi si aspettava da Wikileaks rivelazioni clamorose su segreti di stato di vitale rilevanza, probabilmente ha letto troppi fumetti. Io di fumetti, modestamente, ne ho letti un sacco e nonostante ciò mi aspettavo da Wikileaks esattamente i pettegolezzi da portinaia (uniti a poche informazioni di qualche interesse, le quali ci erano comunque già note e a cui la stampa ha evitato di dare risalto) che poi sono effettivamente arrivati sui nostri schermi. Il pregio dei fumetti è che sono modesti, non spacciano per realtà le proprie costruzioni immaginifiche. Il malvagio e inafferrabile Ras-al-Ghul ce l’ha solo con Batman, non pretenderebbe mai di essere un cattivo in carne ed ossa che abbatte grattacieli giustificando così la politica espansionistica degli USA in Medio Oriente. E l’organizzazione informatica Oracolo, gestita dalla paralitica Barbara Gordon, trasmette i suoi file segreti, reperiti attraverso misteriosi contatti, alla polizia di Gotham e alla comunità dei supereroi, senza per questo pretendere di espandere il proprio ruolo e sconfinare nel mondo reale. Qui il vero dramma, temo, è quello di coloro che i fumetti non li hanno mai letti, ma si sono limitati ad assimilarne gli schemi dall’humus della cultura popolare; e non riescono pertanto a scorgere il notevole salto dimensionale che separa la narrazione a fumetti dai meccanismi geopolitici reali.
Inoltre, qui è indispensabile chiedersi: se le informazioni trafugate da Wikileaks non svelano i “grandi complotti”, non aggiungono nulla alla nostra comprensione delle regole non scritte che presiedono al conflitto di potere tra stati, se non ci dicono nulla sugli strumenti utilizzati per ottenere la nostra sottomissione e la nostra acquiescenza al sistema, ma si limitano a distruggere le relazioni diplomatiche fra stati rendendo pubbliche le maldicenze da comari che circolano nelle ambasciate, allora per quale motivo dovremmo difendere Wikileaks? Se queste sono le sue uniche finalità “informative”, allora credo che siano pienamente giustificabili le richieste di quei governi che chiedono di zittire Assange e di chiudere i suoi server per non rendere ancor più incandescente una situazione internazionale che è già tesa fino all’inverosimile.
Debora Billi dice di voler fare “qualche osservazione sul personaggio” Assange, il che significa che la macchina del divismo ha funzionato ancora una volta. In realtà, il “personaggio” è la cosa che dovrebbe interessarci di meno. Quello che dovremmo chiederci è invece: chi finanzia Wikileaks? Chi realmente possiede, al di là delle leggende per marmocchi diffuse dalla stampa, le posizioni utili, le immunità e i codici di accesso alle informazioni riservate necessari per far filtrare all’esterno documenti coperti da segreto (seppure di non alto livello)? E per quale scopo? E che cosa ci dicono i documenti diplomatici pubblicati dall’organizzazione di Assange non sulle idiosincrasie degli USA verso paesi ostili e alleati, di cui poco ci cale, ma sulla vera identità dei mandanti dell’operazione di trafugazione dei dati? Anche in tal caso, l’antica e infallibile regola del cui prodest dovrebbe fungere da faro per ogni indagine giornalistica che si pretenda meritevole di considerazione. Non ho visto, sulla stampa nazionale e internazionale, molte indagini giornalistiche di questo tipo. In questo senso, ciò che Debora Billi depreca – e cioè l’attitudine a valutare il fenomeno Wikileaks sulla base dei contenuti dei documenti pubblicati, anziché profondendosi in disquisizioni sul “personaggio” di Assange, che è frutto di un’accurata costruzione propagandistica – è invece l’unico approccio potenzialmente proficuo per comprendere le logiche che stanno alla base dei meccanismi di potere internazionale. Ma tanto la stampa quanto Debora Billi sembrano voler disinnescare l’eventualità che qualcuno possa seguire questa linea.
Debora Billi dice che se i documenti pubblicati da Wikileaks contengono solo pettegolezzi, la colpa è di chi li ha scritti, non di Assange. A parte l’improponibilità di una simile difesa d’ufficio (è come dire che se un giornale pubblica patacche spacciandole per documenti scottanti, la colpa è di chi ha scritto le patacche e non dell’editore), tocca ribadire che qui poco ci interessa attribuire ad Assange colpe o medaglie. Il punto è capire perché proprio a quei documenti, a quei pettegolezzi, riguardanti quelle specifiche nazioni sia stato consentito di emergere all’attenzione dell’opinione pubblica e di avere ampia diffusione su una stampa che è solitamente asservita al potere e con esso collusa. Si tratta forse di un evento miracoloso, simile alla conversione dei pretoriani di un tiranno alla causa rivoluzionaria? O non è forse più verosimile che i pretoriani, per conto del tiranno, stiano continuando a perseguire la stessa, imperscrutabile politica, approfittando però del pretesto offerto dal biondo deviante australiano per prepararci l’ennesima repressione? Le richieste di controllo su internet e di limitazione alla libertà dei server che hanno accompagnato l’affaire Wikileaks fanno propendere molti per la seconda ipotesi.
Dice Debora Billi che se vogliamo dimostrare che Assange è un pataccaro, costruito in precisi ambienti politici e da essi finanziato per perseguire scopi che hanno più a che fare con la disinformazione e l’intimidazione internazionale che non con la volontà di rendere note all’opinione pubblica informazioni di una qualche pregnanza, allora dobbiamo essere “bravi” come lui: costruirci il nostro sito megagalattico, procurarci tanti bei documenti che dimostrino ciò che vogliamo sostenere, sfidare i servizi segreti degli imperi, racimolare da qualche parte i quattrini necessari per mettere in piedi tutto questo apparato e vivere felici. Sorvoliamo sul fatto che, se anche riuscissimo a fare tutto questo, i nostri sforzi servirebbero a poco senza una massiccia copertura da parte della stampa, che viene concessa solo quando il potere che la controlla ha interesse a concederla (in assenza di un appoggio mediatico di rilevanza globale, tutti i nostri sforzi ci porterebbero solo a fare la fine di John Kleeves). Il punto è che i documenti già ce li abbiamo: sono quelli pubblicati da Wikileaks, i quali, se interpretati a dovere e osservati nella giusta ottica, possono darci informazioni preziose sui mandanti di Assange e sulle finalità geostrategiche che essi perseguono. Debora Billi dimentica ciò che il giornalismo stesso ha da lungo tempo dimenticato: e cioè che i fatti e i documenti, senza un’interpretazione che li doti di un significato, non sono nulla, non servono a nulla. La nostra conoscenza non è costruita sui fatti nudi e crudi, ma sull’interpretazione soggettiva che siamo in grado di derivarne, collegandoli con altri fatti (che saremo noi a selezionare tra i miliardi di fatti disponibili per la connessione), con conoscenze acquisite e perfino con la nostra peculiare visione del mondo. Senza questo momento fondamentale, in cui i fatti si congiungono alle opinioni attraverso la creazione di un legame logico, i dati oggettivi non sono informazione, ma il suo esatto contrario: una materia sterile che non aggiunge nulla alla nostra conoscenza (che deriva da un processo di elaborazione interna) e che ci viene propinata in ampie quantità al solo scopo di farci credere che la conoscenza sia un abbeveratoio esterno a cui recarci di tanto in tanto per lenire la nostre sete di pecore arse dal sole. Per questo diffido, al massimo livello, di Assange e di tutti coloro che ci propinano “fatti” e “documenti” in quantità così imponenti da non consentirne, né organizzarne, né incoraggiarne, nè prevederne la cernita o l’elaborazione. Costoro non ci stanno fornendo cibo, ci stanno solo intimando che cosa dobbiamo abituarci a considerare cibo. Solitamente si tratta di pietre, lanciate sulle nostre teste con i migliori auguri di buon appetito.
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Gianluca Freda
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