Dante e l’Inferno sulla terra
La passione politica nutre le pagine più fervide di Dante
ed alcune fra le sue concezioni più alte. Così, tra crude invettive ed
orizzonti utopici, si dispiega un pensiero che colloca nel fuoco della
controversia la dimensione politica.
Nella “Commedia”, il traviamento che conduce il poeta sull’orlo del precipizio, non è un generico peccato di concupiscenza, ma appunto la partecipazione alle contese intestine da cui l’autore, inorridito, prende le distanze. Non è fortuito se precisi riscontri lessicali accomunano il canto I dell’inferno ed il canto VI. L’espressione allitterante “esta selva, selvaggia ed aspra è forte” è riverberata da “la parte selvaggia”; le tre fiere del canto proemiale, disegni allegorici di altrettante disposizioni peccaminose, richiamano “superbia, invidia e avarizia… le tre faville c’hanno i cuori accesi” del canto VI.
La “selva” dello smarrimento è dunque la città, nella fattispecie Firenze, dilaniata da cruenti conflitti tra fazioni contrapposte e deturpata da vizi innominabili, in primo luogo l’esecranda cupidigia (avarizia) che apparenta il borgo alla borghesia, “la gente nova, avida di subiti guadagni”. La città-selva è divenuta, paradossamente, lo spazio selvatico per eccellenza, in antitesi all’integrità di costumi collocata più che nel contado, in un tempo irreversibilmente tramontato. Il vagheggiamento nostalgico di un’intemerata età dell’oro senza l’oro maledetto dei fiorini, rende Dante un conservatore sdegnoso nei confronti della classe e della mentalità mercantile il cui “peccato originale” è nel denaro e nell’usura.
A Cacciaguida è affidato il compito di proiettarsi, tra idealizzazione e concretezza, nell’universo dei secoli precedenti, allorquando Firenze era una cittadina "sobria e pudica". Si staglia sempre un passato da rimpiangere o un futuro cui abbandonarsi fidenti: il presente è peggiore, perché scava la carne.
Il Nostro, mediante visioni retrospettive e profezie, intreccia la realtà politica con i moventi economici e sociali, senza trascurare il declino dei poteri ecumenici, ormai corrosi da una tabe profonda.
La concezione di Dante, eminentemente politica, stenta ad addentrarsi nella caverna metapolitica. Il sommo poeta, riconducendo la decadenza e la corruzione dell’umanità, a ragioni soprattutto etiche, alla responsabilità personale, pare ignorare o ridimensionare un influsso esterno, a meno che non si s’intenda indugiare su una curiosa corrispondenza numerologica. È noto che i canti di argomento politico sono il sesto di ciascuna cantica a formare la fatidica cifra della Bestia, il 666. E’ una coincidenza o Dante riconosce nel mondo politico la manifestazione di un regno oscuro, la turpe sintomatologia di una sostanza maligna? [1]
Non sappiamo se l’Alighieri spinse lo sguardo sino a tale profondità, se il 515 eclissò del tutto o in parte il 666. Sappiamo che nell’abisso occorre gettare lo sguardo per scoprire le marcescenti radici del sistema. Merito di Dante comunque aver compreso che il mondo, quantunque ne condannasse per lo più i governanti terreni ed i sudditi indegni, è una succursale dell’Inferno.
[1] Va precisato, però, che il 6 considerato singolarmente non ha un’accezione negativa. Paolo Vinassa de Regny, nel saggio “Il pitagorismo di Dante”, ricorda: “Un numero su cui hanno posto la loro attenzione i cristiani è il sei. Agostino lo considera una perfezione geometrica. Difatti, col 6, si forma l'esagono iscritto al circolo ed i cui lati sono uguali al raggio. San Beda (Hexaëmeron, II, 1) dice: ‘Senarium numerum constat esse perfectum, quia primus suis partibus expletur, sexta videlicet, quod est unus, et tertia quæ sunt duo et dimidia quæ sunt tria. Unum enim et duo et tria faciunt sex’. Bonaventura considera il 6 altamente degno, basandosi al solito sull'autorità di Agostino. Egli dice (Psalterium David, 128): ‘Tanta est dignitatis huius numeri (senarii) quod, dicit Augustinus, opera perfecta sunt, quæ facta sunt sub senario. Inde dicitur perfectus numerus senarius’. Anche Nicomaco, nella sua Theologia aritmetica, dà al 6 un grande valore. L'idea della perfezione del 6 è rimasta anche nel nostro linguaggio: noi, difatti, diciamo assestare, mettere in sesto per mettere in ordine; ed anche al compasso diamo il nome di seste. Il sei è dunque un numero mistico, relativo specialmente all'uomo; divenne perciò simbolo della perfezione della vita umana, cioè della giustizia. Tanto questo concetto era diffuso che le città si divisero in sestieri; il Villani, difatti, nella sua Cronaca (III, 2) scrive: ‘La città... si resse in sei sestieri siccome numero perfetto'".
Nella “Commedia”, il traviamento che conduce il poeta sull’orlo del precipizio, non è un generico peccato di concupiscenza, ma appunto la partecipazione alle contese intestine da cui l’autore, inorridito, prende le distanze. Non è fortuito se precisi riscontri lessicali accomunano il canto I dell’inferno ed il canto VI. L’espressione allitterante “esta selva, selvaggia ed aspra è forte” è riverberata da “la parte selvaggia”; le tre fiere del canto proemiale, disegni allegorici di altrettante disposizioni peccaminose, richiamano “superbia, invidia e avarizia… le tre faville c’hanno i cuori accesi” del canto VI.
La “selva” dello smarrimento è dunque la città, nella fattispecie Firenze, dilaniata da cruenti conflitti tra fazioni contrapposte e deturpata da vizi innominabili, in primo luogo l’esecranda cupidigia (avarizia) che apparenta il borgo alla borghesia, “la gente nova, avida di subiti guadagni”. La città-selva è divenuta, paradossamente, lo spazio selvatico per eccellenza, in antitesi all’integrità di costumi collocata più che nel contado, in un tempo irreversibilmente tramontato. Il vagheggiamento nostalgico di un’intemerata età dell’oro senza l’oro maledetto dei fiorini, rende Dante un conservatore sdegnoso nei confronti della classe e della mentalità mercantile il cui “peccato originale” è nel denaro e nell’usura.
A Cacciaguida è affidato il compito di proiettarsi, tra idealizzazione e concretezza, nell’universo dei secoli precedenti, allorquando Firenze era una cittadina "sobria e pudica". Si staglia sempre un passato da rimpiangere o un futuro cui abbandonarsi fidenti: il presente è peggiore, perché scava la carne.
Il Nostro, mediante visioni retrospettive e profezie, intreccia la realtà politica con i moventi economici e sociali, senza trascurare il declino dei poteri ecumenici, ormai corrosi da una tabe profonda.
La concezione di Dante, eminentemente politica, stenta ad addentrarsi nella caverna metapolitica. Il sommo poeta, riconducendo la decadenza e la corruzione dell’umanità, a ragioni soprattutto etiche, alla responsabilità personale, pare ignorare o ridimensionare un influsso esterno, a meno che non si s’intenda indugiare su una curiosa corrispondenza numerologica. È noto che i canti di argomento politico sono il sesto di ciascuna cantica a formare la fatidica cifra della Bestia, il 666. E’ una coincidenza o Dante riconosce nel mondo politico la manifestazione di un regno oscuro, la turpe sintomatologia di una sostanza maligna? [1]
Non sappiamo se l’Alighieri spinse lo sguardo sino a tale profondità, se il 515 eclissò del tutto o in parte il 666. Sappiamo che nell’abisso occorre gettare lo sguardo per scoprire le marcescenti radici del sistema. Merito di Dante comunque aver compreso che il mondo, quantunque ne condannasse per lo più i governanti terreni ed i sudditi indegni, è una succursale dell’Inferno.
[1] Va precisato, però, che il 6 considerato singolarmente non ha un’accezione negativa. Paolo Vinassa de Regny, nel saggio “Il pitagorismo di Dante”, ricorda: “Un numero su cui hanno posto la loro attenzione i cristiani è il sei. Agostino lo considera una perfezione geometrica. Difatti, col 6, si forma l'esagono iscritto al circolo ed i cui lati sono uguali al raggio. San Beda (Hexaëmeron, II, 1) dice: ‘Senarium numerum constat esse perfectum, quia primus suis partibus expletur, sexta videlicet, quod est unus, et tertia quæ sunt duo et dimidia quæ sunt tria. Unum enim et duo et tria faciunt sex’. Bonaventura considera il 6 altamente degno, basandosi al solito sull'autorità di Agostino. Egli dice (Psalterium David, 128): ‘Tanta est dignitatis huius numeri (senarii) quod, dicit Augustinus, opera perfecta sunt, quæ facta sunt sub senario. Inde dicitur perfectus numerus senarius’. Anche Nicomaco, nella sua Theologia aritmetica, dà al 6 un grande valore. L'idea della perfezione del 6 è rimasta anche nel nostro linguaggio: noi, difatti, diciamo assestare, mettere in sesto per mettere in ordine; ed anche al compasso diamo il nome di seste. Il sei è dunque un numero mistico, relativo specialmente all'uomo; divenne perciò simbolo della perfezione della vita umana, cioè della giustizia. Tanto questo concetto era diffuso che le città si divisero in sestieri; il Villani, difatti, nella sua Cronaca (III, 2) scrive: ‘La città... si resse in sei sestieri siccome numero perfetto'".
Mi pare che nell'inferno di Dante i geometri ed i prof di lettere schiachimisti siano puniti partecipando ad una conferenza in cui il pubblico è composto da un esercito di cloni di attivissimo , presenti in sala ed in collegamento skype.
ReplyDeleteIl link della "succursale dell'inferno" che punta al suo blog è perfetta. Un suo lapsus o un tocco di genio di eSSSe????
ReplyDeleteNico, ho controllato l'originale: il link è a cura del rimbambito.
ReplyDeleteLapsus quindi... bene bene :P
ReplyDeleteLa verità è nei dettagli.