http://autismovaccini.com/2012/07/08/non-giudicare-un-uomo-se-non-hai-percorso-un-miglio-nei-suoi-mocassini/
Non giudicare un uomo se non hai percorso un miglio nei suoi mocassini
Il Prof. Gualtiero Walter Ricciardi, membro del Consiglio Superiore di Sanità [lascio a voi un’idea di cosa sia questo carrozzone],
dirige la terza sezione [igiene e sicurezza lavoro, inquinamento,
malattie infettive, bioterrorismo, tossicodipendenze, acque minerali]
dell’organismo supremo che dovrebbe vigilare sulla mia e la vostra
salute, “il massimo organo di consulenza in materia sanitaria del
Governo”.
In data 4 luglio u.s. leggo un articolo in cui il Prof Gualtiero Walter Ricciardi afferma che “la maggior parte degli anti-vaccinalisti irriducibili è in buona fede, ma ci sono anche i farabutti“.
Il sottoscritto non solo è in buona fede
ma scrive con ampia cognizione di causa [riferita prevalentemente al
grave danno vaccinale del proprio figlio] e si sente in dovere di
rispondere al noto Professore che, dopo lo scandalo TBC
esploso l’anno scorso nel suo Ospedale [dove incolparono ingiustamente
una mia collega che tra l'altro era vaccinata!] e la massa di inutili e
dannosi esami ai quali sono stati sottoposti i neonati [Il test usato sui bambini non era scientificamente convalidato], probabilmente ha perso una preziosa occasione per esercitare l’arte del silenzio!
Il Professore che tanto inutilmente si
affanna a proferire epiteti [anzichè elencare studi scientifici] per
provare la sicurezza dei vaccini, dall’alto del suo pulpito incastonato
nel famoso BOARD SCIENTIFICO VACCINALE da 0 a 100 anni [La casta italiana dei vaccini] sembra dimenticare alcune considerazioni non di poco conto:
- in tutto il mondo, meno del 15% di tutti i farmaci commercializzati e meno del 50% di quelli espressamente destinati al bambino vengono utilizzati sulla base di prove cliniche attestanti le specifiche caratteristiche di rischio/beneficio;
- lo stesso CDC riporta una vasta gamma di possibili eventi avversi causati dai vari vaccini [non proprio così sicuri];
- la vaccinazione è a tutti gli effetti un atto medico non esente da rischi e complicanze invalidanti, anche fatali [VAERS];
- un’importante consapevolezza acquisita nell’era dell’EBM [Evidence Based Medicine] riguarda la pericolosità e pervasività dei conflitti di interesse [CdI] in campo scientifico e sanitario.
Alla luce di questi quattro punti cardine, e della quotidiana denuncia da parte di numeri sempre più elevati di genitori responsabili che evidenziano i danni provocati dalle vaccinazioni ai propri figli, vogliamo smascherare i reali “farabutti”?
EBM E CONFLITTI DI INTERESSI
Come affermato in un saggio dal titolo emblematico, Il Conflitto Epidemico, dell’economista Guido Rossi “il CdI
sta trasformando il mondo in cui viviamo conferendogli una fisionomia
che stentiamo a riconoscere, e permea l’economia, il mercato, la
finanza, la politica e perfino il costume. E la cosa peggiore è che in
molti casi esso viene considerato come un fatto di fondo normale“.
Il CdI non è nato oggi – afferma sempre Rossi
– ed è anzi sempre esistito, tanto che le forme di base del contratto
sociale, soprattutto in economia, sono state create per tenerlo sotto
controllo. “Che un venditore cerchi di ottenere il prezzo più alto
possibile per una merce rientra nella normale disciplina dei contratti
di compravendita. Ma la soglia si supera quando per dolo, violenza,
errore o anche solo approfittando del proprio vantaggio, il venditore
danneggi l’acquirente“.
Al di là dei significati specifici che si possono dare al termine CdI,
quindi, alla sua radice c’è sempre uno squilibrio a favore di uno degli
attori della transazione che si trova, formalmente o di fatto, a
rappresentare un interesse non solo personale ma anche del suo gruppo di
riferimento o dei suoi mandanti.
Sempre Rossi sostiene, giustificando il titolo dato al suo saggio, che il CdI
è oramai passato dallo stato endemico a quello epidemico in quanto non
riguarda più solo singoli individui ma la gran parte degli attori. E in medicina come stiamo?
Il tema dei CdI è stato
affrontato essenzialmente in relazione alla ricerca e alla pubblicazione
dei suoi risultati sulle riviste scientifiche; molto meno invece per
quanto riguarda l’esercizio e la regolazione dell’attività
professionale, anche se le istanze in cui uno o più CdI possono sussistere sono molto ampie e serie.
L’allarme è stato lanciato da parte dei
Direttori delle più importanti riviste scientifiche con una serie di
considerazioni a tutto campo che vanno dalla perdita di indipendenza dei
ricercatori e dalla pervasività dell’influenza degli sponsor
commerciali fino ai problemi legati alla libertà e autonomia nella pubblicazione e diffusione dei risultati da parte dei ricercatori che partecipano a studi clinici.
Secondo la classica definizione proposta più di venti anni fa da Thompson sul New England Journal of Medicine “i
conflitti di interessi rappresentano quell’insieme di condizioni in cui
il giudizio professionale relativo a un interesse primario [come il
benessere di un paziente o la validità di una ricerca] può essere
influenzato in modo improprio da interessi secondari [come un vantaggio
economico]“.
Il CdI riguarda
evidentemente sia le singole persone sia le Istituzioni e trova il suo
fondamento nella situazione di asimmetria informativa che caratterizza
sia la relazione tra singolo paziente e singolo medico, sia l’insieme
dei singoli cittadini/pazienti nei confronti della comunità scientifica o
delle Istituzioni sanitarie.
Da questo punto di vista vi è un generale accordo nel ritenere che il CdI
sia essenzialmente uno stato, una condizione e non un comportamento
specifico e che, come tale, sia in larga parte indipendente dalla
volontà del soggetto, sussistendo a prescindere dai comportamenti
stessi, compresi quelli eventualmente assunti per rendere almeno
evidente e palese [disclosure] la sussistenza dei CdI stessi.
In altre parole, per poter qualificare una situazione come foriera di CdI
è sufficiente che esistano obblighi verso più soggetti [portatori di
interessi] da parte di un singolo individuo e non è necessario che
l’eventuale possibile beneficio sia stato effettivamente ottenuto.
In questo senso è bene discutere il tema del CdI da un’angolazione specifica, considerare cioè se le regole dell’EBM
siano adeguate o meno a rendere più trasparenti le regole del gioco e a
rendere meno pericolosi i “trucchi” con i quali la metodologia della
ricerca può essere utilizzata per addomesticare i risultati.
Si rimanda invece a un recente saggio per quanto riguarda una trattazione più esaustiva delle diverse problematiche legate al CdI.
Questa angolazione è suggerita in modo
specifico da uno degli elementi che costituisce un filo rosso, e cioè la
necessità di ridimensionare gli “EBM-entusiasti pro-vaccini”, coloro
cioè che sostengono in questi anni [sempre più in modo arrogante e
aggressivo] l’idea che la pratica dell’EBM si possa riassumere nell’equazione “EBM = insieme di regole metodologiche + Medline“, giustamente, anche se non disinteressatamente, criticata da molti.
Non c’è dubbio che anche l’industria farmaceutica abbia saputo in questi anni utilizzare i principi dell’EBM
per sfornare ricerche medologicamente ineccepibili, ma non
infrequentemente discutibili sul piano della rilevanza e delle finalità.
EBM E CONTROLLO DELLA RICERCA
C’è da tempo un unanime consenso sul fatto che le ricerche senza fondamento etico sono dannose e non vanno pubblicate [esempio 1 ... esempio 2], così come in un processo non devono essere utilizzate prove ottenute in maniera illegale. Non bisogna però restringere l’attenzione alla dicotomia tra liceità o non liceità
perché esiste un continuum di violazioni alla metodologia della
ricerca, non tali da essere considerate fraudolente, ma che di fatto, se
reiterate, possono condizionare in modo sostanziale l’informazione
scientifica che giunge ai medici.
Il mondo della ricerca non è indipendente, ed è facile capirlo:- la ricerca ha bisogno di finanziamenti;
- stragrande parte di questi giunge dalle industrie e una piccola parte da istituzioni pubbliche. Fintanto che tale rapporto non verrà bilanciato è difficile pensare che la ricerca possa affrancarsi dai condizionamenti industriali. Tanto per fare un esempio, in Italia [dicembre 2003] su 1899 sperimentazioni approvate dai comitati etici locali, 1474 [78%] sono state sponsorizzate da industrie farmaceutiche, 144 [8%] da IRCCS pubblici o privati, 163 [9%] da ASL o aziende ospedaliere, 70 [4%] da associazioni scientifiche e 32 [2%] da università. Nonostante gran parte della ricerca sia finanziata da privati, in Italia le industrie investono meno in ricerca rispetto a quanto avviene in altri paesi europei: nel 2001, l’ammontare complessivo era di 769 milioni di euro, pari al 7,2% del fatturato farmaceutico interno [ben al di sotto della media dell’Unione Europea pari al 23,8%]. Se volete leggere in che misura sono sperimentati i vaccini [e non solo], e a chi convengono, non vi resta che leggere il Rapporto Nazionale Sperimentazione Clinica 2011.
L’infanticidio
Affermare che i vaccini siano i farmaci
più sicuri e testati, alla luce di quanti di essi sono stati ritirati
dal commercio in tutti questi anni per aver causato una furgonata di
encefalopatie post-vaccinali nei bambini, è un’affermazione
assolutamente destituita di ogni fondamento d’intelligenza, arrogante e
irrispettosa nei confronti di coloro che sono stati resi invalidi in
modo permanente fin dai primi anni di vita e delle loro famiglie che
supportano il totale carico assistenziale!
Affermare inoltre che i bambini non vaccinati “non potrebbero nemmeno essere iscritti a scuola” alla luce del DPR 355 del 26.01.1999 è un’affermazione assolutamente falsa e contro la Legge!
Per poi comprendere meglio la possibile
pressione esercitata dai finanziatori degli studi in merito ai
vaccini, presento l’esempio di due storie emblematiche del controllo che
lo sponsor ha sulle ricerche appena nate. Si tratta di casi isolati?
Assolutamente no! … è molto forte il sospetto che i fenomeni intrusivi
avvengano abbastanza di frequente ma che solo raramente raggiungano un
livello tale da essere portati a conoscenza del pubblico [pandemia
bufala H1N1 docet!].
LEVOTIROXAMINA – Nel
1987 la Boots, che produceva la levotiroxamina [un farmaco per il
trattamento dell’ipotiroidismo] e lo commercializzava con il nome di
Synthroid, commissiona a una ricercatrice dell’Università della
California di San Francisco, Betty Dong, una ricerca per dimostrare che
il proprio farmaco è migliore dei tre generici in commercio. Nel 1990, i
risultati delle ricerche dimostrano la bioequivalenza dei prodotti
messi a confronto. La Boots cerca allora di impedire la pubblicazione
dei risultati, chiedendo dapprima all’università da cui dipende la Dong
di svolgere un’indagine sulla correttezza della ricerche svolte dalla
dottoressa. La conclusione di due indagini parallele è che la Dong ha
condotto le ricerche in modo scrupoloso. La dottoressa Dong invia
allora un manoscritto al Journal of the American Medical Association
[JAMA] la cui stampa viene bloccata da una lettera della stessa
ricercatrice: chiede la sospensione della pubblicazione per intercorsi
problemi legali. Infatti, nel contratto stipulato tra la Dong e la Boots
era previsto che la pubblicazione dei risultati sarebbe potuta avvenire
solo con il beneplacito dell’industria. Dal momento che la Boots non
era intenzionata a rendere pubblici quei dati, contratto alla mano,
aveva chiesto alla Dong di bloccare la pubblicazione dell’articolo. Solo
dopo che la storia viene svelata dal Wall Street Journal l’articolo originario della Dong è finalmente pubblicato nell’aprile del 1997.
Per sette anni la comunità scientifica e i pazienti stessi erano stati
tenuti all’oscuro del fatto che i generici erano equivalenti al farmaco
originario.
ALCOL – In questo caso
l’interferenza sulla pubblicazione dei dati di una ricerca non è stata
esercitata da un’industria farmaceutica, ma da un ente governativo. Nel
1972 analizzando i dati riguardanti il peso di alcuni fattori di
rischio sulla mortalità cardiovascolare dei cittadini di Framingham, Carl Seltzer
osserva che gli uomini che consumano modeste quantità di alcol hanno un
minor rischio di malattia coronarica rispetto agli astemi. Scrive un
articolo che invia all’ente governativo finanziatore della ricerca. La
risposta è drastica: l’articolo non è pubblicabile in quanto
“apertamente incoraggia l’uso dell’alcol per prevenire la malattia
coronarica. Il messaggio sarebbe ingannevole e socialmente non
desiderabile in considerazione del grave problema sanitario legato
all’alcolismo in questo paese”. Siccome i dati erano di “proprietà” del
NHLI, i risultati di quella ricerca vennero abbandonati e confermati
solo anni dopo, in altre ricerche [esempio 1 ... esempio 2]
L’aborto della pubblicazione scientifica
Siccome non sta bene impedire la
pubblicazione di un prodotto diverso da come se lo aspettava lo
sponsor-genitore è meglio intervenire nella fase di gestazione, quando
ci si accorge, con opportuni test preventivi, che il concepito non avrà
le caratteristiche volute.
Se la ricerca viene abortita per
nascondere un risultato scomodo, il contributo dei pazienti che si sono
sottoposti volontariamente alla ricerca viene del tutto vanificato
configurandosi come una vera e propria violazione della Dichiarazione di Helsinki… e la GSK [sempre lei!] ha ben poco da scandalizzarsi se viene condannata per aver ammazzato bambini innocenti durante i suoi trial vaccinali in Argentina.
La decisione da parte di un’industria di
investire fondi per condurre una ricerca clinica non è solo un impegno
di tipo economico, che deve far aumentare i profitti dell’investitore,
ma deve anche avere una valenza etica e sociale dal momento che si ha a
che fare con soggetti umani, che forniscono il loro consenso e la loro
disponibilità per la scienza, non certo per trovare una nicchia
commerciale per un certo prodotto. I vaccini, tramite i quali si spara
nel mucchio, rientrano a pieno titolo in questo calderone. Anche qui un
esempio più semplice servirà a chiarire il concetto.
VERAPAMIL – Nel 1994 viene avviata una ricerca di ampie dimensioni
per mettere a confronto l’efficacia del calcio-antagonista Verapamil
rispetto alla tradizionale terapia antipertensiva [beta-bloccante o
diuretico] nel prevenire eventi cardiovascolari in soggetti ipertesi.
Vengono arruolati oltre 16.000 pazienti in 15 Stati. I ricercatori
prevedono di seguire i pazienti per cinque anni per poter verificare se
il nuovo farmaco è equivalente a quelli tradizionali nel ridurre
l’incidenza di eventi cardiovascolari. Dopo circa tre anni, lo sponsor
decide di interrompere la ricerca “per motivi commerciali“.
Viene fatta l’analisi statistica dei dati fino ad allora raccolti e i
risultati dimostrano lo stesso numero di eventi cardiovascolari nei due
gruppi di pazienti. Psaty e Rennie,
nell’editoriale di accompagnamento, ipotizzano che, se l’andamento
della ricerca fosse stato lineare nei due anni successivi, la proiezione
dei risultati preliminari avrebbe dimostrato che il diuretico riduceva
gli eventi più del verapamil, che a sua volta li riduceva più
dell’atenololo. Secondo lo sponsor il motivo dell’interruzione era
dovuto soltanto a problemi di finanziamento. Se il verapamil avesse
mostrato un’efficacia superiore non si sarebbero trovati i soldi per
concludere la ricerca e per consacrarne la superiorità?
Gli esempi sono comunque ancor più
numerosi e vanno da farmaci per il tumore dell’ovaio, a immunoglobuline,
a vaccini, a farmaci cardiologici.
L’agente segreto
Nei casi illustrati precedentemente un
killer ha dovuto sbarazzarsi di un prodotto già in gestazione o appena
nato. Perché non servirsi invece di un agente segreto in grado di
infiltrarsi nell’organizzazione avversaria? Infatti, si può modificare
il corso degli eventi senza sparare un colpo, contando su complicità interne.
Questa è indubbiamente la condizione che deve sollecitare l’attenzione dei lettori: le ricerche con “agente segreto” sono condotte secondo le Good Clinical Pratices [Buona Pratica Clinica], metodologicamente non attaccabili, e pertanto approvate dai comitati etici e pubblicate su importanti riviste scientifiche.
Quando sono state messe a confronto
ricerche sponsorizzate con altre condotte da autori indipendenti non
sono state trovate differenze importanti dal punto di vista qualitativo.
Il vero problema è che le ricerche
sponsorizzate più frequentemente non affrontano problemi di reale
interesse clinico, ma questioni che hanno una ricaduta meramente
commerciale.
Il principio di incertezza,
che dovrebbe essere lo stimolo principale per impostare una ricerca,
non sussiste in molte ricerche promosse dall’industria, basate
sull’obiettivo di dimostrare l’efficacia del proprio prodotto.
Come emerge dallo studio di Bhandari et al.
le ricerche condotte da autori che hanno dichiarato di aver ricevuto
fondi da parte dell’industria hanno maggiori probabilità di ottenere
risultati favorevoli al prodotto commercializzato.
Se i dati non vengono manipolati in modo
fraudolento, attraverso quali meccanismi leciti è allora possibile
ottenere conclusioni favorevoli?
Innanzitutto le industrie tendono
selettivamente a svolgere ricerche su farmaci che considerano più
efficaci di quelli di controllo; in tal modo aumentano la percentuale di
ricerche con risultato positivo. In secondo luogo vengono forzati alcuni strumenti metodologici in maniera che facilitino una conclusione favorevole.
Sono state individuate tre tappe attraverso cui si introducono queste distorsioni pilotate:- Prima tappa: non sperimentare
- Seconda tappa: condizionare il protocollo
- Terza tappa: controllare la pubblicazione
PRIMA TAPPA: NON SPERIMENTARE
– Se non sperimento un farmaco non ho prove che non serva: è ovvio! …
Talmente ovvio che la strategia viene spesso adottata proprio per i
vaccini [vedi GARDASIL].
Immaginiamo che un’industria detenga il
brevetto di un farmaco. Per l’approvazione da parte dell’agenzia
regolatoria è sufficiente dimostrare che la nuova
molecola è migliore più del placebo.
Se non le viene imposto da un’autorità
nazionale, perché mai quell’industria dovrebbe investire ingenti fondi
in una ricerca condotta su migliaia di pazienti, che verranno seguiti
per un certo numero di anni, sapendo di correre il rischio che alla fine
si dimostri la scarsa utilità del proprio prodotto e di vedere crollare
le discrete vendite attuali?
Il gioco non vale la candela, infatti
ancora oggi le valutazioni della reale efficacia dei vaccini sono molto
scarse e il vaccino anti-HPV [Gardasil e Cervarix] è la dimostrazione di
questo gioco al massacro.
SECONDA TAPPA: CONDIZIONA IL PROTOCOLLO
– In un mondo ideale, l’ipotesi di una ricerca clinica dovrebbe partire
da un quesito stimolato dalla pratica clinica che, sulla base delle
conoscenze correnti, non ha una risposta adeguata. Successivamente, il
ricercatore dovrebbe impostare un protocollo di ricerca in grado di
rispondere al quesito iniziale, trovare collaboratori e finanziamenti e
quindi avviare il progetto. Non viviamo però in un mondo ideale delle
favole e quindi l’esigenza di condurre una ricerca è più facile che
parta da chi può essere interessato a dimostrare l’efficacia di una
propria molecola.
Come possiamo ingenuamente sperare che lo
sponsor che investe ingenti somme di denaro e sostiene tutte le spese
per la conduzione della ricerca non intervenga nella fase progettuale e
non imponga alcune decisioni come irrinunciabili?
In molte ricerche i nomi degli uomini
dell’industria che hanno contribuito in modo sostanziale alla stesura
del protocollo e alla conduzione della ricerca non compaiono mai.
Gli autori sono solo personalità
riconosciute nel proprio campo che spesso prestano il loro nome a
operazioni meramente commerciali e di cui non hanno controllo.
Verosimilmente le due ipotesi
dell’assoluta indipendenza e dell’assoluta soggezione all’industria si
confondono in uno scenario nel quale ricercatori e industria giungono a
un dignitoso compromesso che non metta in imbarazzo i primi e fornisca i
migliori risultati alla seconda.
Possiamo individuare otto strategie che vengono adottate per addomesticare una ricerca, pur nel rispetto della correttezza scientifica e metodologica, attraverso la scelta:
- dei pazienti;
- di un end-point surrogato;
- di un end-point combinato;
- del gruppo di controllo;
- di studiare la non inferiorità;
- di come condurre la ricerca;
- di svolgere analisi per sottogruppi;
- di come presentare i dati.
La scelta dei pazienti.
Nell’arco dell’ultimo ventennio si è passati da ricerche cliniche con
centinaia di pazienti a ricerche nelle quali vengono arruolate alcune
decine di migliaia di pazienti. Per dimostrare che il clopidogrel è più efficace del placebo sono stati arruolati oltre 19.000 pazienti e per dimostrare che l’attivatore del plasminogeno
è più efficace della streptochinasi nel trattamento dell’infarto
miocardico acuto ne sono stati arruolati oltre 41.000. Una volta
venivano studiati piccoli gruppi di pazienti con un rischio molto
elevato nei quali era semplice valutare la riduzione di eventi clinici
nell’arco di poco tempo. Era poi compito degli informatori spiegare che
quel risultato poteva essere esteso alla più ampia schiera di pazienti
meno gravi. Il salto quantitativo ha permesso di svolgere ricerche su
pazienti “a rischio” nelle quali la differenza dell’end-point tra il
gruppo di pazienti sottoposti al trattamento sperimentale e quelli di
controllo può essere molto piccolo. Le grosse casistiche garantiscono
che anche piccole differenze tra i due gruppi a confronto risultino
statisticamente significative. L’investimento sarà cospicuo, ma se
l’operazione funziona i ricavi saranno proporzionali. Vediamo più da
vicino due ricerche emblematiche per capire in cosa consiste questo
cambio di strategia. La prima
utilizza un ACE-inibitore [la cui efficacia è nota in pazienti con
disfunzione ventricolare sinistra] in pazienti con rischio
cardiovascolare elevato, a cui non viene misurata la funzione
ventricolare e la seconda
utilizza una statina [la cui efficacia è nota in pazienti con
ipercolesterolemia] in pazienti con rischio cardiovascolare elevato a
cui non viene misurata la colesterolemia. In entrambi i casi viene
lanciata la sfida per dimostrare l’efficacia di un farmaco indicato al
trattamento di una particolare condizione, a pazienti che quella
condizione non l’hanno. Nel 1993 inizia il reclutamento di più di 9.000 pazienti
con una storia di malattia coronarica, cerebrale, vascolare o diabete
più un altro fattore di rischio cardiovascolare, escludendo i pazienti
che avessero già avuto segni di scompenso o la dimostrazione di una
disfunzione ventricolare sinistra. Allora già si sapeva che il farmaco
serviva per far vivere di più i pazienti con scompenso: la successiva
frontiera sarebbe stata quella di dimostrare l’efficacia anche in coloro
che hanno le condizioni per sviluppare uno scompenso. E così è stato.
Due anni dopo compaiono i risultati di un’altra mega ricerca,
condotta su oltre 20.000 pazienti. Analogamente a quella precedente sul
ramipril, in questo caso si valuta l’efficacia della simvastatina non
in pazienti con elevati valori di colesterolo, ma in pazienti con
patologie in qualche modo correlate a un’ipercolesterolemia. Vengono
quindi arruolati pazienti affetti da coronaropatia, da arteriopatia
periferica o da diabete mellito, indipendentemente dal valore del
colesterolo nel sangue. Anche in questo caso il risultato premia i
ricercatori. Se da una parte i medici e i pazienti vorrebbero disporre
di farmaci da utilizzare solo in coloro che ne possono trarre beneficio,
le strategie di ricerca delle industrie puntano invece sull’inclusione
di pazienti poco selezionati, in modo da dilatare il numero delle
prescrizioni. E il mercato, spinto dalla versione “meccanicistica”
dell’EBM, si allarga.
La scelta di un end-point surrogato.
La letteratura è ricchissima di farmaci adottati dai medici solo sulla
base di un’efficacia nel ridurre gli end-point surrogati. Infatti, a
rigor di logica, sembra ragionevole che, se l’ipercolesterolemia provoca
l’infarto e la morte precoce, ridurre il tasso ematico di colesterolo
debba ridurre l’incidenza di infarto e prolungare la vita. Sembra
ragionevole pensare che se la mortalità dopo infarto è maggiore in
coloro che hanno aritmie ventricolari, ridurre la comparsa di tali
disturbi del ritmo debba ridurre il numero di morti improvvise. Sembra
ragionevole pensare che se la bassa frazione di eiezione del ventricolo
sinistro [un parametro che misura la capacità contrattile del cuore] è
il fattore principale che determina la morte, la stimolazione della
capacità contrattile del cuore debba migliorare la sopravvivenza. In
clinica invece non sempre ciò che è plausibile è anche vero. Questi tre
esempi ci riportano infatti ai risultati di tre ricerche nelle quali si
era riscontrata una maggiore mortalità nonostante si fosse ottenuta
un’importante riduzione della colesterolemia con il clofibrate, una riduzione quasi totale delle tachicardie ventricolari con la flecainide e un miglioramento della frazione di eiezione con il milrinone.
La scelta di un end-point combinato.
Per dimostrare che un farmaco riduce la mortalità [che fortunatamente è
un evento raro] è necessario seguire molti pazienti per un lungo
periodo di tempo in modo tale da “osservare” un numero di decessi
sufficientemente numeroso per capire se c’è una differenza tra il
trattamento sperimentato e quello di controllo. Da una decina di anni è
invalso l’uso di misurare l’effetto di un trattamento rispetto alla
combinazione di alcuni eventi, che viene abitualmente definita end-point
combinato. Non sempre però tra gli end-point combinati sono compresi
solo end-point veri. In una ricerca per la valutazione dell’efficacia di
un ACE-inibitore [il benazepril]
in pazienti affetti da nefropatia cronica è stato scelto come end-point
combinato il raddoppio della creatininemia [end-point surrogato] o la
necessità del ricorso alla dialisi [end-point vero]. Nell’arco di tre
anni il benazepril ha ridotto l’end-point combinato dal 20% [nei
pazienti trattati con placebo] al 10%. Il lettore è indotto a credere
che il farmaco dimezzi sia l’aumento della creatininemia sia la
necessità della dialisi; invece nel corso della ricerca solo due
pazienti hanno avuto bisogno di dialisi e quindi l’effetto
sull’end-point combinato è da attribuirsi solo alla riduzione
dell’end-point surrogato. Il problema interpretativo delicato è quando
si ottiene una discrepanza tra il risultato dell’end-point combinato e
quello delle sue singole componenti. Freemantle et al.
hanno preso in considerazione 167 ricerche nelle quali era stato
utilizzato un end-point combinato. Solo nell’11% delle ricerche era
significativo sia l’end-point primario, sia la mortalità, mentre nel 38%
non erano significativi né l’end-point primario né la mortalità; negli
altri casi è stata osservata una discrepanza tra questi due obiettivi.
La scelta del gruppo di controllo.
Coloro che sponsorizzano una sperimentazione desiderano solitamente
dimostrare la superiorità del nuovo farmaco. Il modo più semplice è
quello di confrontarlo con un placebo. Quando però si tratta di
verificare l’efficacia della nuova molecola per il trattamento di una
patologia per la quale esistono già uno o più prodotti, la cui efficacia
è dimostrata, ai medici e ai pazienti non interessa sapere che la nuova
sostanza sia efficace, ma se offre qualcosa in più rispetto a quelle
già in commercio. I ricercatori [e in particolare l’industria che
produce il nuovo farmaco] si pongono allora il problema con quale altro
farmaco mettere a confronto il proprio prodotto. La prima idea
che viene in mente è quella di confrontarlo con un altro farmaco che
non ha un effetto sul parametro che si intende studiare. La seconda idea è di non confrontarlo con il diretto concorrente. La terza idea
è quella di giocare sulle dosi del farmaco di riferimento. Se si
intende dimostrare l’efficacia del proprio si sottoutilizza il prodotto
del concorrente, se si vuole invece dimostrare la migliore tollerabilità
lo si somministra a dosi aumentate.
Una vicenda paradigmatica è quella della fluoxetina
che quando è stata messa a confronto con i più vecchi antidepressivi è
stata somministrata a dosaggi maggiori di quando in seguito è stata
utilizzata come farmaco di confronto per dimostrare l’efficacia dei
nuovi antidepressivi. In modo analogo quando è stato studiato un nuovo
farmaco per prevenire il rigetto nei pazienti sottoposti a trapianto
renale, il tacrolimus,
il confronto è avvenuto con dosi inferiori a quelle ottimali del
precedente farmaco in uso, la ciclosporina e quando sono stati messi a
confronto due βeta-bloccanti in pazienti con scompenso cardiaco quello
non appartenente all’industria sponsor della ricerca è stato
somministrato alla dose massima di 100 mg invece che a quella di 200 mg,
risultata efficace in precedenti ricerche.
La scelta di studiare la non inferiorità.
Quando due farmaci hanno prevedibilmente un effetto molto simile, anche
perché appartengono alla stessa classe terapeutica o hanno lo stesso
meccanismo d’azione, è improbabile poter dimostrare che il nuovo sia più
efficace di quello di controllo. I ricercatori hanno quindi pensato di
condurre delle ricerche non per dimostrare che il nuovo è superiore a
quello di controllo, ma per dimostrare che sono equivalenti o
addirittura che il nuovo non è inferiore al vecchio [esempio 1 ... esempio 2 ... esempio 3].
Il dilemma etico è evidente:
come è possibile chiedere a un paziente il consenso a partecipare a una
sperimentazione clinica spiegandogli che gli può essere somministrato
il farmaco abitualmente utilizzato per il trattamento della sua
patologia, noto per la sua efficacia, oppure un altro sperimentale che,
ben che vada, ha un’efficacia equivalente a quello standard o
addirittura ha un’efficacia inferiore?
Le ricerche di equivalenza possono avere
una giustificazione quando il nuovo farmaco è meno costoso di quello
standard [caso pressoché improbabile], quando è di più facile
somministrazione o quando ha minori effetti indesiderati: in questi casi
è legittimo porsi il problema dell’equivalenza di efficacia, in quanto
altri sono i vantaggi.
Rimane il problema di quale livello di
minore efficacia si è disposti ad accettare in cambio di una migliore
via di somministrazione.
Il quesito è stato sollevato in un editoriale del Bollettino di Informazione sui Farmaci che
richiamava l’attenzione dei comitati etici ad approvare protocolli di
ricerca che abbiano un reale interesse per la medicina e per i pazienti e
a rifiutare quelli che hanno solo uno scopo di tipo commerciale.
A questo proposito viene riportato
l’esempio di un protocollo multicentrico in doppio cieco di confronto
tra un farmaco per il trattamento di pazienti clinicamente instabili e
il placebo. I ricercatori si pongono l’obiettivo di dimostrare la
superiorità del nuovo farmaco, ma in subordine, se questa prova non
venisse superata, di dimostrarne la non inferiorità con un hazard ratio
massimo di 1,25. Cosa significa? Che sulla base dei dati sperimentali
potremmo accettare [e prescrivere] un farmaco che ha dimostrato di
indurre una mortalità superiore al 25% rispetto al placebo,
considerandolo equivalente. Ovvero sei decessi in più per ogni 100
pazienti trattati.
La scelta di come condurre la ricerca. Dagli anni Ottanta si ritiene che il metodo più corretto di condurre una ricerca sia quello dell’intention to treat
che consiste nell’analizzare i dati in base al trattamento assegnato
con la randomizzazione e non come veniva fatto precedentemente in base
al tipo di trattamento effettivamente seguito dal pazienti [drug
efficacy analysis].
Il primo metodo fornisce un’informazione
molto utile al clinico che dovrà prescrivere un certo trattamento,
sapendo qual è il vantaggio nell’insieme dei pazienti a cui lo
prescriverà e non solo in quelli che lo tollereranno, ma sottostima
l’effetto di un farmaco poco tollerato. Quando un gruppo di ricercatori
ha deciso di valutare l’efficacia di un farmaco βeta-bloccante [il carvedilolo]
in pazienti con scompenso cardiaco, sapendo che il farmaco non è
tollerato da una certa quota di pazienti, ha deciso di far precedere la
randomizzazione da un periodo chiamato run in nel quale
tutti i pazienti assumevano il farmaco e venivano eliminati quelli che
non lo tolleravano. In questo modo, arruolando successivamente solo
quelli che hanno sopportato il carvedilolo, si è potuta condurre una
ricerca, adottando formalmente il rigoroso criterio dell’intention to treat ma seguendo di fatto il metodo del drug efficacy.
La scelta di svolgere analisi per sottogruppi.
Le analisi per sottogruppi vengono eseguite per verificare come si
comportano i pazienti che hanno particolari caratteristiche cliniche,
sottoposti al trattamento. Avendo a disposizione migliaia di dati, i
ricercatori sono tentati di verificare se il trattamento è più efficace
per esempio nelle donne, negli anziani o nei pazienti con particolari
caratteristiche cliniche. Se si eseguono migliaia di confronti se ne
troveranno sicuramente alcuni la cui differenza risulta statisticamente
significativa.
Facciamo un esempio: una volta completata
la ricerca, si suddivide la casistica in maschi e femmine, in quattro
gruppi di età e in quattro livelli di frazione di eiezione, in modo tale
da eseguire confronti incrociati tra 32 sottogruppi di pazienti. Se i
risultati complessivi della ricerca non dimostrano una differenza
statisticamente significativa tra i trattati e i controlli, ci possiamo
attendere una probabilità del 19% che in uno di 32 sottogruppi si
dimostri una differenza statisticamente significativa [valore P<0,05]
a favore del farmaco attivo.
Questa dimostrazione di efficacia in uno
dei 32 sottogruppi avviene per puro caso e sarebbe quindi improprio
spacciarlo come una conclusione della ricerca, sostenendo che il
trattamento, seppur inutile nell’insieme della casistica, è invece
efficace, per esempio, nelle donne anziane con frazione di eiezione >
50%.
Quando l’analisi per sottogruppi viene
svolta alla fine della ricerca [a posteriori] su caratteristiche non
predefinite può sorgere il sospetto che le caratteristiche siano state
scelte sulla base di un risultato di efficacia ottenuto da analisi
statistiche condotte per trovare differenze statisticamente
significative. Se invece viene deciso prima dell’inizio della ricerche
[a priori] quali sottogruppi verranno analizzati, si ha comunque la
garanzia che i sottogruppi siano stati scelti sulla base dell’importanza
clinica e non sulla base dei risultati ottenuti per caso nelle analisi
eseguite a ricerca ormai conclusa.
Sarebbe ancora più corretto, dal punto di vista metodologico, eseguire una randomizzazione stratificata.
La scelta di come presentare i dati.
Quando in una ricerca clinica l’incidenza di eventi è bassa, è più
vantaggioso presentare i risultati in termini di riduzione relativa
rispetto al gruppo di controllo che in termini di riduzione assoluta [esempio 1 ... esempio 2 ... esempio 3].
Facciamo un esempio semplice. Se nel
gruppo sperimentale si osserva una mortalità dell’1% e nel gruppo di
controllo del 2% è meglio dichiarare che il farmaco ha dimezzato la
mortalità, piuttosto che affermare che ha ridotto la mortalità dell’1%.
Entrambe le espressioni sono corrette dal
punto di vista statistico, ma hanno un impatto nella comunicazione del
messaggio ben diverso!
Ha una rilevanza riportare i risultati in
termini di riduzione relativa o assoluta? I medici si fanno un’idea
diversa dei risultati di una ricerca in base al modo con cui vengono
presentati?
In uno studio condotto nel 1993
è stato somministrato a un gruppo di medici di medicina generale un
questionario nel quale venivano riportati i risultati dell’Helsinki
Heart Study in termini di riduzione relativa [34%] di riduzione assoluta
[1,4%] e di numero necessario da trattare [77 pazienti]. Il “trucco”
del questionario consisteva nel fatto che i dati venivano presentati
come se fossero stati ricavati da tre distinte ricerche. Ai medici
veniva chiesto se fossero stati disponibili a prescrivere quei tre
farmaci sulla base dei risultati documentati da quei dati. L’86% dei
medici si è dimostrato favorevole all’uso del farmaco i cui risultati
erano presentati in termini di riduzione relativa, ma solo il 25% circa
quando lo stesso dato veniva presentato in termini di riduzione assoluta
o di numero necessario da trattare.
TERZA TAPPA: CONTROLLA LA PUBBLICAZIONE
– Quando la ricerca è conclusa e i risultati sono pronti, con quali
meccanismi si può modulare l’impatto dell’informazione, facilitando la
diffusione dei risultati positivi e contrastando quelli negativi?
Eccone alcuni:- non inviare l’articolo a una rivista;
- pubblicare un lavoro negativo su una rivista minore;
- ritardare la pubblicazione di risultati non favorevoli;
- anticipare la diffusione dei risultati favorevoli;
- dare maggior enfasi a un farmaco pubblicando il nome commerciale.
Non inviare l’articolo a una rivista.
È opinione diffusa, suffragata da molti riscontri, che le ricerche
nelle quali sono stati ottenuti risultati negativi non interessino e che
quindi non valga la pena pubblicarli. Questo fenomeno chiamato publication bias [esempio 1 ... esempio 2]
è stato ampiamente discusso sulla stampa scientifica, soprattutto
quando si è iniziato a eseguire valutazioni sistematiche della
letteratura scientifica con il metodo delle metanalisi, che si limitano a
valutare solo le ricerche con risultati positivi, distorcendo le
conclusioni a favore del farmaco.
La non pubblicazione dei risultati di una ricerca è un problema molto serio [da taluni definito un vero e proprio comportamento non etico] dal punto di vista della completezza dell’informazione e della sicurezza dei pazienti.
Molti anni fa Dickersin [Mount Sinai School of Medicine of CUNY, New York, esempio 1 ... esempio 2]
aveva intervistato 318 ricercatori sui risultati ottenuti dalle loro
ricerche e su quale esito avevano avuto. L’efficacia del trattamento
studiato era stata dimostrata nel 55% delle ricerche completate e
pubblicate e solo nel 14% di quelle completate e non pubblicate. Il
motivo principale della non pubblicazione delle ricerche con risultato
negativo era legato al fatto che gli autori non ritenevano fosse un modo
efficiente di impiegare il proprio tempo. In secondo luogo c’è il forte
sospetto che i direttori delle riviste scientifiche [nonostante alcuni
affermino il contrario] esempio 1 … esempio 2 preferiscano pubblicare articoli nei quali si dimostra che un trattamento serve, riduce eventi, migliora la qualità della vita.
In effetti, un direttore, che deve anche
far quadrare il bilancio della rivista, se decide di pubblicare un
articolo che mette in cattiva luce un farmaco sa che l’articolo verrà
citato di rado senza accrescere l’impact factor della rivista e che verranno ridotti gli investimenti in pubblicità dell’industria produttrice.
Da una revisione delle ricerche sui farmaci antinfiammatori è stato scoperto che è avvenuta la pubblicazione di solo uno dei 37 trial presentati alla Food and Drug Administration
per il processo di approvazione dal momento che è meglio rendere
pubblici solo quelli che hanno fornito risultati favorevoli. Questa
bassa “resa” della ricerca è indubbiamente un problema di primaria
importanza perché al pubblico di medici, ricercatori e pazienti giunge,
sotto forma di pubblicazioni consultabili, solo un piccola parte del
materiale scientifico prodotto. Va infine considerato che la non
pubblicazione dei risultati di una ricerca ha anche un importante
risvolto etico: un paziente accetta di essere arruolato in un protocollo
e quindi investe parte del proprio tempo e affronta un rischio
soggettivo per contribuire all’avanzamento delle conoscenze
scientifiche. Se il contributo del paziente viene “sprecato” si infrange
il patto fiduciario che si è instaurato tra ricercatore e paziente.
Pubblicare un lavoro negativo su una rivista minore.
L’importanza delle riviste biomediche viene codificata dal numero di
volte che un articolo viene citato da altri autori [impact factor]. Se
si devono pubblicare i risultati positivi di una ricerca è meglio
inviare il lavoro a una rivista con un elevato impact factor, sapendo
che quella rivista è molto letta e i suoi articoli vengono molto citati.
Se invece i risultati sono negativi è forse meglio ripiegare su una
rivista poco letta ed evitare che la notizia si diffonda troppo.
Un esempio lo troviamo nella vicenda della nifedipina: nel 1984 venne pubblicato un articolo
nel quale si dimostrava una mortalità del 7,9% nei pazienti trattati
con il farmaco e nessun decesso tra quelli trattati con placebo. In
quegli stessi anni vennero seguiti oltre 2 mila pazienti con infarto
miocardico, randomizzati al trattamento con placebo o con nifedipina; la
mortalità risultò simile a 1 e a 5 anni.
Questo articolo venne pubblicato su una rivista secondaria e non ebbe
alcuna diffusione. Bisogna aspettare il 23 agosto 1995, quando Psaty et al.
riportarono i dati di una ricerca di tipo caso-controllo tra i pazienti
ipertesi perché la comunità scientifica venisse adeguatamente informata
del rischio legato al farmaco. Alcuni giorni dopo, il 1° settembre, fu
pubblicata su Circulation una metanalisi di Furberg et al. in
cui vennero presi in considerazione 16 trial clinici randomizzati
riguardanti la nifedipina. Il rischio cumulativo di mortalità saliva da
1,06 a 1,18 a 2,83 per dosi rispettivamente di 30-50 mg, 60 mg e 80 mg
al giorno. Lo stesso giorno il National Heart, Lung, and Blood Institute degli Stati Uniti,
basandosi sulle raccomandazioni di un Ad Hoc Committee on Calcium
Channel Blockers insediato nel giugno di quello stesso anno, emise un
comunicato ufficiale per mettere in guardia i medici: “La nifedipina
a breve durata d’azione dovrebbe essere usata con grande cautela [o non
usata affatto], specialmente ad alte dosi nel trattamento
dell’ipertensione, dell’angina e dell’infarto miocardico“.
Ritardare la pubblicazione di risultati non favorevoli.
A questo proposito può essere interessante notare il differente destino
di ricerche metodologicamente molto simili, ma con risultati
differenti. La ricerca nella quale si dimostra un importante vantaggio
del defibrillatore impiantabile venne pubblicata nel novembre 1997 sul New England Journal of Medicine,
pochi mesi dopo l’interruzione della ricerca [avvenuta nell’aprile
dello stesso anno]. Sulla base di quei dati furono aggiornate le
linee-guida internazionali e fu stabilito che il defibrillatore è un
trattamento raccomandato per episodi sincopali. La ricerca invece nella
quale la riduzione della mortalità non risultò statisticamente
significativa, pur essendosi conclusa nel marzo del 1998, venne pubblicata su Circulation soltanto nell’agosto del 2000.
Anticipare la diffusione dei risultati favorevoli.
Quando i risultati della ricerca sembrano favorevoli al proprio
prodotto è necessario avviare una campagna che coinvolga tutti [opinon
leader, medici, riviste scientifiche, giornalisti e pazienti] e che
inizi ben prima della pubblicazione ufficiale dei dati e che duri nel
tempo, ben oltre le iniziali fasi di lancio del prodotto.
Di solito l’intervallo che intercorre tra
la chiusura di una ricerca e la pubblicazione dell’articolo di
presentazione dei risultati può essere di alcuni mesi o anni. Per
accelerare la diffusione di risultati “interessanti” nei congressi
vengono organizzate apposite sessioni [hot sessions] durante le quali
possono essere presentati, in via preliminare, i risultati che poi
compariranno su una rivista. Alcune di queste sessioni vengono
teletrasmesse in diretta in tutto il mondo affinché tutti i medici
possano apprendere istantaneamente il “verbo”. I risultati vengono
anche diffusi con press release fornite ai giornalisti, in modo da
raggiungere i quotidiani e i giornali di settore.
I dati sono preliminari e ovviamente pochi, alcune di queste ricerche non verranno mai pubblicate, ma in realtà interessa che la notizia circoli.
Nei mesi successivi sono organizzati seminari locali, riunioni di
medici, simposi nell’ambito dei congressi a carattere nazionale nei
quali i risultati vengono ulteriormente amplificati. Infine, è
importante riuscire a pubblicare i risultati su una rivista importante
in un breve lasso di tempo.
Per le riviste, ovviamente, è importante
pubblicare i risultati di studi di rilievo visto che questi saranno
accompagnati da specifici interventi di marketing degli sponsor
interessati. Parte di questo marketing consisterà nell’acquisto di un
grande numero di estratti dell’articolo, con un importante ritorno
economico per la rivista stessa.
Questo potenziale processo distorsivo può addirittura venire amplificato dal processo di “pubblicazione accelerata” [fast track]
attivato dalle più importanti riviste negli ultimi anni. Quando invece i
risultati, come nel caso del GISSI-3 sul trattamento con i
nitroderivati, dimostrano l’inutilità del farmaco, se ne parla molto
meno. Negli anni successivi non abbiamo visto i soliti opinion-leader
spiegare che i nitroderivati, dopo l’infarto, sono inutili né sono stati
organizzati simposi satellite nell’ambito dei congressi delle società
scientifiche.
Dare maggior enfasi a un farmaco pubblicando il nome commerciale.
Questo aspetto non è molto trattato in letteratura, ma si tratta
indubbiamente di un problema che avrà crescenti implicazioni, anche
perché sta aumentando. Tre ricercatori hanno provato ad analizzare gli
abstract pubblicati nelle tre edizioni consecutive del congresso
mondiale sul dolore [World Congress on Pain of the International Association for the Study of Pain] tenutesi nel 1993, 1996 e 1999.
La percentuale di abstract nei quali
veniva riportato il nome commerciale di un farmaco è aumentata dal 19%
del 1993 al 36% nel 1999 [aumento relativo dell’89%]. Gli autori fanno
rilevare che non ha alcuna giustificazione scientifica riportare il nome
commerciale in un abstract e che si rischia di trasformare le sessioni
di comunicazioni in una vera e propria seduta di propaganda farmaceutica.
IPOTETICI CORRETTIVI
La dichiarazione del conflitto
La dichiarazione esplicita dei potenziali o effettivi CdI
è una delle misure più largamente adottate in questi anni sia dalle
riviste scientifiche al momento della pubblicazione dei risultati sia da
organismi e commissioni come condizione di appartenenza. L’assunzione
di fondo delle regole di disclosure è che rendere espliciti i potenziali
CdI possa rendere consapevole il lettore di eventuali
difetti nell’analisi e interpretazione dei risultati. Al di là
dell’ovvio desiderio della trasparenza non è tuttavia chiaro quale sia
l’effettiva efficacia di questa regola nel permettere una valutazione
più attenta da parte del lettore. C’è anche chi teme che questo obbligo
alla disclosure possa diventare una sorta di routine formale
che avrebbe, alla fine, il solo risultato di “assolvere la coscienza”
senza incidere in modo sostanziale sulla corretta interpretazione dei
risultati.
Sono stati anche condotti due piccoli
studi randomizzati disegnati appositamente per valutare l’impatto sui
lettori delle dichiarazioni di CdI in calce ad articoli pubblicati.
Nel primo
gli autori hanno confrontato il giudizio di un gruppo di lettori su un
articolo relativo alla terapia del dolore da herpes presentato in due
formati diversi. In un formato non veniva riportata alcuna dichiarazione
di CdI, mentre nell’altro allo stesso articolo era stata aggiunta una dichiarazione di CdI relativa alla fonte di finanziamento [industriale]. Quando i lettori leggevano la versione con dichiarazione di CdI
veniva a questo attribuita minore validità, importanza, rilevanza e
soprattutto, credibilità rispetto allo stesso articolo nel quale non era
riportata un’esplicita dichiarazione di CdI.
Nel secondo e più recente studio
gli autori hanno voluto specificamente verificare se vi era anche un
impatto differenziale nella percezione dei lettori del tipo di CdI dichiarato, distinguendo tra casi in cui non vi era nessun CdI dichiarato, casi in cui il CdI riguarda il diretto finanziamento della ricerca e casi infine in cui il CdI consisteva nell’aver ricevuto un finanziamento per il supporto di borsisti e ricercatori.
In questa eventualità era la versione
dell’articolo nel quale gli autori dichiaravano che lo studio era stato
finanziato dall’industria a venire giudicata meno credibile e rilevante
rispetto a quella in cui non vi era nessuna dichiarazione di CdI o in cui il finanziamento aveva riguardato borse di studio.
Questi due studi, per quanto di piccola dimensione, sembrerebbero confermare che la dichiarazione di CdI provoca un aumento della consapevolezza e dell’attenzione critica ai risultati.
Ulteriori ricerche in questo senso
sembrano opportune, anche se la scelta di mantenere ferma una sempre più
stretta politica della disclosure sembra utile come indicatore
esplicito di necessità di trasparenza. E da questo punto di vista la
necessità di un miglioramento soprattutto nel contesto italiano – come
le ricerche del CIRB, Coordinamento per la Integrità della Ricerca Biomedica hanno dimostrato – appare quanto mai necessaria.
La proprietà dei dati
La proprietà dei dati è pertanto una
questione cruciale su cui in questi ultimi anni si è verificato un
importante movimento di opinione e numerose iniziative. Da un’indagine condotta su duemila ricercatori,
pubblicata sul JAMA, si dimostra che nei contratti stipulati tra
ricercatori e industrie farmaceutiche è praticamente una consuetudine
che queste pongano il diritto di veto sulla decisione di pubblicare i
risultati ottenuti dalla ricerca.
Ciò significa che i medici
leggono su riviste prestigiose prevalentemente ciò che interessa
l’industria e quindi anche l’aggiornamento di alto livello scientifico
viene viziato!
In larga parte questo problema deriva
dalla confusione tra “proprietà” del dato e la sua “disponibilità” per
l’uso e la comunicazione all’interno del mondo scientifico e sanitario.
In Italia non ci sono dati precisi
sull’entità del fenomeno, ma sulla base di quanto viene riportato negli
incontri e discussioni dei comitati etici [CE] nella maggior parte degli
studi finanziati dall’industria farmaceutica il vincolo alla
pubblicazione dei risultati previa autorizzazione dello sponsor stesso è
assai diffuso.
Questo fatto assume maggiore o minore gravità se associato al fatto che alcuni sponsor:
- raccolgono e analizzano direttamente i dati degli studi;
- si arrogano il diritto di sospendere lo studio in qualunque momento della conduzione dello stesso;
- sostengono studi nei quali non esiste neppure uno Steering Committee e un Data Safety and Monitoring Board indipendente, con facoltà di prendere decisioni per quanto riguarda la conduzione e pubblicazione dello studio.
Sembra che la gravità di questa
situazione cominci ad essere colta anche dagli “addetti ai lavori”, come
emerso in tempi non sospetti da un’indagine condotta dal CIRB
sia interrogando le società medico-scientifiche sia i direttori
generali di aziende sanitarie, cui i CE dovrebbero rispondere. Un passo
importante è stato compiuto dal Ministero della Salute, che con una circolare del settembre 2002
ha invitato i CE a considerare in modo negativo la presenza del vincolo
di pubblicazione da parte dello sponsor nel contratto di ricerca
relativo alla sperimentazione. È vero che si tratta di una circolare –
per definizione non vincolante – e non di un decreto ma è pur vero che
si tratta di una significativa presa d’atto che sembra non
avere equivalenti a livello internazionale.
Al momento non è noto quale sia il
livello di attenzione e applicazione alle raccomandazioni di questa
circolare da parte dei CE che spesso sono ancora divisi sul definire la
giurisdizione del proprio compito [ovvero se vigilare solo sugli aspetti
di consenso informato, di assicurazione e di tutela del paziente o se
entrare anche nel merito degli aspetti scientifici più generali di un
pro- tocollo, affrontando in questo senso anche il problema della
pubbliciz-zazione e disseminazione dei risultati].
L’indispensabile registro dei trial
Per contrastare il fenomeno della mancata
pubblicazione dei risultati negativi è stata da più parti avanzata la
proposta di istituire un registro ufficiale delle ricerche che vengono
avviate, affinché se ne possa tenere traccia. Viene stimato che sia
possibile rintracciare solo metà delle ricerche svolte nel mondo.
La banca dati di letteratura biomedica più completa, Medline, “cattura” solo gli articoli delle riviste che recensisce [la maggior parte in inglese].
Per riempire i vuoti lasciati da una schedatura parziale della letteratura medica, la Cochrane Collaboration
ha lanciato una campagna di ricerca manuale, reclutando volontari che
andassero a scartabellare, in modo sistematico, tutti i fascicoli di
oltre 2.200 riviste, a partire dal 1948.
Il risultato?
Alla fine del 2002 da Medline si potevano
ricavare notizie di 229.000 ricerche cliniche, mentre il Registro dei
trial clinici della Cochrane Collaboration ne aveva recuperati oltre 360.000.
È stato stimato
che senza una ricerca manuale degli articoli, affidandosi soltanto a
una ricerca elettronica con Medline, si perde circa un terzo delle
ricerche pubblicate dal 1966.
Rimane comunque il problema che molte
ricerche, regolarmente condotte a termine, non vengono pubblicate e
quindi sfuggono anche al controllo manuale: un dato pubblicato
riguardava il fatto che dei 510 trial clinici randomizzati presentati
dal 1989 al 1998 al convegno annuale dell’American Society of Clinical
Oncology, il 26% non risultava pubblicato in esteso dopo cinque anni.
Un compito fondamentale di monitoraggio
sul destino delle ricerche cliniche avviate spetta indubbiamente al CE
locale che le ha approvate [esempio 1 ... esempio 2].
Infatti l’eticità di una ricerca non si esaurisce nella predisposizione
di un protocollo privo di vizi di forma, ma anche in una conduzione
conforme al protocollo e nella pubblicazione dei risultati, qualunque
essi siano!
Abbastanza recentemente un gruppo di ricercatori spagnoli
ha valutato il destino delle 158 ricerche cliniche approvate da un CE
nel 1997: solo il 64% si era concluso secondo i criteri previsti da
protocollo e solo il 31% delle ricerche concluse era stato pubblicato o
era in corso di pubblicazione dopo tre anni. I dati ricavati da un altro CE spagnolo riportano un tasso di pubblicazione ancora più basso, pari al 20%.
In Italia, il processo sembra più avanti
che altrove; la Direzione generale per la valutazione di medicinali e
la farmacovigilanza ha istituito un Osservatorio nazionale sulla
sperimentazione clinica dei medicinali, “uno strumento
tecnico-scientifico che ha lo scopo di garantire la sorveglianza
epidemiologica sulle sperimentazioni condotte in Italia e l’obiettivo
strategico di monitorare l’andamento qualitativo quantitativo della
ricerca clinica farmacologica italiana” [esempio 1 ... esempio 2].
L’Osservatorio ha attivato un registro
informatizzato nel quale vengono raccolti i dati riguardanti tutte le
ricerche approvate dai CE locali, con lo scopo non solo di documentare
l’attività di ricerca svolta in Italia e di fornire a ricercatori,
comitati etici e industrie farmaceutiche un panorama aggiornato di quali
molecole vengono studiate, in quali centri e con quali ricercatori, ma
anche di fornire le informazioni necessarie per monitorare l’andamento
delle ricerche sulle quali è stato dato un parere favorevole.
L’iniziativa, una delle prime di questo
genere in Europa, è sicuramente di grande interesse perché permette di
avere un panorama completo delle sperimentazioni approvate in tutto il
territorio nazionale dai CE locali e conseguentemente la fotografia
continuamente aggiornata di quali sponsor investono, in quali centri, su
quali farmaci.
Purtroppo, nonostante
l’informazione sia su rete locale, l’accesso alle informazioni è
limitato a coloro che hanno l’autorizzazione a inserire i dati, minando
alle fondamenta uno dei principi ispiratori del progetto: consentire a
ricercatori, esperti di settore, associazioni di pazienti di controllare
i flussi della ricerca, valutare quali ricerche si concludono, dove
vengono pubblicati i risultati.
Le resistenze maggiori [non solo in Italia] vengono dall’industria farmaceutica che impedisce che questo materiale venga reso di dominio pubblico. Non sono però mancati segnali sia in Italia sia all’estero che grandi aziende intendano perseguire la strada della trasparenza,
dal momento che la credibilità dell’industria, spesso messa in
discussione per gli ampi margini di profitti, viene accresciuta dalla
dimostrazione di una profonda base etica e scientifica del suo lavoro.
Una maggiore criticità dei giornalisti
Nel quadro tracciato dei conflitti
d’interesse non si deve sottovalutare il ruolo svolto dai giornalisti
scientifici e dai mezzi di comunicazione.
A leggere i risultati di una ricerca tutta italiana [The unbearable lightness of health science reporting]
che misura il grado di attendibilità, trasparenza ed equilibrio della
divulgazione scientifica sui quotidiani e i settimanali di casa nostra,
la risposta non lascia spazio all’ottimismo. Quando si parla di salute
al grande pubblico, devono essere soppesati tutti gli aspetti in gioco: i
benefici di un vaccino o di una terapia non farmacologica, ma
soprattutto i rischi per il paziente e i costi per il sistema. E va
cercata e svelata la presenza di eventuali conflitti di interesse, se
cioè esiste un legame di natura finanziaria fra l’azienda produttrice e
la fonte di informazione: medici, riviste, associazioni, giornalisti.
Perchè se l’esperto è a libro paga dell’industria, questo condiziona
inevitabilmente il punto di vista. E chi legge, ha tutto il diritto di saperlo.
I giornalisti sono infatti fortemente
coinvolti nella condizione di conflitto e anche per loro dovrebbero
valere le regole di trasparenza esposte per i ricercatori e gli altri
attori della sanità.
Gli studi pubblicati in letteratura al riguardo sono ben pochi
e per lo più rivolti al giornalismo diretto agli operatori sanitari e
non al grande pubblico, per cui se la strada da percorrere per
l’indipendenza della ricerca è ancora lunga, quella per un giornalismo
medico-scientifico libero da vincoli è ancora da individuare.
Occorre cioè partire dal primo gradino, che consiste nel prendere coscienza della situazione di conflitto in cui ci si trova.
Un’indagine condotta dal CIRB nel 2003
mostra appunto come il comportamento dei giornalisti sia ambivalente:
da una parte dicono di essere coscienti della possibilità del conflitto
d’interessi nella loro professione e dall’altra dichiarano di non
averlo.
L’indagine è stata condotta attraverso un
questionario anonimo inviato a 121 giornalisti italiani del settore
medico-scientifico, nel quale si indagava sulle opinioni riguardanti i CdI
e si passava poi a capire quanto alle posizioni di principio dichiarate
da ciascuno corrispondesse nell’attività quotidiana un comportamento
conseguente.
Sottolineato il fatto che solo una
piccola percentuale dei contattati ha deciso di rispondere al
questionario, nonostante ripetuti richiami [39/121, cioè poco più del
32%] e che quindi i dati raccolti non hanno alcuna significatività
statistica ma sono semplicemente una cartina al tornasole di quanto
accade in Italia, emerge chiaramente che quasi tutti i rispondenti [95%]
riconoscono che il CdI è un problema della propria professione e addirittura il 97% dichiara che la presenza di un CdI può influenzare il giornalista.
Una posizione più che chiara che però non
può essere estesa all’intera categoria, visto che si può facilmente
ipotizzare un bias di autoselezione iniziale dei rispondenti: hanno
risposto i giornalisti già sensibilizzati o più sensibili a questi temi.
Ciononostante, quando si passa dal
versante teorico a quello pratico anche in questo gruppo interessato di
giornalisti si scopre che solo uno su tre [32%] ritiene di avere un
conflitto d’interesse e che, tra coloro che sono andati a un convegno
pagati [per viaggio e soggiorno] da un’azienda farmaceutica, solo un
terzo [38%] ritiene che ciò possa avere influenzato l’articolo scritto
al ritorno.
La contraddizione è stridente, ma è in
perfetta sintonia con quanto si osserva in generale su questo argomento:
ciascuno ammette l’importanza e l’influenza che possono svolgere i CdI,
ma quando si va nel particolare chi è interessato dal conflitto pensa
di non esserlo oppure, riconoscendolo, dichiara che esso non può
influenzare il proprio agire.
Questo doppio livello, uno di apparente
consapevolezza e l’altro di apparente incoscienza, si conferma
nell’indagine anche quando si chiede ai giornalisti che cosa ne pensano
degli “opinion leader”, spesso usati come testimoni cui fare affidamento
per il commento alle notizie: gran parte [95%] dei giornalisti
scientifici dubita dell’affidabilità degli “opinion leader” che possono
essere legati ad aziende farmaceutiche ma, una volta alle prese con la
scrittura di un articolo, l’82% dei giornalisti si affida sereno a un
esperto.
Il quadro che emerge da questa indagine
non è certo rassicurante, soprattutto per i lettori – operatori sanitari
o pubblico in genere – che devono in qualche modo potersi difendere,
sapendo almeno se chi scrive un articolo è o no in condizioni di CdI.
Si pone quindi per il giornalista la
necessità di rendere sempre palesi i propri conflitti e anche quelli
dell’eventuale esperto intervistato e dei ricercatori coinvolti nello
studio di cui si parla. Si tratta di un’utopia? Forse. Intanto i
giornalisti scientifici che hanno partecipato all’indagine sono concordi
[81% del totale dei rispondenti] nell’esigenza di avere linee-guida di
comportamento sui CdI.
Si può discutere sull’utilità di tale
documento, ma non certo sul fatto che sarebbe un primo segnale
importante. Al riguardo è stato pubblicato nel 2004 un primo documento
di consenso sottoscritto da vari attori [giornalisti scientifici,
ricercatori, aziende farmaceutiche, associazioni di cittadini] nel quale
per altro emerge ancora chiara una dicotomia tra chi considera con
preoccupazione i CdI e chi invece ritiene “non
compromettente, a fronte di rapporti chiari e trasparenti con le case
farmaceuti- che, accettare inviti per congressi internazionali, convegni
e conferenze stampa importanti“, dimenticando forse che i rapporti “chiari e trasparenti” non dovrebbero essere tanto o solo con le aziende farmaceutiche, quanto con i propri lettori in merito alla medicalizzazione della vita e alla comunicazione sanitaria.
CONCLUSIONI
L’EBM ha contribuito a portare alla luce il tema del CdI
in campo medico. L’esperienza acquisita in questi anni suggerisce che
il problema è molto complesso, ha molte facce, non si presta a soluzioni
semplici e univoche e fa crollare alle fondamenta il castello delle
favole sul quale si regge il dogma dell’immacolata vaccinazione.
Ironicamente, proprio il successo che il movimento EBM
ha ottenuto nel pretendere un innalzamento degli standard metodologici
della ricerca rende oggi più difficile isolare gli studi di cattiva
qualità metodologica e, pertanto, palesemente inaccettabili.
Come dimostrato, oggi una “ecologia della ricerca clinica ed epidemiologica” passa attraverso la capacità di evidenziare trucchi sottili e sofisticati,
ma soprattutto attraverso l’imposizione di regole che per quanto non
sufficienti a risolvere i problemi, servano ad aumentare la fiducia nel
recupero e mantenimento di una dimensione etica alla ricerca e alla
diffusione dei suoi risultati.
Non bastano le evidenze, la definizione
di regole chiare tra sponsor e ricercatori, l’attivazione di registri
degli studi in corso, la maggiore serietà e rispetto delle regole in chi
fa divulgazione dell’informazione scientifica.
Serve soprattutto uno sforzo collettivo
per restituire una fiducia che altrimenti il pubblico non potrà che
perdere progressivamente.
Il servizio sanitario deve fare la sua
parte cercando di limitare lo sbilanciamento strutturale che oggi
caratterizza la ricerca e agendo, ora che le regioni e le aziende
sanitarie sono maggiormente responsabilizzate in questo senso, da
stimolo per l’individuazione dei quesiti realmente rilevanti per
l’assistenza e accettando a sua volta [quando è direttamente sponsor di
ricerca] di sposare le stesse regole di trasparenza che si pretendono
giustamente dalle diverse parti in causa.
Le associazioni scientifiche e
professionali devono riscoprire il proprio ruolo di produttori di
ricerca clinica avendo come stella polare la rilevanza dei risultati per
i pazienti e non un generico ritorno di immagine per il solo fatto di
fare ricerca. E avendo anche presente la necessità di accettare una
logica interdisciplinare e interprofessionale in assenza della quale il
loro ruolo scadrà inevitabilmente in quello di gruppi di potere
interessati alla difesa dei propri interessi corporativi. L’industria
deve accettare regole elementari di trasparenza e non confondere il
proprio [legittimo] diritto ad avere un ritorno dal proprio investimento
in ricerca con una licenza a interferire nella produzione e
disseminazione dei risultati immaginando che la pubblicità [legittima]
del proprio prodotto possa avere a che fare con un’informazione
obbiettiva sull’appropriatezza d’uso di farmaci o tecnologie in un
determinato contesto assistenziale.
La situazione, soprattutto italiana, non induce a un particolare ottimismo ed è proprio per questo che il movimento EBM
deve attrezzarsi, sia riconoscendo la complessità della posta in gioco
sia promuovendo una specifica agenda di ricerca sulle molteplici facce
del CdI in medicina e dei modi più efficaci per portarlo alla luce e contrastarlo.
Pubblicato da Autismo & Vaccini che dovrebbe vergognarsi di esistere
Ma come si fa a scrivere così tanta roba... che noia, c'è pure il sole fuori!
ReplyDeletesinceramente è illeggibile, oltre che assurdo.
ReplyDeleteIl complottista, sapendo di mentire, per infinocchiare meglio i suoi gonzi creduloni, propala una marea di parole, quasi esclusivamente aria fritta, cosicché i gonzi creduloni, non la leggano ma vengano intimiditi dalla valanga di parole. Non si rendono conto che sono solo insulsaggini e cazzate immani, peró la mole fa loro credere che il ciarlatano che la scrive sia uno che sa.
ReplyDelete"Didn't read, lol"
ReplyDeleteMa qualcuno ha avuto lo stomaco di leggerlo tutto? Perche' io sono arrivato a "Il sottoscritto non solo è in buona fede ma scrive con ampia cognizione di causa", e li' mi sono rotolati i gioielli di famiglia sotto il tavolo (li sto ancora cercando...).
ReplyDeleteQuesto demente spera forse di sopperire con la quantita' alla mancanza assoluta di qualita' delle vaccate che scrive? Qualcuno gli spieghi che non e' cosi' che vanno le cose...
Io in tutta sincerità ho letto qualche pezzetto qui e li, ma siccome sono cazzate ho preferito non memorizzare nulla, altrimenti mi sarebbe andato in corto il cervello per eccesso di dementia scriptens.
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